(1100) BITSTOP – nuova partenza

Se sei arrivato ora, soltanto ora, mi dispiace ma sei arrivo troppo tardi. Questo blog è stato un viaggio lungo tre anni e si è concluso perché così era stato deciso sin dall’inizio. Tutto rimarrà intatto in questo luogo, così come è avvenuto. Puoi leggere a ritroso (da questo al primo post) o puoi iniziare dal principio e sceglierti il passo che vuoi. Puoi anche saltare di qua e di là. Puoi addirittura andartene via senza leggere nulla. Ma per favore non sbattere la porta, non sarebbe gentile.

(Barbara Favaro – l’autrice)

 

Me ne sono inventata un’altra. Sì, inevitabile come un’escremento di piccione che ti cade in faccia in Piazza San Marco a Venezia. Mi dispiace.

Un blog che è un punto di ristoro, ecco l’idea. Prende ispirazione dal Pitstop che nel mondo delle corse è quella pausa di rifornimento necessaria a chi corre a perdifiato in pista per arrivare primo.

Noi tutti corriamo e corriamo in pista tutti i santi giorni, per questo abbiamo bisogno di un pitstop ogni tanto. Magari a metà settimana. Magari per godersi qualcosa di bello e inaspettato. Magari qualcosa che sia gratuito e che non abbia controindicazioni. Qualcosa così.

Ogni mercoledì, a partire dal 9 ottobre 2019, fermatevi un po’ qui da me: BitStop.

Un Bit per fare un bel respiro e poi tornare in pista per arrivare primi.

Io vi aspetto e… passate parola se vi va.

 

 

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(1099) MENTRE – il pentimento

In tutte le storie che funzionano a un certo punto c’è un baratro che si apre e gli eroi ci finiscono dentro. Infatti, io e il mio team (vedi post precedente) a un certo punto ci siamo visti risucchiare da un vortice di morte. 

Non volevo scrivere. Mi sembrava inutile. Mi sembrava stupido. Mi sembrava troppo faticoso. Scrivevo altro, scrivevo per lavoro, scrivevo per uno scopo più concreto. Scrivere i ***Giorni Così*** mi sembrava soltanto una perdita di tempo. Certo che continuavo a farlo, ma con la certezza che avrei fatto meglio a smettere. Non me li rileggevo neppure, li pubblicavo e basta.

Facevo anche fatica a trovare un topic nuovo (pensare a quante parole esistono nel dizionario della lingua italiana e io lì che non riuscivo a sceglierne una per scrivere qualche pensiero… era allucinante). Per esempio: il mio post 998 si intitola “Ineluttabile” e ottantasette giorni dopo ho pubblicato il 1085 titolato “Ineluttabilità”. E non me ne sono accorta. Ok, una volta in tre anni può capitare, è vero. Allora eccovi un altro esempio: il 27-10-2018 ho scritto “Via” e il 01-05-2019 ho scritto “Vie”. Addirittura ridicolo, concordo.

Non ho mollato soltanto perché avevo dato la mia parola: tre anni, tutti i giorni, senza perdere un colpo. E ogni volta che ci pensavo mi pentivo amaramente: ma come cazzo m’è venuto in mente?! E non c’era nessuno che mi diceva “dai, scrivi!” perché giustamente a nessuno interessava. Giustamente. Davvero.

Un giorno mi sono fermata a guardarmi mentre brancolavo come una patetica ubriaca in cerca di un argomento di cui parlare e mi sono messa a ridere. Che diavolo di melodramma stavo portando in scena? A che scopo? Era una lamentela fine a sé stessa perché avrei potuto tranquillamente mollare. Ma non lo facevo non solo per aver preso un impegno, lo facevo anche perché in fin dei conti ci credevo. Credevo che alla fine ne sarei stata contenta. Alla fine avrei capito un po’ più di me stessa e della mia scrittura. Alla fine avrei potuto darmi una pacchetta sulla spalla e dichiarare senza paura di essere smentita che ce l’avevo fatta.

1095 giorni di scrittura quotidiana. Pensavo che ogni mese avrei potuto scrivere due righe a me stessa monitorando il lavoro mentre lo stavo svolgendo. Una sorta di resoconto del work in progress. Ho resistito soltanto qualche mese, mi sono ben presto resa conto che non potevo sostenere una lucidità che non avevo. E non potevo averla perché ero troppo coinvolta, quindi ho lasciato perdere. In fin dei conti già stavo facendo del mio meglio per aprire ogni giorno il blog e tentare di scrivere qualcosa che avesse un senso.

Chi altro può dire di aver fatto lo stesso nel suo blog? Non lo so, magari qualcuno sì, ma ben pochi. Ecco, io sì.

E allora? Niente. Le cose che contano nella vita sono ben altre, me ne rendo conto, ma onorare un impegno preso (soprattutto se preso con me stessa) è una di quelle cose a cui tengo. Danno la misura della persona che sono. E mi piace essere questo tipo di persona. Nel bene e nel male. Mi piace.

Quindi mi sono pentita di aver ceduto al baratro e esserci finita dentro per settimane. Non era necessario, me lo sarei potuta evitare. Avrei potuto usare un po’ di ironia, di autoironia, e bypassare il baratro con una certa agilità. Non l’ho fatto. Non so perché, ma non l’ho fatto. E la cosa peggiore è che di tanto in tanto lo faccio, anziché schivare la morte della gioia ingoio il veleno e metto in discussione tutto. Non è una mossa intelligente, ma non riesco ad evitare di ricascarci. Il mio lato oscuro.

E quindi, a parte essere dispiaciuta per aver dato retta all’oscurità, posso dire con una certa dose di orgoglio che ho saputo affrontarla e l’ho saputa sconfiggere perché la sfida l’ho vinta e nessuno mi potrà togliere quanto fatto.

Mentre il mondo andava avanti io me lo riscrivevo guardandolo da angoli privati, in silenzio, senza clamore. Con una mug di caffè fumante davanti a me e le mani sulla tastiera. Con gli occhi sul monitor e ogni tanto oltre la finestra. Sempre io, sempre la solita. Mentre il mondo cambiava forse sono cambiata anche io, ma riconosco ancora i miei tratti, non mi sono lasciata sopraffare.

Paura superata.

Davvero.

Wow.

 

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(1098) MENTRE – la concentrazione

Mentre tenacia e entusiasmo sedato facevano il loro lavoro, io dovevo fare i conti con la signora concentrazione. Che è difficile da domare ed è ben più che difficile da motivare.

La stanchezza della giornata, la stanchezza per me stessa, la stanchezza per le cose da fare, la stanchezza pura e semplice. Insomma, la nemica della signora concentrazione, la signorina stanchezza, si palesava ogni volta che mi ci mettevo. Chiamavo a rapporto la signora concentrazione e la signorina stanchezza le saltava addosso come un’adolescente indiavolata intenzionata ad ucciderla.

Non me l’aspettavo. Sinceramente.

Avevo dato per scontato che due righe due, alla sera o alla mattina, fossero la cosa più naturale e indolore che potessi immaginare per me stessa. Lo faccio comunque sulla mia moleskine da quando avevo 15 anni, che sarà mai? Ebbene, il mio impegno veniva letto dalla signorina stanchezza come una tonnellata di cemento armato che andava a gettarsi su di lei, che già di carico ne aveva abbastanza, e non ci stava. Non ci stava proprio.

Quindi stai lì a convincerla che poi ne sarebbe stata sollevata, che anche se l’ora della collassata a letto sarebbe slittata di mezz’ora non sarebbe stata la fine del mondo, che un pensiero uno – se lasciava in pace la signora concentrazione – sarebbe uscito e sarebbe anche stato piacevole… niente. La signorina stanchezza vince su tutto. Eppure, la tenacia e l’entusiasmo testimoni della mia lotta sono sempre riusciti a intervenire in tempo e, supportando la signora concentrazione con cori da stadio, a farmi sviluppare il piccolo timido pensiero che lottava per farsi ascoltare. Sempre.

Una grande grande grande vittoria. 

Forse perché l’idea di non farlo anche solo saltando un post sarebbe stato un fallimento della mia sfida, e questa cosa più passava il tempo più mi era insopportabile. Non esiste che mollo, si va fino in fondo senza se e senza ma. Fu così che l’autodisciplina scese in campo dando man forte ai ***Giorni Così*** che riempivano piano piano questo blog e… sapete cos’è successo?

Nel mentre avevo iniziato a lavorare in un’agenzia di comunicazione, all’interno di un team che condivideva lo stesso open space. Ok, dopo decenni di lavoro solitario ritrovarmi a scrivere in mezzo al casino totale non è stato facile. Però, la mia capacità di domare le bizze della signora concentrazione anche in quel contesto si è amplificata a dismisura. Tutto il giorno la curavo affinché non mi abbandonasse nel bel mezzo della necessità, professionalmente parlando, e la sera le chiedevo un ulteriore sforzo nonostante la signorina stanchezza fosse pronta a ucciderla appena sbucava fuori.

O iniziavo a trattarla bene o non avevo scampo. Quindi mi ci sono messa d’impegno per imparare a curarmi di lei. Ho imparato. La signora concentrazione sa essere grata delle attenzioni che riceve, lo garantisco. Quindi è iniziato un nuovo periodo per noi, un training mica da ridere. I risultati ora li posso tenere in mano, una sicurezza impagabile.

Il mio esperimento era nato anche perché volevo provare a me stessa che quello che andavo ripetendo da anni fosse ancora vero anche per me: la scrittura è autoterapia. Ti insegna a esserci, a pensare meglio, a conoscere in profondità le tue emozioni, a sondare meglio l’origine dei tuoi sentimenti, a concentrarti sul tema e rendere comprensibile soltanto con le parole quello che forse neppure con una fotografia sarebbe facile fare, ad abbracciare gli alti e i bassi perché parte della stessa melodia – che sei tu – e a trovare in te risorse che non immaginavi di avere. 

Così è. E così è ancora per me, nonostante gli anni e nonostante l’evoluzione che la mia scrittura ha sperimentato nel tempo. Così è ancora e così sarà per sempre.

Sollievo e giubilo.

A conti fatti si stava formando una gran folla dentro la mia testa: l’entusiasmo, la tenacia, la signora concentrazione, la signorina stanchezza, l’autodisciplina, la consapevolezza… mi stavano per mancare le sedie a forza di aggiungere un posto a tavola. Eh, caro Johnny Dorelli, fai presto a cantare tu, ma la realtà dei fatti è che le sedie costano se vuoi stare comodo, altrimenti comprando all’Ikea inizi ad avere problemi di sciatica. Difatti sono messa male. Ma sorvoliamo.

Tante lezioni imparate, che si ricordano anche facilmente. E tutto questo grazie a un’idea ascoltata al volo e messa a terra subito per non farla fuggire via. 

Carpe Diem

Mentre…

 

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(1097) MENTRE – l’entusiasmo

Perché sarebbe cosa buona e giusta partire subito con la progettazione di un’idea? Perché appena arriva, l’idea ti piomba addosso con potenza. Questa cosa le serve per far sì che tu ti accorga di lei, altrimenti distratto come sei dalle mille e mille cose che devi fare non te ne accorgeresti neppure che lei ti si sta palesando con tutti gli sberluccichii del caso.

Arrivandoti prepotentemente addosso tu che fai? Ti fermi, la guardi e dentro di te nasce qualcosa. Qualcosa di altrettanto potente e totalizzante che si chiama: entusiasmo. L’entusiasmo è quella emozione che ti fa saltare come un grillo e ti fa tuonare: E-U-R-E-K-A!

Perfetto. Da qui in poi è una discesa, pensereste voi, e invece no. Da qui in poi inizia la salita. Che non richiede entusiasmo, bensì tenacia. L’entusiasmo appena si vede arrivare addosso la montagna comincia a indietreggiare. Già non è più così sicuro che l’idea sia davvero una figata. A questo punto bisogna prendere l’entusiasmo per il collo e tenerlo lì fermo, inchiodato all’idea. Se fai lo sbaglio di fargli prendere aria non lo vedi più. Non devi lasciarti fuorviare dal suo sorriso rassicurante, sta solo pensando a come svignarsela in fretta. Non ha scrupoli, ti lascerà solo davanti alla montagna per fare altro se glielo lasci fare. Il segreto è: non lasciarglielo fare. Punto.

Si tratta di far subentrare la tenacia senza che l’entusiasmo se ne accorga. Tu la fai accomodare e la metti in moto prima ancora di far vedere all’entusiasmo la montagna. Non è facile ma si può fare. Quindi se inchiodi l’entusiasmo, di spalle alla montagna, e lo intorti con belle storie, nel mentre la tenacia inizia a scalare la montagna e guardando di tanto in tanto il bel faccione sorridente dell’entusiasmo si prende bene pure lei e fatica più volentieri.

Ho fatto così per iniziare a scrivere i miei ***Giorni Così*** e ha funzionato a lungo. Davvero a lungo. Sì, ci sono stati dei momenti in cui l’entusiasmo ha tentato di voltare la faccia e guardarsi la montagna che aveva alle spalle, ma sono riuscita a procrastinare quel momento finché si sono accumulati un bel pacco di ***Giorni Così*** e quando l’ho lasciato girarsi lui non si è più concentrato sulla montagna da scalare, ma sul percorso già scalato e sul risultato della fatica (ovvero i post già pubblicati). 

A quel punto l’entusiasmo si è dato una calmata, non mi saltava più da tutte le parti ma senza per questo deprimersi, s’è preso a braccetto la tenacia e hanno scalato insieme. La tenacia dal canto suo è stata contenta. Si è fatta accompagnare volentieri perché ha bisogno di sorrisi e di sostegno pure lei, anche se non lo fa presente e sa fare buon viso a cattivo gioco.

Io li guardavo compiaciuta e a volte commossa. 

Non ero sola.

Mentre…

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(1096) POI – dopo la fine

Uno pensa che dopo la fine non ci sia niente. Questo rende la fine spaventosa. Ecco perché tutti amiamo il to be continued che si coniuga in un prequel o in un sequel o in uno o più spin off. Va tutto bene purché non finisca. Ma siamo proprio sicuri che valga sempre la pena? Eh.

Io faccio così: appena una fine si avvicina mi preparo qualcosa che possa sostituire il posto occupato fino a quel momento dalla precedente occupazione. 

Horror Vacui. 

Mi funziona con le cose, con le attività, non con le persone. Non ho mai sostituito una persona con un’altra, il vuoto lasciato dalle persone che mi finiscono rimane vuoto e pesa come un macigno. 

Per sollevare un po’ la tensione dal concetto “fine” ho spostato l’attenzione su quello di “perpetuo”. Qualcosa che si ripete con costanza e che non intende finire in alcuni casi può essere rassicurante, ma in altri mi risuona come una condanna. Mi riferisco, ovviamente, sempre a cose e attività, non certo alle persone.

Pensare che tutti i giorni della mia vita io debba riproporre a me stessa le stesse attività non mi fa neppure alzare dal letto. No Way!

Che poi ci sia la compulsione ossessiva in me di fare sempre qualcosa di nuovo per mettermi alla prova, bé, questa cosa la discuterò in terapia appena avrò il tempo di iniziarne una. Mica posso fare tutto insieme.

Quindi il poi, quello che verrà, è in fase di progettazione. Suppongo non ci metterò molto a realizzare quello che ora è soltanto un’idea, ma non voglio ancora dare date o spoilerare quel che magari poi non sarà.

Il poi, in realtà, è proprio la fase di passaggio subito dopo il the end. Non è che sia facile scandagliare tutto quello che comporta, ci sono mille e più differenti sentimenti che si mescolano e si prendono gioco di te. Basta saperlo.

Ma non sono qui per parlare dei miei marasmi emotivi – zero interessanti – bensì del poi. Che per me non è prequelsequel e neppure uno spin off. Lo definirei un classico to be continued che però serve soltanto a evitare il precipizio del vuoto. Non so bene come fare, ma l’intento è di ritrarmi come il mare dopo che l’onda ha raggiunto la battigia. Però non allo stesso modo, un po’ diverso. Non lo so come, ma un po’ diverso. Mentre ci penso vi auguro buonanotte…

Mentre.

 

 

 

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(1095) Fine

Si fa presto a dire fine. Credo un secondo. Se lo dici veloce ci riesci in mezzo secondo. In mezzo secondo ci stanno tonnellate di cose dette e cose che non saranno mai dette, di cose fatte e cose che non si faranno mai più. Mezzo secondo e basta. Fa impressione, vero?

Cercherò di far durare questo post un po’ più degli altri, perché è l’ultimo, perché è un mezzo secondo in slow motion e voglio farci stare dentro tutto quello che in tre lunghi anni non ho saputo, non ho potuto, non ho neppure pensato di scrivere. 

Inizierò col fatto che non ho idea di quanti siate a leggermi. Ho un plug-in che mi fornisce alcuni dati, ma non so neppure se crederci o no. Per esempio mi dice che “Data” è stato letto da 1836 visitatori, “Insieme” da 1735, “Pastasciutta” da 1673, “Ambiente” da 1666 e “Calcoli” da 1471 (sono i primi 5 in classifica). Poi ci sono anche minimi storici: 23 lettori per “Opportunità”, il che è molto triste, sembra che come parola non venga ricercata minimamente su google. Mah!

Non ho mai pubblicizzato questo blog, ho soltanto condiviso i post sul mio profilo Facebook, sulla mia pagina Facebook e sul mio Twitter. Avrò al massimo un migliaio di contatti sommando tutti i social e credo che neppure un 10% di questi si fermi qui a leggermi. Così ho pensato in questi anni, con questi conteggi posso immaginare che un centinaio di persone di qui siano passate e si siano pure fermate a leggere. Pazzesco. 

Ovvio che se apri un blog ti aspetti di essere letto, altrimenti ti fai il tuo diario personale e stop, ma la sfida era di scrivere come se nessuno mi potesse mai leggere. Scrivere in libertà. Bé, ci crediate o no la sfida l’ho vinta. Ho scritto pensieri talmente fastidiosi e facilmente fraintendibili che se ci avessi messo un po’ di cautela li avrei evitati. Non l’ho fatto.

Ci sono persone che mi conoscono, perché le frequento regolarmente, che mi leggono senza far parola. Fanno finta di niente. Lo trovo bellissimo. Trovo davvero bellissimo e delicato il fatto che non vogliano discutere con me di quello che ho scritto e che a loro bastino quelle righe senza sentire il bisogno di altro. Credo sia la cosa più bella che mi potessi augurare. Eppure vedere il sorriso di Laura o di Eleonora o di Giuseppe che mi accolgono al lavoro dicendomi “bello quello che hai scritto ieri” mi commuove. Sempre inaspettato e sempre commovente. Ecco, ogni tanto quando ho scritto ho pensato a questi visi belli e ho pensato che avrei voluto farli sorridere, se ci sono riuscita ne sono felice. E cosa dire di chi neppure mi conosce e mi lascia bei commenti sui post condivisi sui social? Eh… senza parole.

Ho viaggiato in lungo e in largo nel mio cervello e nel mio cuore in questi tre anni, mi sarò ripetuta un milione di volte (ne sono sicura), in un loop psicotico, ma ho scoperto che sono un 33 giri e che suono così senza troppe variazioni sul tema. Sospetto che tutti gli Esseri mortali funzionino così, ciò è consolante.

Come dicevo nel post precedente, prima di varcare la soglia e chiudermi questa porta alle spalle ho voluto sistemare le cose e ho deciso che mi sarei presa qualche giorno per tirare le somme. Questo è davvero l’ultimo post dei ***Giorni Così*** scritto in questo modo, come pensieri liberi. Quello che verrà nei prossimi giorni avrà un tono diverso e uno scopo diverso, ovvero: analizzare cosa questo folle esperimento ha prodotto in me.

Non so se avrete voglia di accompagnarmi ancora per un po’ e scoprire il backstage della mia esperienza di scrittura condivisa buttandomi sul web senza protezione, spero di sì.

Non so davvero come concludere, ora. Posso dire che non pensavo sarei stata triste, ma lo sono. Non pensavo sarei stata dispiaciuta, ma lo sono. Non pensavo mi sarei ritrovata con le dita pesanti che tergiversano per rimandare di digitare il punto… eppure…

That’s all Folks

si chiude il sipario

è stato un viaggio incredibile

avrò bisogno di mesi per potermene rendere conto per bene

e so che mi mancherà

ma è stato vissuto così intensamente dentro di me da provocare le vertigini

e non so quanto tutto questo avrà senso per voi che siete passati di qui

so che il senso che ha per me non può essere spiegato a parole

ma so anche che le parole hanno un limite di lunghezza

e spesso non di contenuto

e che basta sceglierne una a volte

per illuminare tutto

quindi

grazie

.

 

 

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(1094) Pronta

Se mentre viviamo riusciamo a prestare attenzione agli andamenti della nostra evoluzione, possiamo riconoscere immediatamente i periodi in cui siamo pronti. Pronti per fare, pronti per dire, pronti per partire, pronti per litigare, pronti per progettare, pronti per spiccare il volo. Insomma: pronti.

Partire in anticipo non va bene, ti bruci (o bruci l’opportunità), non sei ancora pronto. Partire in ritardo non va bene, potrebbe anche non interessarti più, non interessarti abbastanza, senza neppure rendertene conto. Si parte quando si è pronti.

Essere pronti significa che sei focalizzato sull’obiettivo, sei motivato a manetta nel raggiungerlo, sei pieno di forze e di speranze sul buon esito della spedizione e, finalmente, hai a disposizione una buona dose di fiducia in te stesso per agire.

No, non significa che è tutto perfetto. Non significa che dentro stai una meraviglia e che fuori è tutto un peace&love. No. Ma nonostante tutto quello che hai dentro e tutto quello che c’è fuori tu pensi: ora. Non più domani, non più un altro giorno, non più fra un po’. Ora. Semplicemente ora.

E non ti sto a dire che si aprono le porte del Paradiso e l’Universo si piega ai tuoi voleri, anzi. Succede che metti da parte le lamentele, le delusioni passate, le paturnie ataviche per fare qualcosa che per te è importante. Stop.

Non sai come andrà. Non sai dove ti porterà. Non sai se stai facendo bene o male. Non sai quanti ostacoli troverai sulla tua strada. Non sai se riuscirai a superarli. Non sai se perderai anche le mutande. Non sai se riuscirai a tenere botta fino al raggiungimento dell’obiettivo. Non lo sai.

Quello che sai si riduce a un unico piccolo focalizzato punto. Molto solido. Molto prepotente (proprio molto): sai che sei pronto.

Stop.

 

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(1093) Sistemare

Chi ha traslocato almeno una volta in vita sua sa come si fa. Sa anche quanta fatica si fa. Sa ancora meglio cosa ogni gesto di quel sistemare, imballare e trasportare altrove significa per le proprie emozioni scombussolate.

Sei stato lì per un po’ e ti muoverai altrove. Quel posto in pratica lo stai abbandonando. Non è che lo fai perché non te ne importa più, lo fai perché è giusto così. Da qualche parte ti arriva una voce che ti rassicura: è giusto così. 

Giusto, in questo caso, significa che per andare avanti devi andare altrove. La strada che ti eri proposto di fare doveva portarti a quel punto. Al punto di scegliere di lasciare quel luogo e affrontare un’altra sfida e quindi un altro luogo e un altro percorso. Che è la continuazione naturale di quello che hai vissuto lì, ma che non potrebbe accadere se tu da lì non te ne andassi.

Sei già proiettato al di là della soglia perché devi progettare e sistemare le cose in prospettiva, ma sei ancora lì che scegli cosa buttare e cosa portare con te. E riempi scatoloni, svuoti cassetti e armadi, ti fermi un po’ qui e un po’ là nella stanza ripensando a episodi, cose, persone, che di lì son passati e hanno condiviso con te quel pezzo di vita.

Permettetemi: tre anni non sono mica uno scherzo.

Faccio fatica a pensare che tra pochi giorni non entrerò più qui per scrivere. Ci entrerò per tuffarmi, di quando in quando, in quel che è stato, molto probabilmente. Non subito, però. 

So già quello che farò, so già come andrà perché l’ho già vissuto più volte, ma so anche che sistemare per bene tutto mi permetterà di lasciare questo luogo non con la sensazione maledetta di averlo abbandonato, ma di averlo onorato e salutato con l’amore che merita.

Non fuggo da qui, vado altrove. Che è un qui un po’ più spostato in avanti, forse, anzi me lo auguro perché ancora non lo so. Quella è comunque l’intenzione.

Ho ancora qualche giorno. Me li godrò per stamparmeli bene dentro e in questo modo non sbiadiranno subito. Magari piano piano. L’importante che non sia troppo in fretta, sarebbe un crimine.

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(1092) Ruscello

Sono abituata a pensare ovunque mi trovi, nel senso che riesco ad estraniarmi dal mondo e immergermi nei miei pensieri a piacimento. Tranne che nella sala d’attesa di un medico, di un pronto soccorso o di un reparto d’ospedale. Lì non ci riesco. Credo sia una questione energetica, di quel che di pesante si porta appresso la sofferenza umana formando una cappa di cemento che non ti permette di alzare la testa né fuggire.

M’è capitato di essere ricoverata per una settimana, accertamenti su accertamenti, e mi son detta “bene, avrò tempo per starmene in pace a pensare”. Mi sbagliavo. Sono entrata con l’andare delle ore in una sorta di stato cerebrale anestetizzato che mi annichiliva il volere. Iniziavo a pensare e poi mi perdevo. Bloccata in un limbo appiccicoso di morte prematura. Non riuscivo a ridestarmi, i giorni sono trascorsi e, tra un prelievo e l’altro, non avevo fatto altro che dormire (anche da sveglia). Ma come?

Vabbé, comunque ci sono volte in cui mi piacerebbe sedermi su una panchina all’ombra di un salice davanti a un ruscello e farmi trasportare via. Se hai davanti a te dell’acqua che scorre placidamente non puoi far altro che seguirla, no? E qualcuno potrebbe dirmi “medita!” e ti risolvi il problema. Ennò! Mi innervosisco, comincio a sentire ogni millimetro del corpo che mi chiama e mi prenderei a sberle.

Ripeto: davanti a un ruscello sotto a un salice – anche senza panchina – e il vento tiepido che muove le cose. Questo voglio, mica la luna!

 

 

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(1091) Faldone

Se dovessi stamparmi tutti i ***Giorni Così*** ne uscirebbe un faldone notevole. Forse lo farò. Dovrei rileggermeli tutti dall’inizio alla fine per capire se è soltanto stato un inutile pour-parler o se ha senso raccoglierli in un libro. Non lo so, non mi ricordo quello che ho scritto. E certe volte è meglio non sapere.

Ora è ovvio che le motivazioni che mi hanno spinta a scrivere il post numero 56 (per esempio) non me le ricordo per niente, ma forse abbandonando l’origine dello scritto lo si potrebbe leggere in modo diverso. Nuovo.

Possibile.

Immagino sia sano lasciar passare qualche anno prima di pensare di rimettermi a leggere questa enorme quantità di righe che mi sono uscite in modo a volte folle, a volte meno, a volte stancamente, a volte no. Il tempo, la distanza e la dimenticanza giocano un ruolo importante sul nostro vissuto (e sul nostro scritto). Considerato che non si tratta di un faldone cartaceo bensì digitale devo solo aprire una cartella sul mio desktop e lasciarla lì.

Mi piace mettere ordine nel mio passato, mi aiuta a preparare il terreno per il futuro. Che inizia nel presente. E il presente è questo. Quello che mi fa immaginare un faldone pieno di parole e di attraversamenti e intrecci e roba strana da archiviare nella libreria alle mie spalle. La targhetta la voglio fare grande, ben visibile. Voglio che i miei occhi abbiano la possibilità di ritrovarlo subito ogni qual volta ne sentirò il bisogno.

Perché la nostalgia è canaglia, ce lo hanno cantato e noi lo sappiamo. Io lo so.

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(1090) Countdown

Inizia oggi. Fra 5 giorni questo blog si fermerà. Ho intenzione di dedicare altri 5 post in più per parlarvi di questa mia esperienza (quindi vi saluterò definitivamente il 3 ottobre 2019). Finire bene è importante almeno quanto iniziare bene. Il cerchio di chiude e tutto deve trovarsi il suo posto. Se non accade manchi un’occasione che rimpiangerai per tutta la vita (vale per le piccole cose e per le cose importanti).

Iniziare il countdown significa che devi pensare a un sacco di cose. Devi lottare contro molte emozioni contrastanti. Devi tenere botta e rimanere sul pezzo. Non puoi distrarti, hai uno scopo ben preciso che ti sta venendo incontro. Sbatterci la faccia non è una buona idea.

Ne ho vissuti alcuni di countdown durante i miei anni, ma questo è il più consapevole. Gli altri non avevano proprio una scadenza, gli altri stavano su a forza di nervi, una volta che cedevano chiudevo e bon. Ecco come ho imparato che chiudere bene è fondamentale per non ritornarci più sopra. E non si può vivere lasciandosi tutte le porte aperte alle spalle. Non si può continuamente tornare indietro, ripetere ciò che ormai è finito e che deve essere lasciato in pace.

Conviene fare per bene tutto. Progettare una buona fine, realizzare una buona fine, vivere una buona fine. Lo fai una volta, lo fai bene e tutto va a posto.

Ok, oggi inizia il countdown. Saranno giorni strani. Saranno bei giorni. Di tristezza e di sollievo a tratti. Restate con me fino alla fine? Spero di sì.

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(1089) Appollaiata

In questi giorni me ne resto sul mio, sorniona, e osservo tutto. Sono tranquilla, sono consapevole e sono determinata. Non so quanto durerà, ma godermi questo momento è tutto. Avere un piano aiuta.

Ci sono dei momenti nella vita dove hai la divina visione panoramica di dove sei stata, dove sei e dove stai andando. Tutto insieme. Dall’alto. Credo sia uno di quei momenti benedetti dove ti si aprono le porte della percezione e puoi essere per qualche istante intoccabile. Invincibile.

Stare appollaiata quassù mi permette di essere invisibile. Pochi alzano la testa per guardare chi sta in alto, solitamente si è abituati ad abbassare la testa per non inciampare in qualche brutta cosa che è stata sparsa sulla nostra strada. Non so perché non abbiamo un paio d’occhi in più, Madre Natura non ci ha pensato, ma avrebbe dovuto. Forse ci ha pensato ma non l’ha fatto per non implementare la nostra possibilità di distruggere tutto ciò che vediamo. Scelta condivisibile, ma a me avere un paio d’occhi in più piacerebbe.

Certo, abbiamo il terzo occhio – che è sempre meglio di niente – eppure rimane per lo più inutilizzabile perché obnubilato dal maledetto Velo di Maya (grazieArthur Schopenhauer), che anche lei se si facesse i cazzi suoi e se lo ripigliasse indietro non farebbe una brutta cosa. Avrebbe di certo la mia gratitudine.

Fatto sta che sto quassù e quassù non si sta affatto male. Mi ci potrei abituare e magari scendere soltanto per fare provvista e sgranchirmi le gambe. Una sorta di Baronessa Rampante (grazie Italo Calvino) contemporanea. Mah.

Ci sono cose che non serve dire, altre che non si dovrebbero dire, altre ancora che è meglio non si dicano. Ci sono cose che devono essere dette, ma al momento giusto. Indovinare quel momento non è facile. Ci si può arrivare facendo attenzione e tenendo presente che la cosa giusta al momento giusto non crea danno a nessuno e non crea sofferenza a nessuno. Un dovere morale che se rispettato ti solleva da ogni responsabilità.

Quassù tutto mi è chiaro. Appena scendo non è detto che io riesca a mantenere la rotta. Se faccio casini ritorno quassù. Promesso.

 

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(1088) Pennarelli

Non li conto perché altrimenti dovrei prendere atto che sono malata. Tratto sottile, medio o grosso e di ogni marca e per ogni gusto. Perché mi piacciono tutti e ognuno dev’essere usato nel giusto contesto: una mappa mentale o un riassunto lavori in corso o un disegno.

I miei preferiti stanno davanti ai miei occhi, sulla scrivania, contenuti in un portapenne che potrebbe anche scoppiare, ma ancora non lo fa. Abbraccia tutte le gradazioni del viola, del rosso, del blu e del grigio. Ce ne sono alcuni neri (un must) ed evidenziatori come se piovesse. 

I pennarelli non sono penne, sono più liberi. Loro possono spingersi dove le penne non potrebbero mai. Loro tratteggiano, delineano e riempiono. Possono anche ombreggiare – se ci sai fare – e possono coprire ciò che hai erroneamente scritto. Insomma, possono mimetizzare certi sbagli e non è cosa da tutti, ammettiamolo. Quelli con punta sottile scrivono meglio di una qualsiasi penna, e poi non voglio neppure parlare dei mitologici Tombow… quelli sono stati creati da Dio in persona.

Purtroppo ho smesso da tempo di disegnare, anche se mi piacerebbe ricominciare e mettermici d’impegno, così li uso per fare cose basic (anche banali), più che altro per il gusto di usarli. Sì, non sono poi così normale come appaio.

Ho una fissa smisurata per i colori pastello, non considero i gialli e i marroni e non mi sento per niente in colpa per questo. Non amo indossare troppi colori (ne conto tre o quattro tra i miei prediletti), ma le lettere mi piace renderle vive e sgargianti per ricordarmele meglio. Le cose importanti, davvero importanti, devono essere scritte rigorosamente in viola.  È ovvio.

Ok, non ho più niente da dichiarare al riguardo. Ora voglio il mio avvocato. O mi taccerò per sempre.

 

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(1087) Plastica

Pensarci prima non sarebbe stato male. Intendo dire che pensare che un materiale quasi eterno dovesse essere usato con parsimonia e – soprattutto – ideare alternative per quei packaging che potevano avere alternative sarebbe stato un modo oculato di progettare un’evoluzione del benessere senza il colpo di coda inquinante. Col senno di poi…

Purtroppo la scarsa visione dell’uomo sul proprio presente e sul proprio futuro è imbarazzante. Supera persino la sua mancanza di saggezza nel ricordare gli sbagli del passato ed evitare di riproporli in diverse salse come i peperoni a cena che non li digerirai mai (se non quando ti decomponi post-mortem). 

Eccoci qui. Miserabili e ridicoli. Letali, per di più. Per il nostro Pianeta soprattutto. Nostro? Clamoroso misunderstanding umanitario: l’uomo tende a non prendersi cura di ciò che è suo. Lo consuma per sostituirlo. Tipo andare su Marte a rompere i coglioni ai Marziani preventivando un’implosione terrestre dovuto alla follia nucleare (tanto per fare un esempio banale). 

Il punto è che la Terra non è nostra. E la Terra lo sa. Quindi ogni tanto tira su il cartellino rosso ed elimina i giocatori non dediti al fair play. E fa bene.

Detto questo, fa impressione rendersi conto di quante cose create per migliorarci la vita finiscano per crearci danni importanti. Roviniamo tutto ciò che di buono riusciamo a creare. Darsi la zappa sui piedi è il nostro modus operandi di default e… bhé, siamo contenti così.

La cosa peggiore a cui porre rimedio con urgenza? La plastica che abbiamo dentro. Disfarci dal cellophane con cui abbiamo avvolto il cuore, pensando di preservarlo per tempi migliori e riducendoci a vivere miserabilmente attaccati a tutto ciò che è oggetto da possedere per sfruttarlo a nostro beneficio, magari a danno di un altro Essere Vivente o – assurdamente – a danno di noi stessi. Tutta la plastica che abbiamo accumulato nelle cantine dei nostri cervelli, ci sta soffocando il pensiero libero e se ci manca l’aria pensiamo che sia causa di qualcun altro. Perché le responsabilità ci rimbalzano, noi vogliamo poterci arrabbiare con chiunque ci stia sulle palle senza sensi di colpa.

Abbiamo capito tutto. Proprio tutto.

 

 

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(1086) Kleenex

Vanno via come le caramelle. Una volta che hai sulla scrivania una di quelle confezioni carine che ti fa spillar fuori i fazzolettini uno dopo l’altro è finita. Si perde il controllo. Le ciliegie a confronto perdono appeal perché loro sono lassative, ma i Kleenex no. Vittoria su tutta la linea.

Mi piacerebbe individuare nelle mie competenze quella che può produrre effetto Kleenex, mi risolverei la vita. 

Dovrebbe essere utile, morbida e a portata di mano. Facile da applicare a un target trasversale e che lasci un buon ricordo. Eh. Sono convinta che esiste in me questa competenza, che è più indole che frutto dell’esperienza, ma non avendo mai fatto analisi approfondita sull’argomento ancora mi è nascosta alla vista. Ci ho pensato adesso che ho posato lo sguardo sui Kleenex che ho posizionato esattamente sulla scrivania davanti a me, accanto al monitor. In evidenza, senza clamore. Stanno lì, e si offrono senza jingle né balletto, consapevoli che prima o poi io allungherò la mano e ne prenderò uno per usarlo. 

Forse se questo pensiero mi fosse venuto prima a quest’ora sarei altrove a fare altre cose. Forse non m’è venuto prima perché c’era scritto che avrei dovuto trovarmi qui e non altrove. Forse m’è venuto ora perché da qui in poi potrei aver bisogno di un superpotere per farmi arrivare in un luogo che ancora ignoro, a fare qualcosa che manco mi so ancora immaginare. Forse sono solo pazza e sto perdendo il controllo dei miei pensieri. Po’esse’.

Vabbé, però non è che mi viene un pensiero come questo e posso fare finta di niente. Sono condannata a pensarci per l’Eternità, o almeno fino al momento in cui non scoverò davvero il mio Kleenex-Power da mettere a buon frutto. Come se non avessi abbastanza cose da fare! 

Ho bisogno di dormire. Vado.

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(1085) Ineluttabilità

Ci sono idee geniali che non concretizzerò mai. Una dura realtà che faccio ancora fatica a digerire nonostante la mia età non più verde. E di idee geniali ne ho almeno una al mese, che appena arriva si prende il mio cervello e lo stressa finché non ne esce con una certa sostanza (in parole, opere o omissioni).

Sono contenta che vengano a me nonostante io sia inabile a render loro onore, ma si dovrebbero prendere la responsabilità di una scelta (caduta su di me) piuttosto discutibile. Comunque, imperterrite, queste idee luminose arrivano, mi colpiscono e poi scemano. 

Alcune le vedo realizzate – dopo mesi o anni – da altri Esseri Umani ben più abili di me, e non mi dispiace perché saperle perse è una sofferenza. Ciò che è geniale (bello, buono, luminoso) non deve essere sprecato. 

Ci sono anche idee meno geniali, ma del tutto dignitose che mi sfrecciano in testa con quotidiana sollecitudine. Le riconosco come tali e del tutto fattibili, ma per qualche oscura ragione (sospetto ce ne sia più di una) non riesco a posarle a terra e fare di loro quel che mi chiedono. Tolto il fatto che sono tante, sarebbe quindi oggettivamente impossibile seguirle tutte e concretizzarle tutte, mi comporta una grande soddisfazione quando riesco a realizzarne una. 

Al momento nella mia testa viaggiano con insistenza (significa che mi sfrecciano davanti agli occhi, in corsia preferenziale su una tangenziale sinaptica che mi attraversa il cervello da est ad ovest) almeno tre maxi-badass-ideas che sto per acchiappare e lavorare. No, non sarà una passeggiata, ma saranno avventure interessanti. 

Stavolta voglio essere chiara: non pianificherò, eseguirò e lascerò che le cose accadano. Se non accadono vorrà dire che ho scelto le idee sbagliate, o quelle giuste che però non portano a niente. Che è ancora peggio.

No, non sarà una passeggiata. Conviene mettersi in cammino o non arriverò mai.

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(1084) Crepuscolo

Scende la luce e scende il giorno che si corica sul selciato aspettandosi un po’ di silenzio. Ma il silenzio parla comunque, specialmente a chi non ha voglia di ascoltare. E il silenzio parla di scelte fatte e non fatte, quelle azzeccate e quelle che sono state un disastro. Le scelte disastrose son quelle che fanno più casino, riducono il silenzio in briciole.

Quindi una sta lì ad ascoltare e si arrende al fatto che i conti non tornano, che dovrebbe stare bene e invece no. E si domanda perché no. E comincia a scandagliare il passato e trova tutte le magagne del caso (siamo tutti pieni di sporcizia nascosta sotto il tappeto che dovrebbe scomparire e invece si sedimenta). E non è che hai sempre voglia di star lì a pulire, è sceso il giorno anche per te e tutta la stanchezza del Creato.

Non si sa il perché, ma è al crepuscolo che la polvere si alza. Aspetta di avere tutta la tua attenzione per materializzarsi davanti ai tuoi occhi che si stanno chiudendo ben sapendo di non poter avere riposo. Le cose si squagliano assieme alle motivazioni e ti rimangono in mano tristi rimasugli di conseguenze. E che te ne farai mai di tutta quella roba? Boh.

La si mette sotto al tappeto, ovviamente. Strato su strato. Potrai mai perdonartelo? Il tuo essere quella delle scelte sbilenche, delle motivazioni da torero, delle posizioni granitiche su pavimenti scivolosi. Potrai mai perdonartelo? Al crepuscolo puoi. Sì, perché ne hai piene le palle di giudicare ogni pensiero e ogni passo che hai fatto nel corso di tutta la tua esistenza e meno male che la memoria ti oscura buona parte del vissuto altrimenti non ne usciresti viva.

Ecco: l’intenzione è di uscirne viva. Una volta focalizzato l’obiettivo si fa in fretta a prendere una direzione e – senza guardarsi troppo indietro – si taglia diritto per di là.

Se’… ti piacerebbe. Dai, non ci credi neppure tu. E smettila di ridere!

 

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(1083) Provare

Do or do not, there is no try.  (Yoda)

Dare torto a Yoda? Follia. 

E comunque, al di là di tutto, se faccio mente locale, ogni volta che ci ho solo provato non ne ho ricavato niente. Neppure un grammo di soddisfazione. 

Non sto parlando di azioni più o meno convinte, ma di scappatoie. Tanto se non va bene non ci perdo nulla, non è una strategia. Non è neppure una filosofia efficace per andare al mercato del pesce. 

Provare tanto per provare non è crederci e farsi in quattro per far andare le cose bene. Provare per provare è un tentativo e basta. Come se mi aspettassi già il fallimento, come se sapessi già come finisce la storia. Si va al risparmio, si calcola il dare e l’avere, ci si tira un po’ indietro perché sì, magari andrà anche bene, ma è probabile che no. 

Non c’è verso: o fai (e sei dentro al 100%) o non fai. Perché se non fai davvero non perdi tempo e non rischi delusioni e sofferenze e fatica e smarronamenti. Se non fai puoi sempre dire che avevi un’idea e che ce l’hai ancora e appena trovi il tempo la farai diventare una figata. E puoi continuare a ripetertelo per sempre, tanto da crederci tu stesso. Puoi fingerti impegnato anziché codardo, puoi farlo, funziona.

O fai o non fai. Ma se fai, allora la sfida non è vincere o perdere, no, troppo semplice. La vera montagna da scalare è quella fatta da sassolini e massi di “che cazzo sto facendo? Dove cazzo penso di andare? Ma perché cazzo mi sono messo in questa maledetta impresa? E adesso cosa cazzo faccio?”, insomma: una montagna di gran cazzi pronti a saltarti addosso appena muovi un passo. 

E se alla fine vinci, vinci contro la montagna franante e sei già contento di essertela cavata e di essere ancora vivo nonostante te stesso.

Perché Yoda non è mica il primo coglione che passa di lì. Se ti sta segnando la via, conviene pensarsela bene e rispondere onestamente a una sola semplice domanda: fai o non fai? 

Ovvero: credi o non credi?

È sempre una questione di fede, dopotutto. Eh.

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(1082) Fiorire

Il significato (uno dei significati) da dizionario è: essere in un periodo di splendore. Bello vero?

Ognuno di noi a questo punto avrà ben chiaro i periodi di massimo splendore che ha vissuto. Possiamo tracciarne le linee e i punti, uno ad uno, con grande chiarezza perché periodi come quelli non solo sono rari, ma sono di per sé indimenticabili. Ci sentiamo bene, tutto gira alla grande e non ci potrebbe fermare nessuno. La durata è ininfluente, la memoria non ne sarà toccata.

Dovremmo fiorire almeno una volta l’anno, certi fiori lo fanno più volte e in ogni stagione. Se non ci impegniamo affinché succeda, temo, l’evento potrebbe verificarsi una volta ogni vent’anni (se va bene). Eh.

Se penso all’ultima volta che mi sono sentita in un periodo di splendore devo tornare talmente indietro nel tempo da dubitare di essere stata io quella là. Una tristezza impressionante.

Eppure le persone che lo stanno vivendo quel periodo ti fanno voltare mentre le incroci per strada, a bocca aperta per l’ammirazione. E se ne rendono conto perché in quel momento la consapevolezza della propria forza è cristallina. Forse è per questo che ti permetti di fare cose che i più possono soltanto desiderare.

Mi domando però come si materializzi questa condizione benedetta. Non ricordo le mie precedenti esperienze come si sono preparate, se avessi fatto qualcosa per aiutarle a palesarsi o se fosse tutto riposto nelle mani delle stelle in congiunzione astrale perfetta. Non ricordo. Ricordassi potrei correre ai ripari e lavorare per ripristinare la situazione. Ma non ricordo.

Forse la tristezza non aiuta.

Eh. La vedo dura.

Davvero.

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(1081) Scorta

La mia scorta di pazienza era notevole. La mia scorta di buone-intenzioni-nonostante tutto era mica da ridere. La mia scorta di comprensione e vicinanza poteva far invidia al Dalai Lama. Lo giuro. 

Ebbene: tutto esaurito.

Non mi è rimasto più un grammo da utilizzare, sono stata prosciugata dagli eventi. E sono d’accordo che ho il 50% di responsabilità e che dovevo averne più cura, ma è anche sacrosanto che tirare la corda oltre ogni limite come se fosse normale e addirittura ovvio è una scelta calcolata e bastarda e le persone che ne sono artefici non si fermano finché glielo permetti.

Ebbene: non lo permetto più.

E non ci sono arrivata perché sono diventata arrogante ed egoista. Purtroppo no, sarebbe bello fosse così perché significherebbe meno patimento e più godimento. No, troppo facile. Ci sono arrivata per sfinimento, esaurimento delle scorte. E la cosa ha tutta un’altra portata. So che chi lo ha provato lo capisce perfettamente senza bisogno di spiegazioni.

Quando sei agli sgoccioli, quando non ne hai più, ti passa proprio la poesia. Ti viene voglia di tirare calci e pugni random, ti partono gli smadonnamenti per ogni cazzata che ti viene a sbattere addosso. Ecco. So che chi ci è passato sa esattamente di cosa sto parlando.

Quindi: si mette un punto.

Si chiarisce che di lì non si passa più. Si cambia. Si cambia in quello che puoi e vuoi fare. Si cambia in quello che sei disposto a condividere e quello che sei disposto a sopportare. Si cambia, punto e basta. E non lo so ancora se sarà un cambiamento permanente o se è soltanto un periodo di svarioni, addirittura non me ne frega nulla. Non è che le scorte son finite all’improvviso, le ho viste calare di mese in mese, di anno in anno, e ho anche tentato di fermare l’emorragia, ma nonostante i miei tentativi non c’è stato verso di salvare il salvabile.

Perfetto: ormai le cose stanno così.

Chiaramente non muore nessuno, non ci saranno Apocalissi e molto probabilmente saranno in pochi ad accorgersene, ma va benissimo. Basta che lo sappia io, basta che sia io a sentire nello stomaco e nella testa quel punto che ho messo e che resterà lì a lungo. Credo per sempre.

No, non mi dispiace. Non me ne frega più niente.

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(1080) Pattern

Significa: modello, paradigma, schema. E ognuno di noi si rifà al suo, quello che ha scelto in un tempo e in un luogo preciso o non ben identificato (immagino possa succedere di tutto quando si tratta di pattern 🙄 ) 

[ho usato per la prima volta un’emoji perché non ero sicura che l’ironia fosse percepibile… insicurezza da scribacchina, perdonatemi]

Facendo un libero calcolo dei miei posso ritenermi soddisfatta, ne ho a migliaia. La cosa che mi gratifica di più è che me li sono inventati io stessa prendendo ispirazione da altri che ho trovato in giro e che risuonavano bene con me. Ho colto ciò che più mi piaceva e l’ho sistemato a mio gusto. 

Ne ho per ogni occasione e ogni situazione, non parto mai impreparata, ma la cosa sensazionale è un’altra: non li uso se non in casi di assoluta emergenza. Non li prendo e li uso a prescindere perché non saprei che altro fare, ma quando non so da che parte voltarmi allora ecco che faccio mente locale, scartabello il mio archivio di pattern e scelgo quello che mi sembra più opportuno. Non solo mi tranquillizza sapere che ci sono e che posso chiedere aiuto a loro, ma addirittura ho la certezza che se li applico funzionano. Straordinario vero? Infatti, lo confesso, questo è il mio miglior superpotere. Lo condivido perché riflettendoci sopra potrebbe essere d’aiuto a tutti. Non perché penso di essere l’unica ad averli, ma perché non tutti si rendono conto che ce li hanno e cadono in schemi e modelli conosciuti e rassicuranti in modo automatico, senza rendersene conto.

Ecco, questo meccanismo diventa pericoloso, non ti permette di crescere, non ti aiuta a guardare oltre, non ti fa agire da persona di libero pensiero e libero arbitrio. Bisogna farci caso, ‘sta trappola influisce notevolmente sulla nostra felicità.

Il mio consiglio è farne collezione e in extremis utilizzarli ad hoc. Tutto qui.

[l’opzione fatti-gli-affari-tuoi-e-non-rompere non la trovate qui sotto, ma potete tranquillamente pensarla, è legittimo]

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