(828) Guinzaglio

Serve a portar in giro il cane. Nel senso che lo porti dove vuoi tu. Lui può impuntarsi e farti bestemmiare in aramaico antico se non vuole muoversi, ma – dato di fatto – sei tu che hai il potere e alla fine vincerai. Lo porterai dove decidi che dovete andare. Non glielo chiedi, glielo imponi. Se lui è docile ti seguirà senza fare storie, altrimenti diventerà un fastidio che sistemerai applicando il tuo ruolo di capobranco.

Stiamo parlando di uomo/donna vs cane. E basta.

Non puoi mettere il guinzaglio a un uomo o a una donna, gli Esseri Umani non vanno portati in giro a fare pipì. Loro si scelgono liberamente dove farla, che ti piaccia o no. Pensare che un uomo/donna possa avere in mano il potere di decidere dove un altro Essere Umano deve andare o stare è aberrante. Se si basano le Leggi su questo principio si evitano idiozie e abusi piuttosto importanti per la salvaguardia della dignità umana. Questo è quello che penso.

Dal macro al micro: mi è capitato più volte di essermi ritrovata al guinzaglio, senza manco accorgermi. Ovviamente ho fatto ben altro che impuntarmi per dare fastidio, ho proprio spezzato la corda a morsi e me ne sono andata dove ho creduto bene di andare. Questo perché non sono un cane, anche se non sono proprio sveglissima e ci sono cascata.

Il punto è che ci si casca. Basta che affidarsi alla guida di qualcuno privo di scrupoli, privo di sensibilità, privo di buonsenso, privo di qualsiasi umana accortezza e track, vieni tirata da una parte o dall’altra da un dannato guinzaglio. Che tu sia uomo o donna, adulto o bambino, intelligente o stupido, non fa alcuna differenza, basta essere in buonafede e il rischio si concretizza. Bisogna stare attenti.

Ho intenzione di reimpostare il gioco, ho intenzione di togliermi il collare (da quanto tempo ce l’ho su, ‘sto maledetto?!) per rendere l’acchiappo più difficile, ho intenzione di non aspettare di vedere dove mi stanno portando prima di dare un morso alla mano sciagurata e andarmene via. Non ho più tempo da perdere, né pazienza da impiegare per i giochi idioti di qualche arrogante giocherellone che si crede furbo, più furbo di me.

Non sono un cane. Sono una gatta. Sia chiaro.

[ma se fossi un piccione saprei benissimo su che testa focalizzarmi]

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(792) Pubblico

Davanti a un pubblico bisognerebbe porsi con rispetto. Rispetto per se stessi e per il pubblico, intendo. Sei lì sul palco e chiedi l’attenzione di persone che molto probabilmente non conosci di persona eppure sono lì per te – se sono lì per te significa che in qualche modo loro ti conoscono e comunque hanno voglia di conoscerti meglio – se non sono lì per te, ancora peggio. Più rigore in quello che dici e nel come ti poni. Più accuratezza, più oculatezza, più sensibilità.

Non è che sei al bar e puoi permetterti di sparare le minchiate che ti passano per la testa senza preoccuparti delle conseguenze e del peso di quello che butti addosso agli altri, sei in una posizione che ti impone responsabilità e decoro. Poi se riesci a brillare tanto meglio, ma nel caso non ci riuscissi almeno sei stato dignitoso. 

C’è un bel po’ di lavoro da affrontare prima di potersi affidare a un pubblico. Preparazione, di pensiero e fisica, e costruzione dell’evento. Non vai sul palco e t’inventi qualcosa, non lo fai neppure se sei un professionista navigato, non lo fai perché sarebbe irresponsabile, pericoloso, insultante. Lo sai e non lo fai, non ci pensi neppure. Se lo fai significa che sei un presuntuoso e non sei il professionista che dichiari di essere.

Ci vogliono delle doti per stare su un palco che non hanno nulla a che vedere con l’aspetto fisico – la bellezza intendo – ma con quello che ti porti dentro. Il carisma non è cosa da tutti, ma la presenza uno se la può costruire costruendo se stesso non per apparire ma per essere, essere al meglio delle proprie possibilità. Discorso lungo, lo so, però a certe cose bisogna pensarci, non ci può andare bene tutto, non possiamo farci andare bene quel che il nostro innato senso del giusto e della decenza registra come oscenità. Perché lo è, lo sono. 

Ci lasciamo convincere da quattro idioti che va bene così, ma non va bene così. Lo sappiamo, le nostre viscere ce lo urlano eppure dubitiamo. Perché ci facciamo trattare da idioti? Perché? Perché? Perché?

 

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(728) Beninteso

Sono una persona ben educata, beninteso. Sono una persona paziente, beninteso. Sono una persona empatica, comprensiva e gentile, beninteso. Non considero la sensibilità una dote, è una caratteristica umana che si declina in mille sfaccettature e quindi lo siamo tutti, tutti estremamente sensibili altroché. Neppure l’essere solare mi pare una dote, è più che altro uno stato d’animo e io di solare ho veramente poco poco. Però quelle cose lì sopra so che sono proprio parte di me e che sono caratteristiche in parte naturali e in parte acquisite durante la mia infanzia perché ho avuto degli esempi splendidi da seguire.

Ecco, mi scoccia ammetterlo, ma queste qualità vengono prese, dai più, per debolezze. Vengono considerate un limite e ripagate, per lo più, con un viscerale e silente disprezzo.

Beninteso: essere come sono mi costa fatica, ma per mia fortuna ho una lista interminabile di difetti che equalizzano perfettamente l’insieme. La mia presunzione mi sostiene nel perseverare ad essere così come sono, la mia testardaggine mi incita a non arrendermi a quello che gli altri pensano di me, la mia autonomia mi aiuta a restare intera nonostante tutto. Sembrerà pazzesco, ma questi difetti che mi sono utilissimi vengono apprezzati ancora meno dei miei pregi. E qui potrei dilungarmi per ore con deliziosi aneddoti pittoreschi su come io sia motivo di grandi scazzi da parte del mio prossimo, ma non lo farò.

Vorrei solo soffermarmi su un punto cruciale della questione: potrei mettere da parte educazione, gentilezza, capacità empatica, pazienza, certo che potrei. Potrei ma non voglio. Decido di non farlo, ma è una decisione che potrebbe subire qualche cedimento, beninteso. E anche se decidessi di metterli da parte non scomparirebbero dal mio DNA, quindi in automatico non diventerei una persona cinica, maleducata, intollerante, rabbiosa. Non sarei né migliore né peggiore, sarei esattamente come adesso. Cambierebbe però la percezione che gli altri hanno di me. Sarei guardata con occhi diversi. Sarei ascoltata di più, sarei rispettata di più. Il mio modo di relazionarmi con gli altri sarebbe diverso e di conseguenza anche l’altrui modo di relazionarsi con me sarebbe diverso. Credo migliore, ne sono convinta.

Perché non lo faccio? Perché grazie al cielo ho i miei difetti che mi proteggono, che non mi permettono di adeguarmi al mediocre e sono (lo ricordo): la testardaggine, la presunzione, l’autonomia di pensiero. Quindi, oggi posso affermare tranquillamente che se lavorassi per mitigare i miei difetti, i miei pregi andrebbero a farsi fottere.

Beninteso, posso migliorare la gestione di entrambi, ma non posso inventarmi un’altra me. Però, ripeto: posso migliorare la gestione di entrambi. E, beninteso, lo farò. Sono qui per questo, è giusto dirlo. Sono qui per questo.

 

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(725) Testa

Se ti parte la testa son cazzi amari. In tutti i sensi. Conviene tenersela stretta e comunque attaccata al collo. Sarà pure un’affermazione banale, ma tutti la perdono prima o poi e non tutti riescono a ritrovarla, perciò ricordarci dei cazzi amari che ci siamo smazzati a suo tempo – e ringraziare per essere riusciti a ritornare interi – non è poi così banale. 

Perdi la testa quando sei in urgenza di lucidità e quella s’è data perché le circostanze sono tumultuose. Non riesci a controllare quello che ti sta cadendo addosso e neppure te stesso, indifferente che si tratti di catastrofe naturale o innamoramento, le conseguenze sono le stesse: fai e dici cose che non stanno né in cielo né in terra.

Quando la ritrovi, la testa, ti auguri di non aver detto e non aver fatto quello che invece hai detto e fatto e speri che i testimoni superstiti siano stati colpiti da amnesia totale e non tengano memoria alcuna di te sul luogo del misfatto. Non è mai così. Ci saranno sempre foto e video ad immortalare certi momenti, che tu lo voglia o no.

Perdere la testa non è un gioco, non lo fai apposta, ti capita e basta. Non è nelle tue intenzioni, vorresti proprio scansarlo, ti capita e basta. E per quanto tu possa evitare di infilarti in situazioni maledette, non sei mai al sicuro. Certe cose non sono preannunciate da messaggeri dell’Olimpo, ti piombano addosso e ti atterrano. E basta.

E non ti sarà sufficiente l’intelligenza, la sensibilità, la compostezza, l’indifferenza e neppure la saggezza quando ti ci troverai in mezzo, in quel momento sarà la disperazione a spingerti oltre per farti sopravvivere. Sì, anche quando ti innamori.

Detto questo: si salvi chi può.

 

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(720) Orsetto

Non ho mai avuto un amico orsetto che mi stesse vicino nel momento del bisogno. Avevo i miei fumetti, i miei libri. Non sono morbidi, non sono caldi, sono proprio un’altra cosa. Un orsetto non avrebbe potuto rassicurarmi sul fatto che oltre a quello che conoscevo e che stavo vivendo ci fosse dell’altro, qualcos’altro di magnificamente misterioso e intrigante (come le storie che leggevo) e che quel qualcosa era lì e mi stava aspettando. Dovevo solo crescere un po’.

Ecco, questa cosa mi ha fatto viaggiare su corsie neuronali preferenziali, lo ammetto, ma nel concreto mi ha fatto sbattere il muso quotidianamente contro una realtà che non aveva nulla a che fare con quel misteroso-e-intrigante che sognavo – anzi tutto il contrario – eppure senza mai dubitare del fatto che la parte migliore doveva ancora arrivare e che mi stava aspettando.

Aspetta che ti aspetta ho affrontato diverse avventure – nel vero senso della parola – e seppur io mi sia pure divertita oltre che fatta il mazzo tanto, mai neppure per un istante quella tensione frizzante e deliziosa che trovavo in quelle storie si è verificata. Mai. Neppure da lontano. Neppure quando ero emotivamente coinvolta, niente di niente.

Ho pensato che probabilmente peccavo di sensibilità e che fosse mia responsabilità andarmele a cercare queste sensazioni mirabolanti, infatti continuavo a pensare che fossero lì da qualche parte e che mi stessero aspettando. Sta di fatto che odio aspettare senza fare niente per cui mi sono data piuttosto da fare per andare loro incontro, con molto impegno mi permetto di aggiungere. Anni e anni di situazioni assurde e spesso grottesche, di scivoloni e ridicoli errori, di incontri tristi-scellerati-stupidi-inutili, ma niente.

Quindi, facendo due conti veloci, le cose possibili sono due: o il  misteroso-e-intrigante non sono lì ad aspettarmi (e neppure sanno della mia esistenza) oppure mi stanno deliberatamente ignorando – per lecite ragioni, perlamordelcielo, ma senza un briciolo di compassione o umanità.

Qualche tempo fa decisi che mi sarei fermata, basta andare incontro alle mie allucinazioni, facciamo che il misteroso-e-intrigante non li voglio più. Un po’ mentendo e un po’ con convinzione, metà e metà diciamo. Non mi sono ancora spostata da questa perentoria autoimposta decisione, e non me ne pento. Però, stasera, stavo pensando che se fossi stata come tutti i bambini intelligenti di questa terra, mi sarei fatta regalare un orsetto perché a questo punto sarebbe lui a rassicurarmi sul fatto che anche così va bene. Non troppo, ovvio, ma potrebbe pure andare peggio.

Prossima volta nasco più intelligente.

 

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(644) Paroliere

Un bravo paroliere modella i pensieri per farli stare comodi in una frase musicale mantenendo l’armonia di ogni parola e di ogni lettera intatta così da farle brillare di più.

Non è una cosa che può passare inosservata/inascoltata, un bravo paroliere ti ammalia usando il suo mondo interiore e traducendolo con delicata sensibilità sonora. Sensibilità sonora significa che le parole e la musica si abbracciano, si accarezzano, si accomodano una dentro l’altra per farti alzare lo sguardo e farti accelerare il battito cardiaco. Si tratti di una canzone romantica o di una canzone di protesta, non fa differenza, la questione della delicatezza e della sensibilità sonora non cambia. Quella cosa lì è, né più né meno.

Il fatto che la nostra lingua sia complessa e difficile da modellare, rende un bravo paroliere ancora più bravo e degno di ascolto. Penso che siamo tutti d’accordo.

Faccio presente che in Italia i bravi parolieri sono veramente pochi pochi pochi, si possono contare sulle dita di una mano e facendoci caso sono praticamente quasi tutti passati a miglior vita. No, il rap hip-hop non conta, non conta per nulla perché non cantano ma parlano sopra una traccia che spesso è soltanto ritmo e striminzita melodia. La canzone è un’altra cosa.

Io capisco che ognuno c’ha i suoi idoli e guai a chi li tocca, sono così anch’io, ma non si può affermare il falso e l’argomento musica è fino a un certo punto gusto personale, ma proprio soltanto fino a un certo punto. Poi no. E lo so che qui si sentirà acuta e pungente la mia vena poetica, ma oggi ho ascoltato un brano di un paroliere bravo italiano e la meraviglia di ri-scoprire la sua arte m’ha spinta fino al dover esprimere/scrivere il pensiero in questo post.

L’ho scritto per amore: amore per la musica, amore per le parole, amore per la sensibilità sonora, amore per la delicatezza.

Ecco.

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(605) Team

Credo sia arrivato il momento per me di riflettere su quello che è stato il percorso professionale più shakerante della mia vita fino a ora – e spero sia una strada che continuerà per qualche tempo almeno. Mi è indispensabile ogni tanto fare il punto della situazione, le cose sono sempre tante e sempre complicate perché se le vuoi conoscere a fondo non ti puoi accontentare di quello che ti passa sotto il naso.

Lavorare assieme agli altri comporta rischi e dolori imprevisti perché l’Essere Umano è imprevedibile e come tale è un rischio per se stesso e per chi gli sta attorno. Alcuni rischi si esplicitano in eventi concreti e questi possono causare dolore, dolore tangibile e non semplici paranoie autocommiseranti. Per molti anni ho incontrato altri Esseri Umani raggruppati per interessi comuni, non ne sono mai uscita bene, e questo è un dato di fatto: la mia vulnerabilità – per la maggior parte del tempo dissimulata con successo – è la mia peggiore nemica.

Non parlo di sensibilità, sensibili lo siamo tutti, ma di vulnerabilità e non tutti sono vulnerabili anche quando sono molto sensibili. Non sono sinonimi, sono due condizioni che si possono vicendevolmente accompagnare ma che non necessariamente sono legate tra di loro.

La vulnerabilità di ciascuno di noi fa capo al sentimento che nutriamo nei nostri confronti – ognuno nel suo intimo – e questo sentire può essere camuffato in talmente tanti modi diversi da non farsi trovare se non siamo ben motivati a scoprirlo. Il salto nel buio è evidente: come faccio a maneggiare quello che andrò a scoprire? Ecco, se ci penso mi viene già l’ansia. Esatto.

La cosa più spaventosa, però, è che non arriverai mai al nocciolo della questione se non ti metti in rapporto diretto con gli altri e no, non con un Essere Umano per volta, bensì con un gruppo di persone e tutte insieme. Devi immergerti nel caos emozionale di più Esseri Umani che entrano in collisione e che fanno scintille, ed essere devastato a sufficienza per scoprire che cosa in realtà senti per te stesso.

Il punto è chiaro: se il giudizio che pesa su di te arriva dal mondo esterno, ma questo giudizio tu non lo condividi, non ne verrai detronizzato. Se chi ti sta attorno ha un giudizio su di te duro che entra in risonanza con quello che tu stesso pensi di te – magari inconsciamente – allora il dolore e lo smarrimento e la rabbia e la frustrazione avranno la meglio. Potresti sbriciolarti, sappilo.

Lavorare in team è un’esperienza incredibile, ma se non sei disposto ad andare in fondo a te stesso per scoprire che sentimento nutri nei tuoi confronti, lascia stare perché se non ti offri onestamente non meriti onestà e il team potrebbe diventare un inferno.

Sono felice di essere riuscita a guardare nel mio abisso… in tutta sincerità pensavo fosse peggio.

Eh.

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(361) W.T.F.

Cosa diavolo mi sta succedendo? Me lo chiedo da un paio di mesi, ancora non l’ho scoperto. Mi domando anche se succede soltanto a me di guardarmi e non ritrovarmi. Robe da farmi cadere le braccia. Potrei far partire un sondaggio social.

Sto valutando la questione delle mutazioni, quei processi che una volta attraversati ti rendono pianeta nuovo. Nuovo, non come novità, ma come cosa che fa capo a ben poco su quel c’era prima. Non s’inventa nulla di questi tempi, va bene, ma ci si ritrova in situazioni dove è cambiato tutto nonostante non sia cambiato niente. Una mutazione silenziosa, sotterranea, ma non oscura e perversa, anzi: illuminante e di disarmante logica.

Ecco, ancora non sono arrivata alla fase illuminante, forse per questo la domanda mi resta fatalmente in sospeso, ma voglio pensare che prima o poi la luce arriverà. Nel frattempo sono stordita, scontenta, scoordinata. In doppia curva da esse, appunto. Tanto per dire: mi sono accorta che le mie parole piene possono venire svuotate in mezzo nanosecondo da chiunque senza che io sia in grado di impedirlo. Oppure, mi sono resa conto che vivere con il freno a mano tirato è stato il leit-motiv della mia esistenza e che la cosa non è destinata a finire. O ancora: ho capito che il mio scollamento pensiero-realtà non è affatto sano perché si è trasformato in una tomba per la mia squilibrata sensibilità.

Tutto questo ha ribaltato il mio oggi senza garanzie che il mio domani possa farci i conti senza sacrificare una certa dose di amor proprio. Sentimento di cui sono già e da tempo in forte scarsità e di cui dovrei fare economia.

Cosa diavolo mi sta succedendo? Forse sto solo invecchiando. Precocemente.

 

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(295) Intelligenza

Di tanto in tanto mi imbatto in persone davvero notevoli. Di grande intelligenza, che per me significa avere la capacità di inserire il proprio pensiero nel mondo creando connessioni illuminate. Ne ho incontrate molte di persone così, parlare con loro è stato sempre un piacere, un piacere da far durare quel tanto che basta, però.

Dico questo perché l’intelligenza, purtroppo non è tutto, deve essere coadiuvata da una buona dose di sensibilità verso il mondo – più che verso se stessi. Certo, tutti si reputano sensibili (e anche solari, ci mancherebbe) quando si presentano agli altri, ma la sensibilità quella vera tace. Si fa scoprire, non si mette in vetrina.

Ecco: l’intelligenza quella vera è morbida, è gioiosa, è calda. Può esserlo in misura diversa a seconda di chi se la porta a spasso, ma credo fermamente che sia così. A questo punto, per chiudere il cerchio, posso affermare di aver incontrato molte persone con una spiccata intelligenza, ma che ne conto veramente poche capaci di incantarmi e convincermi e con cui vorrei parlare per sempre senza mai stancarmi.

E a quelli che possono vantare una certa intelligenza intellettuale e mancano di anima sensibile posso solo dire che: pensare di approfittare della buonafede di qualcuno solo perché ti ritieni più intelligente (sottostimando enormemente gli altri e sovrastimando paurosamente te stesso) dà la misura di quando la tua intelligenza sia tendente allo zero, nonostante il tuo Q.I. certificato.

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(237) Pudore

Un senso di opportunità, di rispetto della sensibilità altrui: questo specifica il dizionario. Sinonimo di ritegno, vergogna, discrezione e in questo senso lo sto affrontando.

È un sentimento che mi appartiene profondamente e con diverse declinazioni: il ritegno come senso di opportunità, la discrezione come segno di rispetto della sensibilità altrui, la vergogna quando l’orrore si compie e mi ritrovo inerme e inutile e mancano le parole perché i pensieri si sono svuotati.

Apprezzo il pudore negli altri, quando lo incontro, ma lo incontro raramente. Si sbatte in faccia al nostro prossimo qualsiasi cosa ci riguardi, anche la più intima, la più segreta, come se fosse d’obbligo accoglierla, approvarla, celebrarla. Credo sia ripugnante.

Ci sono scelte delicate, condizioni delicate, posizioni delicate, emozioni delicate che non vogliono essere buttate in piazza alla mercé di chiunque passi. Distogliere lo sguardo, l’orecchio, l’attenzione è segno di rispetto, a volte. Quando è troppo e quando quello che si può fare è niente, l’opportunità del nostro esserci è opinabile.

Il pudore è quella cosa che si muove quando la commozione è profonda e la consapevolezza di ciò che È ti sovrasta. Un sorriso, se è cosa lieta, un abbassare il capo se è cosa greve. Cos’altro fare di più o meglio? Ritrarsi in silenzio, mi è sempre sembrata l’unica cosa possibile quando quello che È mi sovrasta con la sua grandezza, quando terribile e quando magnifica.

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(199) Luminescenza

luminescènza s. f. [der. del lat. lumenmĭnis «lume»]. – In fisica, processo di emissione della luce, e in generale di onde elettromagnetiche, in cui il fenomeno consegue a transizioni elettroniche tra stati energetici diversi di un sistema atomico o molecolare.

Quando scelgo le cose mi baso su questo principio fisico: l’emissione della luce. Non bado ai dettagli, ma alla luce che l’idea, la situazione, le persone fanno arrivare fino a me. Che poi la veda solo io è cosa da discutere, non credo sia così, ma che io me ne accorga e non tutti lo fanno questo è un dato di fatto.

Molto spesso neppure i fautori di tale emissione se ne rendono conto, allora  il mio compito è di mettermi lì accanto a loro e far notare, onda dopo onda, quello che loro stessi stanno creando.

Se a un primo momento vengo guardata come una povera pazza, non escludo di esserlo tra l’altro, con il passare dei minuti, trovando le parole giuste, i loro occhi iniziano ad acquistare sensibilità. Forse non percepiscono ancora la luminescenza che ricevo io, ma cominciano a focalizzare la propria attenzione su quel movimento impercettibile di onde che possono fare la differenza.

Credo che in poche parole sia questo il mio compito, captare la luminescenza per avvicinarla agli occhi di chi ne è fautore inconsapevole perché… perché… forse perché manca di amore nei confronti di se stesso, o forse perché nessuno glielo ha mai detto che la sua luce è importante.

Sì, non faccio altro che questo, tutto il tempo. E mi piace. Moltissimo.

La luminescenza poi prende forma e nuovi colori e vedo accadere meraviglie. Sarò anche pazza, ma questa cosa della luminescenza me la tengo cara finché posso.

 

 

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(60) Delicatezza

Delicatezza è uno dei sinonimi di “sensibilità”. Ho il sospetto che ormai la distanza tra le due attitudini non sia più questione di sfumature. Tutti si reputano sensibili, anzi, si offendono quando qualcuno dubita del loro essere sensibili.

Io penso che lo siamo davvero tutti, tutti molto molto sensibili, ma non significa che tutti i sensibili siano anche dotati di delicatezza. La sensibilità è un “sentire” molto personale, ritagliato e cucito su di noi, sui nostri bisogni, i nostri desideri, le nostre priorità. Lo tradurrei così: io io io io io io io io io io io (ad lib.).

Appena qualcuno ci tocca il nervo scoperto, zak! La nostra sensibilità ha un’impennata. Automatico. Sicuro. Immediato.

La delicatezza presuppone una predisposizione allo spostare quel maledetto “io” in “tu”. Tu come stai? Tu come ti senti? Tu cosa vuoi? Tu come la pensi?

Delicatezza è quando metto da parte il mio “sentire” per occuparmi del tuo. Non perché io debba prendermene carico, solo perché voglio prendermene cura per quello che posso. Magari evito di dire o di fare qualcosa che in quel momento ti risulterebbe come un pugno in faccia.

Essere delicati con gli altri non ha ricompense. Spesso gli altri neppure se ne accorgono, non subito almeno, ma quel “non sferrare il colpo”, quel “guardare da un’altra parte” quando vedi il nervo scoperto che potresti toccare e far sanguinare… ecco quella cosa lì, la delicatezza, è un premio che diamo a noi stessi. Non per essere stati buoni, ma per aver avuto il coraggio di avvicinarci a un altro essere umano disarmati.

Chi agisce con naturale delicatezza può sollevare pesi indicibili. Praticare la delicatezza è un esercizio durissimo e allo stesso tempo leggero e bellissimo.

b__

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