(992) Cattiveria

Ci sono diversi modi di esplicitare la propria cattiveria. Quelli più evidenti ti rendono vulnerabile perché puoi trovare sulla tua strada qualcuno che non incassa e tace, ma che ti ripaga con la stessa moneta. E son cazzi tuoi. Le persone che agiscono in questo modo, sconsideratamente e stupidamente, sono le migliori perché le inquadri subito e le puoi detronizzare con poco sforzo e anche per sempre (volendo), evitandole.

Poi ci sono le persone che usano un’astuzia sapiente e spargono la propria cattiveria sugli altri, con mira invidiabile ed efficacia letale, e tu manco te ne accorgi se non quando è oggettivamente troppo tardi. Ok, da queste è davvero difficile difendersi. Se non sei viscido e perfido alla pari, finisci con l’avere la peggio in modo sistematico.

Non ragioniam di lorma guarda e passa (Inf. III, 51)  – Dante Alighieri

Sì, Dante ha ragione, ma ogni tanto ragionare sulle cose ti aiuta a digerire meglio. Non è che a tirare sempre dritto le cose comunque si risolvono e ci sono cose che se non le risolvi in qualche modo ti fanno ingoiare i danni all’infinito. Quindi per oggi ragioniamoci su.

La cattiveria si può trasformare in azione o meno, a seconda dell’opportunità e del coraggio del soggetto in questione di cedere a quel pensiero malefico da cui ha origine. La cattiveria consapevole è quella condizione dove non solo ti ritrovi obiettivamente ad ammettere con te stesso che sei cattivo, ma lo fai con un certo orgoglio perché esserlo ti rende potente. E lo sei, potente. Lo sei non perché più forte degli altri, soltanto perché te ne fotti e agisci senza scrupoli. Questo fa di te un assassino, perché quando uccidi la buonafede delle persone sei a tutti gli effetti un assassino. 

Tu prendi un altro Essere Umano e lo colpisci cercando di fargli più male possibile. Lo fai perché, secondo il tuo metro di giudizio, questa persona non vale niente, questa persona merita di soffrire e la vuoi spezzare in tutti i modi che puoi immaginarti. E ne puoi immaginare mille di modi, in contemporanea, perché l’immaginazione non ti manca. Che questa persona ti abbia fatto o meno un torto, alla fine, non importa, basta semplicemente che per un motivo o l’altro ti stia sulle palle.

Un Essere Umano vero, non tu, quando odia cerca di maneggiare il sentimento per renderlo meno devastante. Non necessariamente si arma per far fuori chi sta odiando. Ci viene a patti, mentalmente parlando, per non trasformarsi in una bestia. Ma, ora che ci rifletto meglio, l’odio non si attacca ai veri Esseri Umani, loro arrivano fino a un certo punto e poi mollano il proprio ego prima di soffocarci dentro. Tu, invece, no. Tu, bestia, non lo fai.

E quando si riceve questo odio si ferma il respiro. Perché è peggio di un pugno, è un colpo che arriva al cervello e annichilisce ogni reazione. Non ti pieghi, non ti spezzi, non ti muovi… tieni botta e poi… ti afflosci. 

Ok. Dante alla fine ha ragione, come sempre. Ti vien soltanto da guardare e passare. Guardi perché speri di riconoscerla in tempo la prossima volta, la bestia, e passi perché ti vuoi allontanare immediatamente da lì. Quello non è un luogo dove gli Esseri Umani dovrebbero stare, quello è il luogo delle  bestie. E le bestie in giro sono tante, e bisogna farci caso, e bisogna imparare a riconoscerle, e bisogna guardare e passare.

Guardare e passare.

E allontanarsi il più in fretta possibile.

Senza rimpianti. 

 

 

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(888) Venezia

Ognuno di noi ha una sua Venezia dentro il cuore. Con i canali, tanta acqua, palazzi che fanno sognare un tempo passato un po’ più felice (forse) e… tanti turisti che rompono le palle sparsi in giro.

Il tuo luogo non è mai incontaminato. I turisti sono ovunque. E la cosa peggiore è che tu sei il turista nel luogo speciale di qualcun altro. Noi Esseri Umani siamo nati per darci il reciproco tormento. Innegabile.

Sto divagando, ero partita col pensiero che una Venezia sia per forza di cose irriproducibile (nonostante ci abbiano provato anche con risultati notevoli), perché quella malinconia sognante che puoi grattare giù dai muri, raccogliere da ogni pietra, acchiappare al volo dalle gocce d’acqua che schizzano al passaggio di un traghetto, quella cosa lì non la si può inventare. Non la si può ricreare. Non la si può dimenticare, una volta che l’hai incontrata.

Come certe persone che sono passate attraverso di te, che le hai sentite con tutto il corpo e che per quanto tu faccia non le potrai mai sostituire, le puoi solo ricordare con struggente nostalgia.

E ci sono cose che davvero non ritornano e cose che ti si presentano davanti con abito nuovo, ma sono sempre le stesse, e tu non sai se abbracciarle o mandarle al diavolo.

Sono spesso presa dallo Spleen, un tormento che ti parla di quello che non c’è mai stato e che si continua a desiderare perché lo si immagina perfetto. Lo so, un’enorme perdita di tempo, ma neppure me ne accorgo. Ci casco dentro e bon, ci rimango per un po’, finché non mi stanco e ricomincio. Un’autoindulgenza che fa poco bene, ma anche poco male, e allora chissenefrega. Di qualcosa dovrò pur morire e non morirò di certo di Spleen.

Ho Venezia stasera che mi luccica dentro. No, non mi sta facendo bene, ma neppure troppo male. Quindi chissenefrega.

Buonanotte.

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(839) Struttura

Può non piacerti, ok. Puoi anche voler vivere alla selvaggia. Benissimo. Ma se non ti arrendi alla realtà dei fatti, sei finito. Quale realtà? Vivere improvvisando totalmente è per pochi. Per pochi davvero. Tutti gli altri si fanno male.

Strutturare un pensiero, strutturare una visione, strutturare un progetto: non è IL MALE.

La spensieratezza è del tutto sopravvalutata. Direi un concetto retrò, che doveva morire col movimento hippy. Vi siete divertiti? Ottimo. Cosa ne avete fatto della vostra vita? Sicuramente se ne avete fatto qualcosa di buono avete dovuto a un certo punto s-t-r-u-t-t-u-r-a-r-e in qualche modo il vostro progetto di vita. Non dico da lì alla fine dei vostri giorni, ma almeno di dieci anni in dieci anni sì. 

Tanto per avere una direzione, tanto per testare i risultati, tanto per concretizzare qualche idea, qualche desiderio. Qualcosa. Non togli spensieratezza alla tua esistenza, santocielo, acquisti densità. Senti più intensamente: dalla fatica alla gratificazione. E ti rendi conto che sai costruire e non solo mandare tutto a puttane perché non ne puoi più di doveri e costrizioni. In fin dei conti decidiamo noi quali siano i nostri doveri, fai il furbo e non darci il carico da dieci se sei cosciente che non potrai reggere a lungo. Insomma, un po’ di strategia!

E poi parliamo delle costrizioni: svegliarti al mattino alle 7 la senti una costrizione? Ti capisco. Bruttissimo. Morire di stenti è molto meglio, no? La vita è fatta di scelte, ingoia il rospo e agisci.

Le regole del gioco non le decidiamo noi, ma possiamo diventare degli abili giocatori mettendo in campo le nostre risorse in modo opportuno. Se poi l’idea di strutturare minimamente la tua esistenza non ti va proprio giù, allora ti auguro di essere uno di quei pochi che se lo possono permettere e vivere alla grande. Di cuore.

 

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(805) Ambiente

L’ambiente in cui siamo immersi ci determina. E ci sono miliardi di dettagli che fanno di un ambiente un posto sano o malsano, accogliente o respingente, amico od ostile, talmente tanti che le varianti prodotte proliferano all’ennesima. Troppe da contare, troppe da controllare. Il nostro potere si fa minuscolo quando l’ambiente è così forte da schiacciarci senza neppure un perché valido.

Nessun ambiente al mondo è totalmente protetto, le condizioni possono cambiare improvvisamente e dare il via a una valanga di conseguenze (anche) devastanti. Tutto può succedere, come in un film, o peggio.

Se riuscissimo a essere appena appena onesti con noi stessi, allora ammetteremmo che non ci sentiamo mai al sicuro e che non abbiamo mai pensato (se non da bambini) che il mondo fosse un luogo privo di pericoli. Infatti non lo è. Noi siamo sopravvissuti a numerose apocalissi, i fossili parlan chiaro. E se fossimo davvero onesti, riusciremmo anche ad ammettere che da bambini ci siamo trovati in diverse situazioni dove il male ci ha toccato e ci ha ferito. Se fossimo così coraggiosi da ricordare, ricordare cosa significa essere in balìa del male, allora non penseremmo neppure per un istante che l’ambiente in cui viviamo si possa curare dei bambini, dei ragazzini, degli adolescenti. Non possiamo credere a una bestialità del genere. Il nostro ambiente evoluto se li mangia e se li mastica per bene questi giovani cuori, sono loro le vittime più appetitose e questo – soprattutto – perché noi adulti ci giriamo dall’altra parte.

Diamo la colpa a chi non si cura di loro, ma siamo noi i primi a pretendere che loro siano autonomi e che si guardino le spalle da soli. Una sorta di fai-da-te che ci sollevi da responsabilità e sensi di colpa.

Se un bimbo cresce in un ambiente sano e amoroso non va in cerca dell’inferno. Se l’inferno ce l’ha in casa non fa altro che cercare un inferno che gli assomigli quando è fuori, perché non conosce altro. Se a un bimbo gli insegni cosa significa amare, amare sé stesso e amare gli altri, non si trasformerà in un’arma contro nessuno. Il problema siamo noi, noi che non ci ricordiamo più com’è essere ingenui e fiduciosi, speranzosi e pieni di vita. Non ce lo ricordiamo perché fa male. Per proteggerci dalla nostra perdita, distruggiamo il bene nei cuori dei nostri figli.

Facciamo proprio schifo. Ma schifo tanto.

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(774) Fragilità

Non ci facciamo i conti, ci pensiamo Déi, poveri noi. La fragilità è il nostro limite e il nostro limite ci parla giorno dopo giorno senza che noi prestiamo ascolto. Il nostro corpo è fragile, la nostra mente è fragile, le nostre convinzioni sono fragili, la nostra fede, la nostra volontà. Tutto quello che di buono abbiamo, in un istante con un colpo di forbici può essere tagliato via. La nostra rabbia, il nostro odio, la nostra arroganza, la prepotenza del nostro volere, invece… nessuna fragilità. Tutto quello che di pessimo riusciamo a fare di noi stessi è tutt’altro che delicato, diventa un macigno che rotolando si porta via tutto il resto. Senza pentimenti, senza cedimenti. Impressionante.

Il male, ce lo raccontano al cinema, non si ferma mai. Neppure la morte riesce a fermarlo. La nostra fragilità di fronte al male si propaga in modo devastante, ci sentiamo andare in briciole anche senza morirne. Perché non moriamo? Neppure quando il cuore ci va in pezzi, quando il corpo frana, quando la mente se ne va altrove, lontano da noi, perché?

Non sarebbe meglio? Alzi le mani, ti arrendi: ok, vado, hai vinto.

Non succede, non è così facile morire. Nonostante il tuo essere debole, spezzato, annullato dalla sofferenza, resisti. Non molli. Non per tua volontà, certo, non sai il perché, sai solo che non molli. Chi sta decidendo per te? Quale Dio crudele sta appropriandosi del tuo libero arbitrio per fare di te un fantoccio dolorante con cui giocare?

Nessun Dio, credo. Piuttosto penso sia la vita. E la vita non si sceglie, ti capita. La vita c’è, oltre al tuo volere e ai tuoi desideri. Se ne frega della tua fragilità, se ne frega della tua dignità, se ne frega e basta. Perché?

Forse sa che siamo meno fragili di quel che vogliamo farle credere, che spesso ce la raccontiamo per amor del dramma, per lamentarci e per tirarci indietro dando poi la colpa a lei. Lei ci conosce, facciamo così da millenni, eppure siamo ancora qua. Forse non stiamo benissimo, ma stare malissimo è un’altra cosa. Continuiamo a prenderla in giro o ci decidiamo a crescere una volta per tutte?

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(755) Intermittenza

Andiamo a intermittenza. Andiamo a intermittenza e ci stupiamo che gli altri non stiano ai nostri luce/buio come vorremmo. E che devi fa’ della tua vita se non star dietro al mio umore? Cosa? Lo shampoo?

E finché è l’umore va ancora bene, pensiamo a cosa succede quando ad andare a intermittenza sono i nostri sentimenti. Ti amo/non ti amo, ti odio/non ti odio, ti voglio/non ti voglio, ti penso/non ti penso… delirio costante.

Se ce lo tenessimo per noi non sarebbe poi un gran difetto, ma onorandone il culto lo imponiamo a chi ci sta accanto. Lo facciamo andare su e giù come uno yo-yo, lo facciamo girare e pirlare come se fosse un burattino, lo facciamo parlare o lo zittiamo come se il suo esserci dipendesse da noi. Aguzzini spudorati, ecco cosa siamo.

Eppure pretendiamo sicurezza, solidità, coerenza, fedeltà, da chi abbiamo vicino. Se mi ami ora mi amerai per sempre. Anche se ti prendessi a calci in culo, ormai hai promesso e son cazzi tuoi. Belle cose, davvero. Facciamo della scostanza la nostra religione e calpestiamo il diritto a cambiare idea, cambiare il proprio sentire, cambiare opinione, cambiare pelle – se serve e certe volte serve proprio – di chi ci sta attorno. Tutti traditori, ma noi no.

Accendi e spegni la luce facendomi girare nella stanza e sbatto contro tutto e mi sto facendo male, ma tu accendi e spegni la luce finché mi scoppiano gli occhi e non riesco a vedere più niente. Chiamala crudeltà mentale, tesoro, non amore.

Se qualcuno avesse il coraggi di dirlo, se qualcuno avesse il coraggio di staccarsi dall’interruttore nel sentirsi rivolgere queste parole, forse – dico forse – le cose potrebbero migliorare. Voglio essere ottimista, stasera, voglio accendere la luce.

 

 

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(724) Tocco

Basta un tocco e tutto può cambiare. Un tocco di fortuna o di sfiga e tutto può cambiare. Anzi, tutto cambia. Perché cambi tu dentro, anche se non te ne accorgi, anche se ti sembri sempre la stessa, ma non è così. Te ne accorgi col tempo, quando si è sistemato un nuovo equilibrio, migliore o peggiore non ha importanza, è comunque un’altra cosa, anche se nel minuscolo e nell’intangibile.

Un tocco di gentilezza migliora la tua giornata. Un tocco di ironia solleva la situazione, un tocco di speranza ti fa guardare al domani con un sorriso. Quando nelle cose ci metti un tocco di rabbia si rompono i bicchieri e si rompono i legami e anche certi cuori, quelli che non sanno difendersi e che si affidano ingenui.

Noi siamo fatti di tocchi, miliardi di tocchi in una giornata, e non ce ne accorgiamo. Pensiamo sempre che le cose siano grandi, specialmente quelle che contano, e invece le cose sono sempre piccole, piccolissime. Piccoli tocchi che si sommano uno all’altro e che producono grandi spostamenti e – spesso – grandi danni. Perché non ce ne curiamo, perché non pensiamo abbastanza, perché non ci prendiamo carico delle conseguenze e tanto meno della materia delicata con cui è fatto l’animo umano – che ricorda tutto il male e dimentica tutto il bene.

Se riuscissimo a contare i tocchi che in una giornata diamo agli altri e quelli che riceviamo ne rimarremmo impressionati. Ci verrebbe quasi da chiederci: “Come ho potuto ignorare tutto questo fino a oggi e comunque sopravvivere?”. Ma non lo faremo mai, è troppo rischioso e noi non abbiamo voglia di menate perché già la vita è così complicata che farsi passare il mal di testa è un’impresa. Allora continuare a toccare senza grazia, senza cura, senza bene, il nostro prossimo diventa una scelta obbligata, e continuare a vivere una vita arida e spinosa diventa il nostro unico destino.

No, non è questione di karma, quello viene dopo. Per tutti.

 

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(715) Tanti

Quanti? Tanti. E la questione non cambia perché la quantità – il concetto di quantità – ci sovrasta. Quando è Tanto significa che siamo vicini al limite. Quando è Troppo il limite è stato superato, ma il Tanto ti mette in allarme e ti fa presente che qualcosa devi fare. 

Si potrebbe pensare che funzioni così soltanto per le cose negative, che tanta felicità non sia rischiosa, ma c’è chi è morto per troppa felicità – bisognerebbe ricordarselo.

Il nostro cervello quando si trova ad avere a che fare con il Tanto si allerta, sa che bisogna attendersi qualcosa. Se il Tanto cala naturalmente il vuoto della differenza può essere devastante. Ecco perché il tanto benessere teme anche il minimo calo, si aspetta un crollo subitaneo. Il panico fa scattare il meccanismo o-io-o-te e tutto va in vacca (per dirla in modo elegante).

Non l’ho mai sperimentata “la tanta ricchezza” – lo desidererei sinceramente – eppure credo che da lassù il Tanto prenda forma ben più feroce. Ma potrei sbagliarmi, certo.

Siamo in tanti e abbiamo tanti problemi, abbiamo tanti desideri, abbiamo tante ambizioni contrastanti e ognuno di noi contiene moltitudini (cit. Walt Whitman), per la serie: siam messi proprio bene.

A volte il Tanto mi mette a disagio, mi fa sentire le formiche addosso, anche se il Tanto riguarda qualcosa di bello. Sarà che i miei sensori si sono progressivamente fusi con l’età avanzata… bah. Vorrei avere un rapporto migliore con il Tanto, ma non so da dove cominciare. Forse il Tanto che vorrei mi spaventa ed è per questo che mi sfugge. Un bel dilemma Watson.

Tanto vale che mi faccia una bella dormita sopra. Tanto domani nulla sarà cambiato tra me e il Tanto e magari a mente fredda potremmo discutere meglio. Tanto lo so che sarà lui ad avere la meglio e che rimarrò nel mio dilemma a farmi tanto male. Bah.

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(691) Rinfrescare

Credo sia un verbo pieno di positività: mi rinnovo, mi rivitalizzo, mi ridipingo! Significa che ho perso freschezza, manco d’energia, mi si sono sbiaditi i colori… è necessario metterci mano e rinfrescare tutto. Ecco: mi sento così.

Facile a dirsi, meno a farsi. Se mi sono ridotta così ci sono motivi che non basterebbe un mese a scriverli tutti, ma alla fine non è poi così importante intignarsi nei perché. Oppure sì? Avendo presente i perché e non potendo farci nulla ormai, bisogna solo correre ai ripari. Seh, si fa presto a dirlo, ma da che parte cominciare? Rinfrescare il cervello che in questi mesi di temperature allucinanti si è bollito? Oppure rinfrescare il corpo che in questi ultimi anni si è rammollito? O basta rinfrescare il cuore che in questa vita si è sbrindellato mica da ridere? 

Non lo so, mi sembra tutto molto faticoso. Ricordiamoci che io sono una pigra conclamata pertanto già il solo pensare di mettermici d’impegno mi costa fatica. E poi tutta la questione del bisogna-volersi-bene che continua a tormentarmi in sottofondo… mica sono una fan del bisogna-volersi-male, ma neppure del ci-sono-io-e-il-resto-non-conta. Devo pur sempre fare i conti con i miei limiti, e questo aggiunge fatica alla fatica.

Bastasse una doccia a rinfrescarsi sarei a bolla, vivrei sotto la doccia. Le cose però non sono mai facili né troppo piacevoli per chi deve percorrere certe strade, sarà che bisogna essere tagliati per godersi la vita? Non lo so. Forse già la fine dell’estate potrebbe bastare, almeno a farmi passare un terzo della pigrizia e iniziare una mini-programmazione per il recupero delle forze.

Va bene, appena rinfresca, mi rinfresco, ho deciso!

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(577) Surfare

Bisogna imparare, prima lo fai e meglio è per te. Arrivare al punto di rottura prima di arrenderti al surf emotivo delle relazioni umane non è una buona idea. Troppo tardi non è mai una buona idea, bisognerebbe ricordarcelo.

Ci sono dei piccoli accorgimenti che possono aiutare, basta solo prenderli sul serio. Del tipo? Bé, innanzitutto non dare nulla per scontato – e lo intendo nel bene e nel male; partire dal presupposto che i furbi son tutti più veloci di te, anche questo ti aiuta a stare allerta evitando di capirlo sempre dopo; un’altra cosa che serve tenere ben presente è che l’interesse del singolo prevale sempre su ogni sentimento benevolo che quel singolo può nutrire nei tuoi confronti. Tieni d’occhio l’interesse e il tornaconto, guarda da che parte va e scoprirai chi si sta preparando a sfancularti. Conta uno-due-tre e vedrai che la previsione si avvererà. Cinica? No, soltanto realista.

Dando per scontato che c’è chi nasce attrezzato per il surf e chi no, non è detto che le cose vadano sempre bene ai primi e male ai secondi e neppure che il surf sia appannaggio dei più dotati, si può anche imparare. Se lo impari a suon di tavolate sul muso, onda dopo onda, diventi cattivo – il dolore rende cattivi, lo sappiamo – quindi capire come vanno le cose un po’ prima di avere i denti frantumati non sarebbe male.

Aggiungerei anche un altro piccolo particolare: quando il surf diventa parte di te, quando non sei in balia delle onde e riesci a barcamenarti mica male – evitando le tavolate intercostali, oltre a quelle sui denti – non ti viene il veleno. Non hai più voglia di spaccare le ossa a tutti perché non stai subendo, non stai soffrendo. E non si tratta di trasformarsi in ginnici cinici (bello il suono di queste due parole insieme, vero?), sarebbe un errore fatale, diventeremmo lividi e la sofferenza si sposterebbe su un piano ben più profondo. Si tratta soltanto di farsi onda. Ripeto: farsi onda e ondeggiare con leggiadria (bello anche questo connubio, no?).

E se onda anomala dev’essere, allora onda anomala sia.

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(573) Sgambetto

Mi fai lo sgambetto e io inciampo. Inciampo perché non me l’aspettavo, inciampo perché sono in buonafede, inciampo e magari mi faccio anche male. Me lo fai una volta, due volte, tre volte e io ci casco sempre. Perché sono in buonafede, perché io non te lo farei mai, perché mi hai detto “fidati di me”.

Questo giochetto prima mi fa male, poi mi fa arrabbiare. Sempre, ogni volta. Avrai da me sempre la stessa reazione, mi incazzerò sempre e magari ogni volta un po’ di più. A un certo punto, raggiunto il culmine della sopportazione, sbotterò e tu penserai che sono una isterica, che sto facendo di una stronzata un affare di stato, che tanto domani mi passa. Ma domani non mi passerà, perché oggi ho smesso di fidarmi e mi aspetterò altri sgambetti da te e quelli arriveranno e io smetterò di incazzarmi per andarmene definitivamente.

Ecco, ora ho messo nero su bianco la ragione di ogni mio andarmene, da quand’ero adolescente fino a oggi. Facendo due calcoli sono arrivata a questo schema, che non è una conclusione, è soltanto un punto di partenza. Perché da qualche parte devo pur ricominciare e per ricominciare ho bisogno di poggiare il piede su terreno solido, che è questo: smettere di approcciare il mio prossimo in buonafede, stare attenta abbastanza da prevenire gli sgambetti e non cadere. Non cadere più. Forse muovendomi con questa intenzione me ne accorgerò in tempo, inciamperò di meno, mi farò meno male. Forse.

Comunque sia, il “fidati di me” vale un bel niente. Sappiatelo.

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(570) Sincronicità

Allo stesso momento, simultaneamente. Ti accorgi che quello che vuoi non va bene per te, e te ne accorgi mentre stai per ottenerlo. Ti passa la voglia di volere qualcosa, del tutto.

Oppure guardi una persona che istintivamente ti piace e scopri che per quello che sta dicendo o che sta facendo non ti piace più. O il contrario: non ti piaceva per nulla e per qualcosa che dice o che fa cambi idea. Simultaneamente. Ti vien voglia di non pensare a niente, tanto non ci azzecchi mai.

Quando allo stesso tempo pensi: ho caldo, ho freddo. Ho fame, non ho fame. Ho sonno, non ho sonno. Voglio, non voglio. Cosa diavolo mi stai facendo, cervello?! Vuoi farmi impazzire?! Simultaneamente sono e non sono. Sincronicità senza senso. Senza alcuna utilità.

E quando pensi di essere l’unica a provare questo sfasamento stordente, inizi a prestare attenzione a quello degli altri. Nei loro occhi passa il nero e il bianco in simultanea e tu non sai dove metterti, cosa fare, cosa dire. Ti viene solo voglia di andare via, andartene lontano, distante da ogni nero e ogni bianco che potrebbe catturarti e fare di te un grigio che non vuoi. Che non sei.

E ti domandi che cosa succederebbe al mondo se ogni Essere Umano si vedesse realizzare all’istante ogni desiderio gli passasse per la testa? Follia. Per fortuna facciamo in tempo a cambiare idea mille volte prima di iniziare veramente a costruirci un desiderio che abbia un senso. Meno male che il tempo dilata e annacqua l’intento per metterlo alla prova. Meno male che possiamo tentare di domare i nostri pensieri prima che questi ci frantumino pesantemente. Meno male.

La sincronicità bisogna saperla vivere, non c’è nulla da fare.

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(332) Crimine

Ogni Essere Umano dovrebbe considerarsi alla stregua di un luogo del delitto e transennarsi in modo da non permettere che nessuno oltrepassi i limiti. Perché? Perché tutti noi siamo vittime di un crimine, più o meno grave non fa alcuna differenza. Lo siamo tutti, senza distinzione di razza, di credo, di ceto sociale. Tutti.

Non ce ne rendiamo conto, ma siamo sempre così incazzati perché nel nostro subconscio lo sappiamo. Lo sappiamo, soffriamo, eppure non abbiamo il coraggio di denunciarlo: “Sono vittima di un efferato crimine e nessuno se n’è mai accorto!“.

Siamo incazzati per questo, tutti senza distinzioni di sorta. Quelli che lo sanno sono quelli che hanno subito i crimini più evidenti, dove i segni si vedono sulla pelle e ben oltre la pelle. Quando il crimine è sotto gli occhi di tutti, la società lo riconosce e la rabbia un po’ si attenua. Quel non-puoi-fare-finta-di-nulla non ti viene ributtato addosso con scherno e la tua rabbia trova un istante di pace. Se il crimine non viene percepito, riconosciuto, condannato dalla società… è come se non fosse mai successo. E qui la rabbia cova e s’ingigantisce fino a farti implodere o esplodere.

So con certezza che se non iniziamo a considerarci tutte vittime non potremmo mai provare vicinanza nei confronti degli altri. Chi si prende in carico il proprio dolore, smette di odiare, smette di covare rabbia, smette di augurare dolore al suo prossimo. Perché sa di cosa sta parlando, sa il peso di quella sofferenza.

Sto male e pertanto odio tutti? No, sto male e quindi auguro a tutti di non provare il mio stesso dolore. Tutto qui. Pertanto consideriamoci luoghi del crimine e proteggiamoci digerendo come si deve le nostre ferite. Siamo ancora qui, dopo tutto, giusto? Appunto.

 

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(279) Boomerang

Che le cose brutte fatte agli altri ritornino al mittente (e poi son cavoli amari), questo lo so fin da piccola. Me l’ha detto mia nonna e io a mia nonna ho sempre creduto ciecamente. Bon, si cresce così, con crudi e sani insegnamenti che una volta tatuati nella memoria non te li togli più. Un imprinting sacro.

Mi sono, però, sempre domandata perché per le cose belle fatte agli altri non funzionasse allo stesso modo. Se è una legge fisica allora va al di là del giudizio morale bene/male o giusto/sbagliato: fai una cosa agli altri e questa cosa – prima o poi – ritorna al mittente. Stop.

Se è fisica è fisica, se è legge è legge, e la legge è uguale per tutti – ci hanno detto e lo hanno anche scritto – invece no, non è così.

Fai del bene e dimentica, ecco un altro insegnamento della nonna. Ma come? Mi devo aspettare che il boomerang mi colpisca in testa se faccio una cavolata, ma non se faccio una cosa bella? Ma nonna! Non è giusto!

Risposta: non c’è niente di giusto a questo mondo.

Eh, e se lo dice la nonna, io le credo. La nonna, su queste cose, la sapeva lunga anche se neppure a lei questa legge fisica farlocca piaceva e forse proprio per questo non andava in chiesa ad ascoltare il prete predicare.

Certe cose ti rimangono tatuate nel cuore oltre che nella mente e scoprire quanto le assomiglio – ora donna fatta – mi riempie di orgoglio. Comunque, non vorrei risultare pedante, ma vi avverto: occhio al boomerang!

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