(966) Superfluo

Tutto quello che va oltre il necessario è da considerarsi superfluo. E del superfluo uno se ne può sbarazzare, basta averne voglia. Ok.

Diamo per scontato che io abbia individuato in te qualcosa di superfluo e che, considerando che tu puoi starne tranquillamente senza, io ti voglia spingere ad abbandonarlo. Ti sto guardando con i miei occhi, non sto sentendo quello che tu senti, non sto vivendo quello che tu vivi, non sono te. Semplicemente.

Mettiamo il caso che tu faccia resistenza, che tu senta questa spinta, questa pretesa come una violenza. Certo, quel dettaglio non sei tu, ma tu sei anche quel dettaglio e… te lo vorresti tenere. Voglio dire, non è una cosa importante, non è una tara dell’anima o un difetto insopportabile, è un dettaglio. Qualcosa di superfluo, certo, ma che tu decidi di tenere. Di tenerti dentro, perché è un pezzettino che ti sembra decori bene il tuo tutto. 

Ergo: io sono un’idiota. Perché ti sto spingendo dove tu non vuoi andare, anziché togliere da me il superfluo, lo voglio togliere a te. Assurdo no? Mi meriterei un pugno in faccia, e se me lo prendo mi sta bene.

A me sta bene perseguire l’ideale del minimal: vivo con poco, viaggio con poco, muoio con poco. Perlamordelcielo, portarsi appresso tante cose è fatica e ingombro. Però, ci sono delle cose piccole, superflue certo, che ti fanno stare bene. Piccole, stupide, decorazioni che adotti e che porti con te. 

Perché se sulla tua carta d’identità, alla voce segni particolari non sai cosa metterci, qualcosa non va. O sei troppo triste per guardarti accuratamente e trovare in te qualcosa di particolare, oppure ti sei adeguato ai segni particolari degli altri che han finito per non essere più particolari. 

Se invece curassi le tue piccole decorazioni, quelle di cui potresti anche fare senza ma che tu scegli di portarti addosso… coprire onorevolmente quella voce sarebbe facilissimo. E soddisfacente.

Evviva il superfluo che ci rende più belli!

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(936) Empirico

Ovvio che noi abbracciamo, empiricamente parlando, ciò che riconosciamo come reale perché frutto della nostra esperienza diretta. Posizione saggia, ma parziale. Se ci evitiamo di sperimentare cose nuove, escludere tutto ciò che non abbiamo incontrato e attraversato diventa pericoloso. Il mondo ci sovrasta, che lo vogliamo oppure no. 

Non credo che l’Essere Umano agisca per sentito dire, sulla base di quello che gli altri affermano, penso che soltanto se hai fatto esperienza – magari in altro modo e con altri risvolti – di quella cosa che stai ascoltando, allora sei anche disposto ad agire. Perché agire costa fatica. E comporta un certo rischio. Noi siamo pigri e paurosi di default.

Sarebbe il caso, piuttosto, di riflettere sul come affrontiamo e attraversiamo le cose della vita, sul quanto siamo disposti a esperienziare e su come digeriamo l’esperienza: traendone vantaggio oppure subendone le conseguenze. La prima opzione ci gratifica, la seconda ci mortifica e ci crea frustrazione.

Quanto siamo stati gratificati e quanto mortificati durante la nostra esistenza?

Ognuno di noi potrebbe scriverci un libro, in realtà ognuno di noi si scrive il proprio anche senza bisogno di penna e quaderno perché siamo noi il nostro libro che vive, respira, cresce, invecchia.

Empiricamente parlando, limitare le esperienze che siamo disposti ad affrontare a una lista rigida dove tutto è sotto controllo, non significa che sappiamo come va il mondo, ma soltanto come va il nostro micro-mondo quando segue le nostre regole. Gli imprevisti ci colpiranno comunque, però, e questo bisognerebbe tenerlo presente.

Condividere il proprio bagaglio di esperienze con quello degli altri ci permette di non includere qualsiasi cosa nella nostra lista, ma di trarre del buono anche dalle storie di chi ha già imparato in prima persona quella lezione. La condivisione è un’astuzia che ha sempre funzionato, basta essere intelligente per approfittarne.

Il segreto, infatti, rimane uno soltanto: essere abbastanza intelligenti per riconoscere le opportunità e farle proprie quando queste si rivelano utili.

Sempre empiricamente parlando, ovvio.

 

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(899) Vecchiaia

Pensavo sarei invecchiata meglio. M’immaginavo sarei invecchiata meglio. Sorridente. Cos’è andato storto? 

Un paio di ipotesi magari le posso anche azzardare e non mirerei troppo lontano dal bersaglio, ma in realtà non sta lì il problema. Il punto focale della questione è capire cosa posso fare per porci rimedio.

Lo ignoro bellamente.

Non si tratta di fare una cosa piuttosto che l’altra, non si tratta di fare. E quando non si tratta di fare, la sottoscritta va in palla. Fare mi viene bene, pensare mi incasina. Penso tanto e male. Questo non posso cambiarlo. Posso cambiare l’azione del mio pensare male, ovvero penso-male e poi faccio il contrario (così funziona di solito), ma è il pensiero che condiziona l’invecchiamento.

Dovrei trovare il modo di invertire il senso, di provocare un cortocircuito alla rete neuronale in modo che qualcosa si sconvolga e la dinamica mia solita cambi. Si chiama elettroshock, ma mi spaventa. E se poi non mi riconoscessi più?

Rimane il fatto che questa amarezza mi spegne il sorriso e invecchiare così non va affatto bene. La mia ingenuità? Pensare che quell’essere giovane, quella voglia di abbracciare il mondo e conquistarlo, sarebbe durata in eterno. Non ero io a sentire, era la giovinezza a provare l’infuocarsi del sangue e la felicità che fa scoppiare il cuore soltanto perché ci sei e vivi.

Non ero io. Io sono quella che ne è rimasto. E a dirla tutta non è granché. Di questo mi dispiaccio. E con questo devo farci i conti, tutti i giorni. Soltanto perché ci sono e vivo.

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(893) Vita

Quello che ti aspetti da parte della vita, quando sei giovane, e quello che ricevi mentre vivi – il gap può lasciarti davvero con l’amaro in bocca. Ma come si fa a non aspettarsi nulla quando si è pieni zeppi di energia e sogni? Ad averlo saputo magari ci avrei provato, forse mi sarei rovinata tutto quello che di bello m’è arrivato e forse mi sarei difesa meglio ogni volta che il peggio si faceva presente. Non lo so.

E forse parlare di vita significa puntare troppo in alto. Non l’ho capita granché, come faccio quindi a scrivere di qualcosa che non ho ancora chiaro?

Ogni post di questi oltre due anni partono dal presupposto che sto parlando di qualcosa che vivo e quindi la mia versione, la mia traduzione, della questione è in qualche modo giustificata. Sono dettagli, solo dettagli. Quello che è, invece, l’argomento che comprende tutto (il titolo di questo post) è difficilmente affrontabile partendo da basi solide di ignoranza.

Pertanto temo che stasera mi limiterò a ribadire la mia incapacità a comprenderla, a gestirla, a renderla assolutamente mia. Ne prendo sempre e soltanto un pezzetto, il resto mi scivola via. Ne ho una percezione talmente bassa da sorprendermi di non essere ancora stata imbalsamata. Mummificata.

Quando sento la gente parlare di vivere-la-vita-pienamente, mi soffermo a pensare a quanto quel pienamente possa significare. Lo trovo un po’ vago, vorrei un po’ più di precisione. Se mi esorti a muovermi pienamente nella mia vita, pretendo almeno un paio di specifiche in più. A destra, a sinistra, in alto, in basso? Pienamente rispetto a chi o a che cosa? Stare sul vago è poco corretto, dai!

Non so se sarei capace di vivere pienamente comunque, secondo me è troppo. Come fa il mio cuore a tenere il passo? Pienamente è decisamente fuori dalla mia portata, siamo seri!

Posso forzarmi a vivere un po’ di più, questo posso. Ogni giorno un po’ di più. Finché il cuore reggerà. Ovviamente.

 

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(867) Altezze

Arrivarci, magari, a certe altezze. Già. Ma poi cadi giù. Eh.

Allora ci si pone una domanda: ma ne vale la pena? E purtroppo la risposta è sì. Ogni tanto arrivare in alto fa bene, e per la discesa… bé, si impara anche a cadere, se lo metti in conto ci pensi prima. No?

La continua ricerca del brivido diventa dipendenza, ma anche l’ostinata ricerca della pace. L’ossessione non porta alla pace, questo è certo. Non capisco perché siamo così tormentati dal fatto che non abbiamo pace. Certo che non ne abbiamo, stiamo vivendo, mica siamo morti. La pace è dei morti. Il quotidiano infernale non ci permette sosta, ma neppure se scegliessimo di vivere tra le montagne nepalesi. Avremmo fame, sete, sonno e magari anche voglia di fare l’amore. Abbiamo un corpo, siamo qui per questo, per avere a che fare con il nostro corpo. Il corpo ha bisogno di provare, di sentire, di farsi attraversare. E poi tiene memoria. Credo sia in questa memoria che le cose si complichino. Come fai a tenere testa alle memorie? Non lo so.

Se il tuo corpo non ha mai conosciuto la fame, quella vera, non la puoi comprendere con la mente. Troppo grande per poterla immaginare. Se non hai mai conosciuto l’Amore, quello vero, non lo puoi comprendere con la mente. Lo puoi immaginare, ma non sarà mai vero, sarà una proiezione di te stesso e non è che abbiamo proprio una visione chiara di noi stessi (ammettiamolo), sufficiente a metterci al sicuro. Anzi. Significa che un Amore reale può spiazzarti, ti rende immediatamente vulnerabile, non potevi pensarlo così, il tuo corpo non si era mai fatto attraversare da quella potenza e tu… non ti riconosci come quella persona che hai continuato a frequentare per anni e anni e anni (con una certa assiduità, per di più).

Tutto molto semplice, tutto molto complicato, tutto molto doloroso, tutto incredibilmente affascinante.

Quindi ci si augura di arrivare ad altitudini imbarazzanti, pensandole e immaginandole e desiderandole come mai saranno, mai potranno essere. Perché la realtà è un’altra cosa, ma non è meno, è soltanto un’altra cosa. Dovremmo pensarla diversamente, guardarla diversamente, sentirla diversamente per poterla apprezzare per quello che è. Ognuno di noi trova il suo modo, non è una questione di giusto o sbagliato. L’importante, credo, è farci caso e prestarle attenzione. Sarebbe un peccato perdersi una cosa così magnifica soltanto perché ci siamo intestarditi a immaginare anziché vivere.

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(842) Virus

Agenti patogeni cattivi. E qui giù di lista. Nomi e cognomi, codici fiscali e cellulari. Ognuno di noi può fare la sua cernita e ognuno di noi potrebbe motivarne la scelta con dettagliate descrizioni. Il mondo è pieno di virus, d’altro canto. 

Ma siamo pazzi a vivere?!?

Riprendiamo il controllo: nel mondo ci sono i virus. Son cattivi, sì. Certi virus sono letali, senza dubbio. Sono i soli abitatori dell’universo? No. C’è spazio per tutti? Sì. Finché i virus te lo permettono. Ovviamente.

Va meglio? Ti viene più voglia di tener duro e continuare a vivere? ‘nsomma.

Ok, rifacciamo daccapo: nel mondo ci sono un sacco di esseri che vivono. Tra questi ci sono anche i virus. Sono agenti patogeni cattivi, a volte possono essere letali. L’uomo ha imparato a difendersi da alcuni di loro piuttosto bene, da altri meno bene, da altri ancora per niente. Ma ci stiamo provando. Perché a noi uomini piace vivere e piace vivere da sani il più a lungo possibile. Certo che può capitare che un virus si insinui in noi pensando di avere la meglio, ma appena ce ne accorgiamo sappiamo che dobbiamo attivarci per fare qualcosa. Dobbiamo chiedere aiuto quando la situazione si fa davvero seria, ovvio. E se lottiamo credendoci, se abbiamo un colpo di culo e trovare la cura giusta, se siamo abbastanza forti da tenere botta alle conseguenze della cura, se non si inceppa nulla durante il percorso… ce la possiamo cavare.

Molto meglio, vero? Sì, non perfetto, ma meglio.

Potrei continuare così fino a rasentare la perfezione, ma state tranquilli non lo farò. Questo esercizio l’ho pensato soltanto per rendere evidente il fatto che se tu vuoi suscitare una precisa reazione nelle persone che si interfacciano con te, basta che tu sappia utilizzare regole basiche di storytelling e ti trasformi nel pifferaio magico. Non serve essere un genio, basta saperla raccontare. Ormai il saperla-raccontare è diventato un virus, iniettatoci da emeriti trogloditi, che si insinua nel nostro cerebro annichilendo il minimo di buonsenso rimastoci. Neppure intelligenti, soltanto trogloditi che te la sanno raccontare bene. Ma neppure tanto tanto bene, soltanto un po’. Quel po’ che serve a ottenere un voto per arrivare alla poltrona. Basta un niente, davvero.

La cura a questo virus letale? La sostanza. Pretendere la sostanza da parte di questi trogloditi li farà retrocedere. La sostanza però non significa intascarsi qualche euro al mese per farsi la vita più facile. Bastasse quello sarebbe davvero facile, ci vuole un altro tipo di sostanza, quella che fa capo al pensiero laterale. Quella che ti allarga la mente, non quella che te la mette in naftalina.

Devo ricominciare daccapo o ci arrendiamo all’evidenza che siamo stati tutti infettati?

Eddai!

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(765) Assetto

Ieri sera una cara cara amica mi ha mandato un messaggio del tutto inaspettato e bellissimo. Un dono caduto dal cielo. Non immaginavo mi vedesse in quel modo attraverso i suoi splendidi occhi verdi. Mi ha fatta sentire apprezzata, mi ha commossa profondamente. Quando l’affetto arriva da una donna il valore raddoppia perché non ci sono dinamiche di rivalità o di sottile competizione. Una condizione assolutamente rara e preziosa. Sono andata a dormire con il cuore felice, tutto qui. Mica è poco, giusto?

E anche questa mia giornata è finita e devo dire che è finita bene nonostante sia stata attraversata da un piccolo shock che manco sto a raccontare perché mi vengono i brividi. La questione principale è, e rimane, che ho ripreso il mio assetto in normal position e sono grata al cielo (e alla mia oculista).

Ripensando a tutto, anche a quelle mille cose che non sto a dire perché non hanno grande rilevanza se prese singolarmente, mi sento come se fossi passata sotto un rullo compressore e non tanto fisicamente quanto emotivamente. Che io poi riesca a fare come se nulla fosse è soltanto perché vado avanti finché non crollo sfinita a letto.

Lo so, non ci avrete capito un bel niente, ma è proprio questo il punto: credo sia sacrosanto non capirci un bel niente mentre si vive. Le cose le si capiscono – se siamo fortunati – sempre un po’ dopo e forse è il nostro modo per andare avanti senza farci prendere troppo dal panico. Volevo solo arrivare a questo piccolo punto d’origine dove il caso è sempre Signore inarrivabile: siamo delicati e siamo immersi per tutto il tempo in un dannato frullatore che va a velocità 5 (almeno). Cosa possiamo pretendere da noi stessi se non la mera sopravvivenza?

Eh. Ci sto appunto pensando.

‘notte.

 

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(761) Relax

Il mio concetto di relax fa acqua da tutti i pori. Quello che per ogni Essere Umano di buonsenso è semplice pratica-del-non-far-niente, per me diventa motivo di macchinazione sui modi che potrei impiegare per fare qualcosa per distendere i nervi.

Ovvero: fare qualcosa per rilassarmi. Presente?

Dovrei io prendere in considerazione il non-fare-niente come pratica di rilassamento forse? Giammai! Devo leggere e sottolineare e commentare a bordo pagina, possibilmente, o devo guardare un film mentre controllo la posta e prendo appunti per possibili progetti futuri, o mentre passeggio mi immergo in riflessioni senza fondo sul da farsi per risolvere questa o quell’altra situazione e via discorrendo. In poche parole, se per me la meditazione è pura utopia, il relax è ridicola presa in giro. Non c’è mai una non-attività di qualsivoglia angolo del mio cervello, non c’è mai lo scorrere del tempo fine a se stesso, non c’è mai il cazzeggiare a fondo perso. Mai. Al massimo sospendo un pensiero ossessivo per sostituirlo con un altro finché mi stanco e riprendo in mano quello lasciato in naftalina il mese precedente.

Il relax dei sani di mente mi è precluso, arrendiamoci all’evidenza.

Se sotto la doccia mi vengono le idee migliori, se guidando mi compaiono davanti soluzioni geniali, se giocando a Toon Blast o a Wood Block ho squarci di lucidità dove poter costruire una strategia, tutto questo NON è relax. E se me ne sto seduta comoda, magari sdraiata, ascoltando musica e pensando al niente (madddove?! maqqquando?!), è ovvio che dopo tre minuti m’addormento… e neppure questo è relax, è dormire – che è tutta un’altra storia santiddio!

Va a finire che mi mancano proprio le basi. Le basi per vivere intendo. Ma che ve lo dico a fa’, ormai lo sapete meglio di me.

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(751) Paura

Le settimane corrono veloci, come le ore di sonno che dovrei fare e che non vedrò mai più. Una cosa curiosa, però, è che nonostante questa settimana sia stata delirante (da ogni verso la si voglia guardare), per me va bene così.

Le cose sono due: ho raggiunto il punto xyz dove la stanchezza non osa neppure avere più una soglia oppure il poter guardare oltre e vederci un futuro migliore mi sta sostenendo come mai prima. Potrebbe darsi tutte e due, in sinergia. Mah.

Focalizzandomi sulla seconda opzione potrei addirittura azzardare che se togli la visione del futuro a un Essere Umano gli togli la voglia di vivere il presente. E dirò di più: il futuro arriva comunque, sia che tu te lo sogni bene o che tu te lo mortifichi per bene. Lui arriverà e si espliciterà nonostante le tue speranze e nonostante le tue paure. Non è che avere speranza tolga la paura, questo no, ma avere paura distrugge la speranza, questo sì.

Vivere nella paura è giustificato solo per brevi periodi, ma alla lunga è intollerabile. Deve essere intollerabile. Se non lo è allora siamo in un bel guaio.

La mia paura esce fuori spesso, ma l’ho sempre calciata un po’ più in là, come se non fosse mai il momento giusto per occuparmene. Sì, sconcertante. O sono folle o sono scema. Una folle scema o una scema folle, molto probabilmente. Comunque sia questa cosa me la devo riconoscere, non c’è niente da fare. La paura la distraggo con i libri, con la musica, con l’arte, con le idee, con l’amore per le cose e per le persone. A lei gira la testa e si mette in un angolo. Appena le passa ritorna in campo e io ancora lì a farle lo stesso scherzo. Ci casca sempre.

Forse il miglior modo di fottere la paura è dedicarsi a qualcosa o/e a qualcuno senza farsi portare via dall’angoscia. Forse altro modo non c’è. O almeno, io ancora non l’ho trovato.

Contare tutte le facce della mia paura non serve a niente, sono più numerose di me. Contare tutte le possibilità per distrarle mi aiuta a calcolare il tempo da vivermi. Libera.

 

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(705) Monumenti

Ci siamo abituati a guardare certe cose come se fossero lì per rimanere. Per sempre. Un tempo parlavano di noi, ora non più, ora ci ricordano chi eravamo (forse), ma potrebbero tranquillamente andarsene anche dalla nostra memoria che non cambierebbe quel “chi siamo” di cui tanto abbiamo bisogno per vivere.

Sono dei monumenti che abbiamo adottato, o abbiamo costruito, apposta per appenderci un pezzo di noi. Per sicurezza, per scaramanzia.

Facciamo fatica a staccarci, facciamo fatica a pensarli sorpassati, facciamo fatica a distruggerli. Eppure non ci servono più. Facciamo fatica anche ad ammettere questo dettaglio da nulla, in fin dei conti darci torto ci rode un bel po’. Piuttosto li teniamo lì e li spolveriamo, piuttosto facciamo finta che gli assomigliamo ancora. Se così non fosse ci mancherebbe un puntello, ci sentiremmo scivolare via come sabbia, saremmo costretti a chiederci “E ora chi sei?” e dovremmo arrovellarci per trovare una risposta plausibile, credibile, utilizzabile. Panico.

Ma noi siamo diversi da quello che eravamo, seppur gli stessi, siamo cambiati. In meglio o in peggio non fa differenza, siamo comunque diventati altro anche se chiunque si fermi alla superficie ci riconosce e ci riporta al monumento che si è fatto di noi. Un gioco che è una gabbia. Difficile uscirne, difficile restare dentro. E allora ci pieghiamo un po’ per non dare troppo nell’occhio. Non sappiamo neppure il perché, forse lo abbiamo visto fare e lo stiamo riproponendo come da istruzioni date ai nostri neuroni specchio, piccole inconsapevoli scimmie come siamo… mah!

Non mi piaccioni i monumenti eppure ne ho costruiti tanti e ne ho avvallati altrettanti durante i miei anni. Che brutta abitudine, che squallido modo di pensare a me e al mondo che mi gira attorno…

Ora prendo martello e scalpello e inizio a ritoccare quel che posso, quel che non può essere modellato lo butto giù. Facciamo un po’ di spazio, è tempo.

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(697) Brindisi

brindisi /’brindizi/ s. m. [dal ted. bring dir’s “lo porto a te (il saluto o il bicchiere)”, cioè “bevo alla tua salute”, attrav. lo sp. brindis]. – [il bere alla salute di qualcuno o di qualcosa] ≈ cin cin, cincin.

Un brindisi me lo farei volentieri. Tra tutte le paranoie e le menate senza senso, tra tutte le incazzature e i problemi da risolvere, tra tutto quello che ho vinto e quello che ho perso, tra tutto quello che ho lasciato andare e quello che ho accettato di portare avanti… insomma, tra tutto questo, a quest’ora avrei potuto essere morta. E invece sono qui. Cincin!

Il fatto che siamo vivi e che lo siamo non per un caso fortunato ma perché siamo degli ossi duri, lo diamo troppo per scontato.

Già il barcamenarsi non è una scelta ma l’unica via, mettici pure il fato e la sfiga, insomma, c’è di che rimanere soddisfatti: vivere non è per tutti. Il fatto che siamo in tanti vivi – il mondo è piuttosto affollato – non significa che sia una cosa da poco. Infatti, ci stiamo talmente tanto addosso che non vediamo l’ora di scagliarci gli uni contro gli altri per farci saltare in aria reciprocamente. C’è da esserne orgogliosi, vero? Una massa di inenarrabili teste di cazzo.

Madre Natura fa pulizia ogni tanto, il punto è che non sceglie i più meritevoli – ovvero i grandissimi infami – per toglierli di mezzo una volta per tutti, lei va giù di grosso: dove piglia piglia. Migliaia e migliaia di persone normali se ne vanno al Creatore e gli infami stanno ancora qui. Non va bene, ma non è che puoi discutere con Madre Natura (né in quanto Natura né tantomeno in quanto Madre). Chi resta resta. Chi resta dovrebbe vivere con gratitudine sparsa e senza condizioni, invece sputiamo su tutto, come se niente avesse valore.

Ci vorrebbe un po’ di coscienza, di tanto in tanto, perché siamo orrendi quando agiamo come se ci meritassimo il meglio e stiamo ricevendo il peggio. La verità fastidiosa è che non ci meritiamo un bel niente che stiamo ricevendo di tutto e di più e tutto insieme perché le cose son così per tutti. E siamo tutti uguali.

Un brindisi a me, quindi, e a chi come me vuole prendersi un bel respiro, vuole guardarsi attorno, vuole sentirsi parte di quel grande miracolo che è la vita, vuole condividere la sorpresa dell’esserci ancora con chi la può capire e può farla sua alzando il calice e con un sorriso affermare: brindo a te.

Cin cin!

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(686) Eco

Ci sono dei passi che hai fatto di cui ti porti ancora l’eco dentro, te ne sei accorto? Sono quelli che non finiranno mai, non importa quanto ci stai provando e da quanto tempo, non finiranno mai. Te li porterai dentro per sempre.

Non ho ancora capito se è perché dovevo fare altre scelte e il reminder diventa una sorta di punizione, o se è perché la scelta è giusta ma ancora non l’ho digerita. L’ho fatta, ma soltanto perché andava fatta nonostante il dolore che mi poteva causare. Soltanto che l’ho scoperto troppo tardi che l’eco del dolore non passa mai. Neppure quando non c’è più ferita, neppure se non c’è nemmeno una cicatrice. Mai. Rimane tatuato nel cervello e ti si ripresenta intatto anche a ricordarlo dopo un secolo. Questa è la vera maledizione del vivere.

L’eco stordisce, non sai da dove è partito il suono originale, non sei in grado di contare tutti i rimbalzi che ha fatto per arrivare a te, non sei nella condizione di poterlo schivare. Sei semplicemente sulla sua traiettoria e ti porterà con sé ovunque voglia andare. Mi piacerebbe poterlo prendere al volo, tenerlo in mano per guardare che faccia ha. Sono quasi certa che abbia la mia faccia, sì, non può essere altrimenti.

Penso anche all’eco di quel che ho fatto e ho detto in questi anni, sarà rimasto dentro a qualcuno? Non come una sottile vendetta per chissà quale peccato, no. Sarebbe terribile, non me lo perdonerei. Piuttosto come un’esortazione gioiosa, una richiesta al poter Essere-Presente, alla sostanza delle cose, dei fatti, delle persone, degli incontri. Questo sarebbe bello, fosse anche soltanto in una persona, sarebbe bello.

Chissà se l’eco di me, in qualche modo, riesce ad essere utile al mondo. Chissà.

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(646) Nocciolo

Andare al nocciolo, sembra cosa facile, ma per la maggior parte delle persone è pressocché impossibile. Si perdono in dettagli da nulla, raccolgono ciò che non ha alcun significato e lo trasformano in qualcosa che non c’entra niente. Partire per la tangente sembra essere lo sport che va per la maggiore di questi tempi. 

Si parte parlando di cavoli e si finisce per discutere di merende. Delirio.

La cosa peggiore è che nove volte su dieci manco ci rendiamo conto che siamo stati sviati, siamo stati manovrati e condotti in un altrove senza senso e che il punto cruciale, a cui dovevamo arrivare per ripartire da lì e cercare di trovare una soluzione, è svanito nel nulla. Non esiste più. Esistono le stronzate che sommandosi a valanga hanno causato lo sfacelo della logica e del buonsenso.

Non succede soltanto in televisione, durante quei talk-show patetici che ormai ci escono dalle orecchie, succede ovunque. O-V-U-N-Q-U-E. Siamo circondati, non abbiamo scampo. Veniamo travolti da discussioni che hanno come scopo il confonderci le idee, ci propinano teorie e studi di settore che il più delle volte sono campati in aria e noi – che non ci fermiamo neppure per tirare un respiro – prendiamo per buono quello che è invece soltanto aria fritta. Ci turiamo il naso quando sentiamo puzza di marcio e facciamo finta di niente, perché siamo stanchi di ascoltare, stanchi di capire, stanchi dei problemi da risolvere, stanchi stanchi stanchi di essere sempre stanchi.

Houston, abbiamo un problema.

Come far passare questa stanchezza atavica? Non lo so, ma forse non può passare, forse dobbiamo forzarla, dobbiamo disintegrarla forti del fatto che se non lo facciamo diventeremo degli zombie decerebrati e verremo ridotti in schiavitù da chi usa il proprio potere per schiacciare il prossimo.

No, non lo siamo ancora schiavi. Ce lo vogliono far credere, ma non lo siamo ancora. Sappiamo ancora ascoltare e arrivare al nocciolo della questione. Dobbiamo solo mettere da parte un po’ della nostra stanchezza trovando come motivazione il fatto che vogliamo e dobbiamo mantenerci vivi.

Si può fare? Io credo di sì.

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(618) Piano

Piano piano il piano si compie. Inizio subito con la morale della storia, così almeno un riferimento l’ho dato. Perché scendere in particolari richiede tanta pazienza, soprattutto da parte di chi si ferma qui a leggere – per il quale nutro rispetto supremo, per questo eviterò di dilungarmi in un resoconto che è di poco interesse.

Vediamo se riesco a esprimere il concetto senza fronzoli: andare piano non mi piace, di solito, preferisco un’andatura sostenuta. Sempre, fuorché quando cammino. Quando cammino l’andamento forsennato mi fa salire l’ansia. Prima contraddizione? Forse, ma io sono un ricettacolo di contraddizioni – ormai è evidente a tutti. Riprendiamo il filo del discorso: andare piano significa che il risultato arriva dopo molto tempo dalla partenza. La strada può anche essere la stessa ma se la percorri a 50 all’ora, a 90 o a 130 le cose cambiano. Altroché.

In queste ultime settimane ho preso due multe per eccesso di velocità, per un chilometro in più (oltre al limite + 5) e per 3 chilometri in più, considerando che sono stati gli unici due giorni in cui non ho trovato coda in tangenziale ho valutato che la stramaledetta coda quotidiana mi permette di non consegnare il mio dannato stipendio direttamente nelle casse del comune a fine mese. Assurdo? Sì, ma andare piano mi obbliga a metterci un’ora e anche oltre (se piove il tempo si può dilatare a dismisura, non ho ancora capito perché) al mattino e altrettanto a fine pomeriggio e la cosa mi sta demolendo i nervi. Quindi l’assurdità è motivata, ho i nervi demoliti.

Ritornando sul concetto iniziale: andare piano ti obbliga a rallentare tutto, sì, bellissimo, godersi il momento e tutte queste cose meravigliose, ma la vita non è che rallenta, lei ti passa sopra come uno schiacciasassi e gli anni corrono e tu andando piano non li rallenti mica, quelli vanno vanno vanno e ti ritrovi nella tomba prima ancora di aver raggiunto la prima tappa del tragitto. Porca miseria.

Mi piacerebbe che le cose nella mia vita – quelle belle intendo – non succedessero a rate minime con scadenze millenarie. Ci rendiamo conto o no che ho vissuto più tempo di quello che mi resta da vivere? Ci diamo una mossa o no? Vogliamo arrivare alle vere e importanti manifestazioni? Quelle che ti fanno fare un reale salto quantico, concreto non illuminazioni sconvolgenti… quelle vanno bene, per l’amor del cielo, ma mica ti risolvono i problemi. Le illuminazioni ti sollevano dai problemi, ma i problemi restano. Che tu te ne fotta perché ormai sei illuminato va bene, buon per te, ma i problemi restano lì e finché qualcuno non li risolve quelli non svaniscono da soli.

Ora, il mio problema – quello che sta lì da molto tempo – è che il mio avanzare è davvero lento, in modo sottilmente irritante, tenacemente sfinente, caparbiamente esacerbante. Non so se ho reso l’idea. Ecco. Se l’ho resa, molto bene, se non l’ho resa fa niente. Male che vada ho fatto sfoggio di un bel po’ di avverbi inusuali che mi capita raramente di utilizzare. 

L-e-n-t-a-m-e-n-t-e… concludo.

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(579) Benestare

E un giorno smetti. Così di colpo. Non ti riconosci più, ma non ci pensi un attimo. Sai che è arrivato il tempo di smettere e sai che ci hai messo fin troppo a capirlo e a prendere la decisione più sana di tutta la tua vita.

Smettere di chiedere il benestare di chi ti sta attorno per fare quello che senti di dover fare per stare bene, è il primo passo verso la salvezza. Io ho iniziato a diciannove anni e non mi sono più fermata. Per questo sono ancora viva.

Non significa che non sento ragioni e faccio sempre di testa mia – ora che ci penso è così, ma posso spiegare meglio…

Non significa che non ascolto quello che chi mi vuole bene pensa al riguardo e magari i consigli che mi vengono offerti, li ascolto, davvero, li ascolto tutti. Ma faccio di testa mia. Invariabilmente. Senza cedere di una virgola. Faccio quello che la mia testa mi dice. Perché la mia testa ci ha pensato e ripensato, ha valutato, ha soppesato, ha tolto, ha aggiunto, diviso e moltiplicato. Ha fatto un salto in avanti, due di lato (ds e sn) e uno indietro; ha guardato bene, tutto quello che poteva vedere l’ha visto, tutto quello che poteva sentire l’ha sentito, tutto quello che poteva immaginare l’ha immaginato. Quello che non ha visto, sentito, immaginato è comunque lontano da me e neppure se me lo racconti mi convinci. Perché se non lo vivo non lo conosco. Tutto qui.

Ovvio che ci sono cose che non intendo vivere e di cui mi basta una vaga idea – mi serve per tenermi a distanza – ma quelle che penso facciano per me, allora sì. E lo so che potresti non essere d’accordo, che mi vorresti evitare un danno, che ti preoccupi per me. Eppure…

Eppure se io avessi aspettato il benestare di qualcuno per ogni passo che ho saputo fare, se avessi creduto a ogni spauracchio mi si fosse palesato davanti evocato da chi la sapeva più lunga, se avessi pensato che non sapevo e non potevo decidere per me e per la mia vita, io sarei morta dentro. Non avrei vissuto cose meravigliose e anche cose dolorose, non avrei capito quanto ero lì per imparare e quanto invece già conoscevo, non avrei messo alla prova tutte le mie insicurezze e i miei gap – ridicoli e non – e non avrei compreso meglio la voce che mi guida nonostante tutto e nonostante tutti, nonostante me.

Non c’è benestare che tenga. Il permesso me lo do io, per fare e per non fare. Così è. Che piaccia o no, questo non è affar mio.

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(570) Sincronicità

Allo stesso momento, simultaneamente. Ti accorgi che quello che vuoi non va bene per te, e te ne accorgi mentre stai per ottenerlo. Ti passa la voglia di volere qualcosa, del tutto.

Oppure guardi una persona che istintivamente ti piace e scopri che per quello che sta dicendo o che sta facendo non ti piace più. O il contrario: non ti piaceva per nulla e per qualcosa che dice o che fa cambi idea. Simultaneamente. Ti vien voglia di non pensare a niente, tanto non ci azzecchi mai.

Quando allo stesso tempo pensi: ho caldo, ho freddo. Ho fame, non ho fame. Ho sonno, non ho sonno. Voglio, non voglio. Cosa diavolo mi stai facendo, cervello?! Vuoi farmi impazzire?! Simultaneamente sono e non sono. Sincronicità senza senso. Senza alcuna utilità.

E quando pensi di essere l’unica a provare questo sfasamento stordente, inizi a prestare attenzione a quello degli altri. Nei loro occhi passa il nero e il bianco in simultanea e tu non sai dove metterti, cosa fare, cosa dire. Ti viene solo voglia di andare via, andartene lontano, distante da ogni nero e ogni bianco che potrebbe catturarti e fare di te un grigio che non vuoi. Che non sei.

E ti domandi che cosa succederebbe al mondo se ogni Essere Umano si vedesse realizzare all’istante ogni desiderio gli passasse per la testa? Follia. Per fortuna facciamo in tempo a cambiare idea mille volte prima di iniziare veramente a costruirci un desiderio che abbia un senso. Meno male che il tempo dilata e annacqua l’intento per metterlo alla prova. Meno male che possiamo tentare di domare i nostri pensieri prima che questi ci frantumino pesantemente. Meno male.

La sincronicità bisogna saperla vivere, non c’è nulla da fare.

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(502) Quintessenza

Incontrare la quintessenza dell’incompetenza è un’esperienza che consiglierei a tutti. Se poi si unisce alla quintessenza dell’arroganza, si raggiunge il top. Anche questa la consiglierei, perché da quel momento in avanti il mondo non ti sembra più lo stesso.

È come se ti si fossero spalancate le porte della percezione, dove tutto quello che pensavi fosse illusorio diventa reale e tutto ciò su cui basavi il tuo solido sapere si rivelasse essere aria fritta.

Non riesci a capacitarti del fatto che quello che stai vivendo sia un evento eccezionale e al contempo non così raro – solo che a te, con questa intensità, non era mai capitato – e che per quanto tu faccia non potrai cambiare le cose: la quintessenza (di qualsiasi cosa) vince su tutto.

E non serve appellarsi al buonsenso, ai limiti che non vanno superati, al rispetto per una professionalità che vive di esperienza e preparazione… macché! Tutte idiozie, l’arroganza da sola potrebbe ribattere con veemenza che i soldi fanno il padrone e gli altri son pur sempre schiavi, figuriamoci quando questa arroganza viene sublimata a quintessenza. Non se ne esce.

Ci sono tanti modi per vivere, e vivere da arroganti (anche se sublimati) non è mai stata una mia ambizione, ma per quanto io cerchi di scappare vado sempre a cozzare con una fottuta quintessenza di qualcosa e – come ho già detto – non c’è battaglia che tenga, è sempre lei che vince. Vince su tutto.

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(356) Punte

Vivere in punta di piedi, non è un bel vivere. Hai paura di fare troppo rumore, paura di rompere qualcosa, paura che qualcuno potrebbe notarti e infastidirsi per la tua presenza. Paura che qualcuno potrebbe accorgersi che sei di troppo, che lì non sei desiderata.

Significa non respirare bene, restare sempre un po’ a metà. Significa mettersi da parte quando capti che qualcuno se n’è accorto, che ci sei e che occupi uno spazio intendo. Significa sentirsi dire che sei ingombrante, che hai manie di protagonismo, che sei in cerca di lusinghe e di clamori, anche quando vorresti che ti si aprisse una voragine sotto i piedi per inghiottirti.

Però. Vivere in punta di piedi ti permette di sollevarti un po’, quel tanto che basta da cogliere il vento nuovo che profuma diverso. Vivere in punta di piedi ti fa resistere al risucchio della forza di gravità, la terra non la calpesti, ti posi più leggera che puoi e non lasci tracce indelebili. Vivere in punta di piedi ti rende silenziosa, nel silenzio puoi ascoltare, puoi imparare, puoi crescere.

Le punte su cui traballo sono ormai consumate. Mi fanno male le dita, le gambe non reggono più il peso. Credo sia tempo di poggiare i piedi a terra, dalle punte ai talloni, e sperare che la terra sopporti i miei chili di troppo. Non so come andrà, so che è stata una scuola dura, quella del vivere in punta di piedi, e che sono abbastanza stanca e adulta da appendere le paure al chiodo. E che la musica continui!

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(157) Motivare

Secondo me la migliore motivazione del mondo può partire solo dal sogno. Se curi con tutte le tue energie il tuo sogno più caro la spinta di cui beneficerai ti può fare arrivare fino alle stelle.

Mi sono sempre domandata perché a un certo punto, durante l’adolescenza, ti viene ripetuto a martello di smettere di stare sempre con la testa tra le nuvole. Smettila di sognare a occhi aperti!

Perché? Che fastidio ti do se me ne sto per i cavoli miei a pensare a qualcosa che mi fa stare bene? Perché ti rode tanto che io possa avere pensieri che mi fanno sorridere, che mi fanno venire voglia di volare?

E ti chiedo, esserino triste e frustrato: se non le sogni le cose, come puoi sperare di realizzarle?

Diffido di chi ha smesso da troppo tempo di sognare, diventa pericoloso, è come una pentola a pressione senza valvola di sfogo capace di scoppiare da un momento all’altro. Quando smetti di sognare covi rabbia, rabbia contro il mondo intero che ti ha rubato i sogni.

Nessuno può rubarti i sogni, sei tu che ti sei arreso e hai iniziato a pensare che i sogni fossero solo una perdita di tempo. Fai mea culpa e ricomincia daccapo. Reinventati bambino, impara di nuovo a vagare tra le nuvole e impegnati in qualcosa che puoi fare a costo zero e senza sforzo fisico: sogna.

Vedrai che è da lì che ricomincerai a riappropriarti della voglia di vivere.

Sogna!

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(135) Cecità

Tutto quello che non vuoi vedere. Tutto quello che non vuoi vedere potrebbe ucciderti e tu neppure te ne accorgeresti. Moriresti inconsapevole.

Non è un bel morire, così. Per niente. Mi auguro un buon morire come mi auguro un buon vivere e penso che per entrambi io possa fare qualcosa. Cercare di vedere tutto quello che c’è da vedere, anche quello che non mi piace, anche quello che fa male. Imporsi la cecità non è solo codardia, è rinuncia. No, faccio fatica ad assumere il ruolo del rinunciatario e l’atroce responsabilità del non-so-che-farci. No.

Vedere, finché posso, finché posso vedere, e tentare di capire, fin dove posso capire, con la mente e con il cuore. Credo sia un modo pieno per vivere e che sia un bel modo di morire. E non c’è nient’altro che voglio se non vivere pienamente e morire con dignità.

Morire a occhi aperti.

 

 

Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti. (…) Chi sarebbe così insensato da morire senza aver fatto almeno il giro della propria prigione?

Marguerite Yourcenar (da “Memorie di Adriano”)

 

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(104) Amore

“Non esiste una regola. Ogni singolo amore, come ogni morte, è unico.
Per questa ragione, nessuno può imparare ad amare, come nessuno può imparare a morire. Benché molti di noi sognino di farlo e non manca chi provi a insegnarlo a pagamento”.
Zygmunt Bauman

Mi ero fissata sul fatto che dovevo imparare a vivere, imparare ad amare, imparare a morire. Pensavo che avrei dovuto trovare una sorta di guida, un Maestro che potesse insegnarmi. Del tipo “dai la cera-togli la cera”, tanto per intenderci, così da poter guadagnarmi la cintura nera della Saggezza.

A un certo punto ho capito che dovevo essere io la mia Maestra, sbagliando continuamente.

Faticoso, snervante, frustrante.

Eppure è l’unico modo per arrivare con sicurezza alla fine del tuo percorso soddisfatto di te. Anche se, come dice il Maestro Bauman, nessuno può imparare come vivere, amare, morire. Sono solo tentativi.

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