(1083) Provare

Do or do not, there is no try.  (Yoda)

Dare torto a Yoda? Follia. 

E comunque, al di là di tutto, se faccio mente locale, ogni volta che ci ho solo provato non ne ho ricavato niente. Neppure un grammo di soddisfazione. 

Non sto parlando di azioni più o meno convinte, ma di scappatoie. Tanto se non va bene non ci perdo nulla, non è una strategia. Non è neppure una filosofia efficace per andare al mercato del pesce. 

Provare tanto per provare non è crederci e farsi in quattro per far andare le cose bene. Provare per provare è un tentativo e basta. Come se mi aspettassi già il fallimento, come se sapessi già come finisce la storia. Si va al risparmio, si calcola il dare e l’avere, ci si tira un po’ indietro perché sì, magari andrà anche bene, ma è probabile che no. 

Non c’è verso: o fai (e sei dentro al 100%) o non fai. Perché se non fai davvero non perdi tempo e non rischi delusioni e sofferenze e fatica e smarronamenti. Se non fai puoi sempre dire che avevi un’idea e che ce l’hai ancora e appena trovi il tempo la farai diventare una figata. E puoi continuare a ripetertelo per sempre, tanto da crederci tu stesso. Puoi fingerti impegnato anziché codardo, puoi farlo, funziona.

O fai o non fai. Ma se fai, allora la sfida non è vincere o perdere, no, troppo semplice. La vera montagna da scalare è quella fatta da sassolini e massi di “che cazzo sto facendo? Dove cazzo penso di andare? Ma perché cazzo mi sono messo in questa maledetta impresa? E adesso cosa cazzo faccio?”, insomma: una montagna di gran cazzi pronti a saltarti addosso appena muovi un passo. 

E se alla fine vinci, vinci contro la montagna franante e sei già contento di essertela cavata e di essere ancora vivo nonostante te stesso.

Perché Yoda non è mica il primo coglione che passa di lì. Se ti sta segnando la via, conviene pensarsela bene e rispondere onestamente a una sola semplice domanda: fai o non fai? 

Ovvero: credi o non credi?

È sempre una questione di fede, dopotutto. Eh.

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(1052) Scadenza

Ogni cosa ha una sua scadenza, noi Esseri Viventi non facciamo eccezione. Triste ma vero. Triste? Bah.

Ci sono persone che quando le conosci le vorresti sapere eterne. Altre che ti domandi che ci facciano ancora qui, sulla Terra, visto che meriterebbero l’Inferno seduta stante in un Aldilà a piacimento.

Manco di compassione, me ne rendo conto, ma non è un sentimento che ci si può inventare e a me esce naturale soltanto in alcune circostanze e con alcune persone. Ci devo vedere il buono, altrimenti mi riesce difficile, anzi impossibile. Non lo dico come vanto, ma lo dico. Fingere lo trovo inutile.

Le cose cambierebbero per l’Umanità se venissimo timbrati come le uova del supermercato e fosse esplicitata la nostra data di scadenza? Secondo me soltanto per i primi tempi, poi diventerebbe una scusa per fare un disastro dietro l’altro. A noi vien bene inventarci giustificazioni che attestino il nostro diritto di fare danni. Viviamo per questo, sembra.

Comunque, diamo troppo per scontato che a-noi-non-succederà e questo ci fa spingere l’acceleratore sulle stronzate: buttarsi da un dirupo con una tuta-paracadute che non si apre e spiaccicarci tra le rocce ci sembra un bel modo di morire. Oppure pensiamo semplicemente che non è quella la nostra scadenza e moriremo un altro giorno. Non lo so. Qualcosa succede nella nostra testa quando ci mettiamo la scadenza in tasca e ci lanciamo in imprese assurde. Questione di adrenalina? Ecco, la giustificazione tiene.

Non lo so, penso sempre che la vita sia una cosa di cui prendersi cura. Magari mi sbaglio, magari parlo così perché ormai ho una certa età e mi sono lasciata alle spalle disumani cazzate che da giovani sembrano figate. Non lo so.

So che ci sono persone che dovrebbero essere eterne e che scadono troppo presto e pezzi di merda che non se ne vanno mai e continuano a distribuire dolore a chi gli passa accanto e non sono mai questi infami che si gettano dalla montagna sprezzanti del pericolo. Loro vivono nella paura e la loro adrenalina viene alimentata dalla paura delle persone che calpestano. Strane cose vero? Già.

Non so se vorrei essere a conoscenza della mia scadenza. A volte sì altre no. Forse l’ignoranza, in questo caso, è la cosa migliore. Mah.

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(911) Indirizzo

Metaforicamente parlando, quando conosci l’indirizzo di qualcuno hai in mano un’arma carica. La mossa tattica del comparire a sorpresa sulla soglia della tua vittima facendo finta di capitare lì per caso è sempre letale. Capiti quando capiti, ricevi quel che ricevi. Questa dovrebbe essere la punizione. Ecco, per quanto mi riguarda ho deciso di sostituire il sorriso di circostanza con una bella testata.

Così.

Sempre metaforicamente parlando, non è che sei sempre il benvenuto. Se decido di aprire la porta non è tanto perché ho voglia di scoprire chi c’è – a sorpresa – dalla parte opposta, ma per una sorta di pudore malato che mi obbliga a non fingere di non essere a casa. Sarebbe fottutamente maleducato, sarebbe proprio una cafonata. No? Capitare, invece, per caso come se non ci fosse neppure una remota possibilità di disturbare è una cosa carina. Davvero davvero davvero carina.

La questione “Entrata libera” e “Uscita libera” è – per quanto riguarda la mia esistenza – la norma. Tu decidi quando comparire a sorpresa e decidi anche quando scomparire a sorpresa. Tanto l’indirizzo lo sai. Houdini ti fa un baffo. Bravissimo. 

Così.

Dunque, credo che sia un diritto inalienabile di qualsiasi Essere Vivente il poter fingere di non essere in casa e di non aprire quella dannata porta. Posso essere anche gentile, per una sorta di buona creanza di cui non riesco a liberarmi, ma se non ti faccio entrare è perché quando sei uscito (di tua iniziativa e senza salutare) per quel che mi riguarda lo hai fatto una volta per tutte. E la tua scelta l’ho registrata come E-T-E-R-N-A.

Te lo dirò? Magari quando ti tirerò quella testata che è lì pronta per partire. Ora la domanda è: oserai suonare quello stramaledetto campanello?

Sto aspettando (e mi odio per questo).

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(906) Svago

La mia idea di svago è piuttosto bislacca. In pratica io non mi svago mai. Anche quando ci provo con tutta me stessa fallisco. Non so proprio come si faccia, non sono programmata per farlo. Non ho altre spiegazioni.

Non riesco a staccare il cervello da quello che sto facendo per fare altro, forse perché il mio cervello non fa altro che divagare e divagando attraversa tutte le galassie e, di pianeta in pianeta, buco nero in buco nero, stella cadente in stella cadente… mi svago.

Quindi la mia idea di svago è semplice: vagare nel mio Iperuranio.

Che in soldoni significa che non stacco mai. Non mi rilasso neppure quando vago con la mente a corpo fermo. Tutto ciò è inquietante. Com’è possibile che ogni Essere Vivente sulla faccia della Terra sia dotato di neuroni-svago e io no? Non sono di questo pianeta, probabilmente.

Dipenderà forse dal fatto che non sono in cerca di divertimento? [non lo so il perché, è così e basta, non mi voglio neppure immaginare il perché]

Ok, prendiamo in considerazione che sono più affezionata all’idea impiego-il-mio-tempo-progettando-e-realizzando-cose-meravigliose piuttosto che gonfio-palloncini-per-farli-volare-in-cielo e che questa è comunque una posizione estrema. Diamo anche per scontato che, molto molto molto probabilmente, il mio vagare sia decisamente più svagante di uno svago classico. Cosa potrei fare, dunque, per avvicinare la mia idea di svago a quella del resto del mondo? Fingere di essere umana? Non sono credibile, sorry. Convincere tutti che il mio svago sia di miglior fattura del loro? Non ho energie sufficienti, sorry.

Ecco, posso fregarmene. E se qualcuno oserà chiedermi se mi sono divertita nel weekend potrò con orgoglio dichiarare: ho vagato nel mio Iperuranio ed è stato fantastico. Non mentirei, in ogni caso, oggi è stato fantastico. Davvero.

 

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(809) Spensieratezza

Quando è stata l’ultima volta che ho fatto qualcosa in spensieratezza? Sarà stato nei primi anni ottanta, immagino. Un giro in bici, forse. Che ne so. Non ricordo. Non è terrificante? Non ricordare cosa si prova facendo qualcosa in spensieratezza è terrificante. Sotto ogni aspetto.

Ne faccio mille al giorno di cose mentre sono distratta da un pensiero o l’altro, non è questo il significato che voglio dare a spensieratezza, mi riferisco piuttosto al fare qualcosa con leggerezza, con gioia pura. Ebbene… ho la sensazione di aver perso un potere magico che mai più riavrò. Peggio del mantello dell’invisibilità che mai è stato mio, tra l’altro. Peggio.

Come diavolo è potuto succedere? Non è una cosa che puoi fingere, mica funziona se fingi. Non è qualcosa che riproduci a memoria, contando pure che non ne ho proprio memoria sarebbe ben difficile. Non è qualcosa che t’inventi nuovamente, che anche se non è la stessa precisa sensazione almeno ci assomiglia. No. No. No!

Devo proprio rassegnarmi, devo mettermela via, devo far finta che ne ho avuta tanta di spensieratezza in tenera età da aver dato fondo a tutta la scorta e ora non posso che continuare a esistere senza. Già il pensiero è deprimente, figuriamoci la consapevolezza che sia davvero così.

E se l’avessi soltanto messa da parte, dimenticata in un angolo e lei è ancora lì che mi aspetta? E se ci fosse una fonte magica da cui attingerla e io non dovessi far altro che trovarla? E se me ne fossi messa da parte un po’ per i tempi bui e mi comparisse davanti appena il buio arriverà? Eh. E se. Sarebbe bello, ma mi faccio poche illusioni al riguardo.

Se solo ricordassi l’ultima cosa spensierata che ho fatto nella vita, forse il ricordo mi basterebbe a colmarne la mancanza. Sarebbe bello. Eh.

 

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(770) Murales

Che gli artisti raccontano la vita attraverso un linguaggio visivo di una certa portata, per me, sono un valore aggiunto per i muri delle nostre tristi città. Non sto parlando degli edifici storici, ma di quelli fatiscenti, quelli che avrebbero bisogno di una tinteggiatura di cui nessuno si prenderà mai carico e che, trasformate in tele, prendono vita con colori e immagini strepitose.

Perché non pagarli per farlo? Perché quel tipo di bellezza deve ridursi a gesto da fuorilegge che se ti beccano ti fanno pentire di essere capace di tenere una bomboletta spray in mano? Se paghi quelli bravi, quelli che sanno arricchire ciò che toccano, gli imbrattatori li prendi per un orecchio e li punisci come si deve. No?

Questo per dire che amo i murales – quelli belli – e anche chi è capace di realizzarli. Questo anche per dire che togliere la bellezza dai luoghi in cui viviamo significa toglierci pezzi di gioia, pezzi di vita. Tagli il verde, togli la musica, tarpi le ali agli artisti: in nome della pulizia e della pace. No, in nome della morte cerebrale, porcamiserialadra!

Ci sono molti modi per spegnere la vita dentro a un Essere Vivente, sono più quelli silenti e sotterranei che quelli che ti vengono sparati in faccia. Sottrai al mondo il bello e cosa rimane? Esatto. Il brutto.

In nome del bello si spazza via la violenza dai muri per sostituirla con l’arte. L’arte può essere estrema, ma non è mai violenta. Se la differenza ci è chiara ci è chiara anche la strada da percorrere. Il degrado chiama degrado, è una legge fisica, e il bello chiama il bello perché funziona anche con l’opposto. Allargando un po’ il concetto: se nel tuo ambiente lavorativo il bello regna sovrano, perché è sparso un po’ ovunque (nelle persone, nelle cose, nel lavoro stesso), si appiana tutto meglio: ogni conflitto, ogni divergenza, ogni ostacolo. Funziona così, giuro.

Mi sono dilungata su un concetto che molto probabilmente ho già trattato in uno dei miei precedenti post (vado in loop ormai, perdonatemi), ma oggi il bello mi ha colpito in diversi modi e non potevo far finta di niente. Non potevo proprio.

Buonanotte.

 

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(721) Lettering

letteringlètëri› s. ingl. [der. di (to) letter «segnare con lettere; imprimere il titolo su …»], usato in ital. al masch. – Nel linguaggio della pubblicità e della grafica, operazione consistente nello scegliere, secondo opportuni criterî, i caratteri (anche scritti a mano) con cui far comporre il testo che accompagna un annuncio pubblicitario, o che in genere serve di commento e integrazione a un’immagine, a un disegno o serie di disegni (per es., un racconto a fumetti). Anche, il risultato di tale operazione.

La forma delle lettere parla. Lo stile con cui le lettere sono graficamente presentate parla. Che tu lo voglia o no, ti parlano al cervello prima ancora che agli occhi. Che tu lo voglia o no la tua risposta, la tua reazione, è influenzata da quello che il tuo cervello ha ricevuto come impressione.

Detto questo, se funziona per la parola scritta, funziona ancora meglio, e in modo più dirompente che mai, per la parola parlata. Lo chiamano tono, riferito alla voce, intonazione se riferito alle parole e alle frasi. Poi c’è la cadenza, che ci portiamo dietro come retaggio culturale, e anche quella serve e si impone un bel po’ nel nostro modo di presentarci e/o rapportargli con gli altri.

Tutto questo si traduce come modo. Il modo che abbiamo di esprimerci ci rende più o meno piacevoli al nostro prossimo. Sto molto molto molto molto attenta al mio modo, molto attenta. Quando scrivo e quando parlo. Più quando scrivo che quando parlo – non mi scappano parolacce quando scrivo, se le scrivo le voglio proprio scrivere, non sono soltanto un fastidioso intercalare – e sto molto molto dannatamente molto attenta al modo degli altri. Chi è sincero e chi finge, per esempio. Chi se la tira e chi no, un altro esempio.

La mia attenzione è focalizzata sul modo perché anche se ne esistono miliardi di varianti, sono solo due le dinamiche possibili: quella rispettosa e quella irrispettosa. Non c’è pericolo di confonderle, non sono interscambiabili, sono limpidamente evidenti perché prendono direzioni opposte. Certo, bisogna farci caso, bisogna che tu lo ritenga importante per riuscire a captarlo immediatamente e reagire di conseguenza.

Io ci faccio caso sempre. Proprio sempre. Vado oltre il sorriso, punto al lettering. Deformazione professionale, chiamiamola così, assolutamente precisa e affidabile.

Non mi piace avere sempre ragione riguardo alla lettura dei modi di chi mi sta attorno, ma non sono io quella infallibile, è il lettering. Mi affido a lui e lui non sbaglia. Ora, ce la possiamo anche raccontare, la prima impressione può essere sbagliata, ma se sai dove guardare non è un’impressione è studio istantaneo. E quando ho ragione, solitamente, mi siedo al centro del mio silenzio e aspetto. Non c’è bisogno di fare altro. Il tempo dirà meglio di me. E anche questa è una certezza.

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(668) Ruolo

Sapere in che ruolo stai giocando è importante. Se vuoi giocare bene, specialmente se vuoi magari pure vincere. Un ruolo ti legittima a fare quello che stai facendo, oppure ti fa presente che non sei legittimato a fare quello che stai facendo. Un ruolo ti fa stare al tuo posto, ma ti fa anche sentire al posto giusto. Sai che hai dei doveri e dei diritti che sono diretta conseguenza di quel ruolo. Se le responsabilità annesse non ti piacciono, sai che devi abbandonare quel ruolo per adottarne un altro. In poche parole, ti permette di ordinare la tua vita e di gestirtela come vuoi e puoi. 

Me lo chiedo spesso quale sia il mio ruolo nelle situazioni che affronto quotidianamente e quando riesco a focalizzare per bene quello che dovrebbe essere il mio posto e dove in realtà mi trovo – spesso non per mia volontà – il mio disagio trova una spiegazione. Limpida, tangibile, inequivocabile. Se riesco a sistemare quel dettaglio – che dettaglio non è – ho speranza di recuperare il mio fantomatico equilibrio mentale.

Spesso ci troviamo fuori posto. Fuori ruolo. Spessissimo. Soltanto che non lo vediamo perché non focalizziamo lì la nostra attenzione. Quando il peso è troppo, la responsabilità è soffocante, pensiamo di non essere abbastanza forti/bravi per poterla sostenere, ci facciamo mangiare dai sensi di colpa e dalle nostre insicurezze senza mettere in discussione la nostra posizione. La verità è che per la maggior parte del nostro tempo viviamo senza domandarci quale sia il nostro posto. Assumiamo ruoli che non ci competono o che non ci interessano o che non vogliamo o che detestiamo e non sappiamo neppure il perché.

Non ci chiediamo perché siamo dove siamo e stiamo facendo quello che stiamo facendo. Non stiamo giocando, in realtà, stiamo fingendo di conoscere un gioco che ci è estraneo e non osiamo neppure verificare il regolamento per capire da che parte girarci. Ma perché? Perché diamo in mano agli altri i nostri diritti e ci facciamo soffocare da doveri che non dovrebbero neppure toccarci?

In ogni branco c’è una gerarchia di ruoli, chi non si adegua sceglie la via della solitudine. Si combatte per il ruolo a cui si aspira, se non si dimostra di meritarlo ci si apposta diversamente, con umiltà. Noi Esseri Umani preferiamo non pensarci, lasciare che siano gli altri a decidere per noi, e covare rabbia e vendetta, e quando facciamo il botto diamo la colpa al resto del mondo.

Prima chiediti in che ruolo vuoi giocare, poi dai tutto quello che hai per meritartelo e vedrai che le cose cambieranno, la tua vita sarà migliore. Con me ha funzionato.

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(629) Fuori

Fuori può essere accompagnato da una moltitudine di piccoli e grandi concetti che vanno a rafforzare il suo stato: sei fuori quando non sei dentro. Eh, sembra facile, ma forse non lo è.

Fuori dalle regole, fuori dal mondo, fuori porta, fuori serie, fuori dal seminato, fuori fuoco, fuori sede, fuori dal coro, fuori orario, fuori tema, fuori di testa, fuori casa, fuori controllo, fuori dal tempo, fuori dal comune, fuori strada, fuori posto, fuori classe, fuori servizio… fuori dalle balle! – è un’esortazione forte e richiede sempre il punto esclamativo.

Il mio stato normale è proprio questo essere fuori, ed è una cosa sottile sottile sottile, che più cerchi di tenere in mano e più ti sfugge. Ho pensato molto al fatto che volevo venirne a capo, volevo capire, volevo trovare delle ragioni, volevo volevo volevo. Forse troppo.

La mia fortuna è che certe volte mi stanco di essere ostinata e lascio andare. No, non è che lascio perdere, mi sale il nervoso se penso a tutte le cose che ho dovuto lasciare andare o addirittura allontanare da me, lasciare perdere non è nelle mie possibilità – il rimurgino sì, quello è uno sport in cui do il meglio di me stessa. Ripenso a quello che ho lasciato andare e mi dico che avrei potuto fare diversamente, magari mi sono persa un’occasione. Stronzate, lo so benissimo, ma per un istante ci credo davvero e mi sento un’inetta. Poi passa, ma non passa mai il mio essere fuori.

Fuori tiro, fuori dagli schemi, fuori rotta, fuori gioco, fuori luogo, fuori dai binari. Fuori. Nel mio essere fuori raramente lo sono in compagnia. Ma proprio rarissimamente. A chi sta fuori come me la compagnia non fa sempre bene, il silenzio invece sì. La compagnia ideale è quella che non ti obbliga  a rientrare, quasi fosse un dovere che cerchi di schivare. Ma non è così semplice. Se stai fuori soffri il vento e il sole e la pioggia e la tempesta e non si smette mai di cercare rifugio. E quando lo trovi dura poco. Stare fuori è una condizione dell’Anima e l’Anima non si cambia, ma l’Anima – se l’ascolti – ti cambia.

Non è che è sia meglio stare fuori che stare dentro, non lo potrei mai affermare perché non so come si sta dentro. So solo che va bene comunque, basta saperlo, basta potersi vivere la propria condizione con un certo equilibrio e onestamente.

E poi c’è chi finge, in quel caso non c’è proprio niente da dire.

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(539) Osanna

osanna /o’zan:a/ [dal lat. tardo hosanna, gr. ōsanná, adattam. dell’ebr. hōs-hī’ah-nnā “salva!”]. – ■ interiez. (relig.) [voce ebraica di acclamazione e di preghiera, passata nella liturgia cristiana] ≈ alleluia. ■ s. m., invar. [spec. al plur., grido di esultanza e di esaltazione: gli o.della folla] ≈ evviva, urrà, viva. ‖ acclamazione, giubilo. ↔ abbasso. ‖ contestazione, disapprovazione. ⇓ fischio, pernacchia.

Mi piaceva fare le prove con il coro della chiesa del mio paese quando ero ragazzina. Facevo finta di cantare, ma mi piaceva stare lì. Per inciso: io amo cantare, ma in quel coro facevo finta di cantare. Perché? Semplice: le altre voci mi entravano nella testa come una siringata di adrenalina in pieno petto e la mia voce mi scompariva dentro. Temendo di stonare e fare brutta figura mimavo il canto senza emettere suono. L’ho fatto per anni, nessuno se n’è mai curato.

Le cose che mi infastidiscono solitamente me le gestisco così. So che è assurdo, ma raramente mi impunto per far finire il fastidio. Me lo gestisco come posso.

Che io ancora non abbia sbroccato mollando un pugno sul naso a qualcuno ha dell’incredibile, me ne rendo conto. Conscia di questa mia condizione borderline qualche tempo fa decisi di iniziare a far presente al mio prossimo che NO non mi va tutto bene e NO non ho più intenzione di sopportare/tollerare cose che superano la mia soglia di sopportazione/tollerabilità. Così ho iniziato a fare cose e dire cose che non ho mai fatto/detto e le persone hanno iniziato a reagire. Prima lo stupore, poi il contrattacco con dimostrazione palese di un sentimento di offesa profonda e poi l’affermazione della propria posizione. Questo in generale. In alcuni casi, la reazione ha stupito me per il passo indietro e per le scuse che mi sono state offerte senza per altro averle pretese.

In altre parole: ho smesso di fingere di cantare e mi sono unita al coro. Primo step nella giusta direzione.

In questi ultimi mesi, però, ho dovuto fare un ulteriore passo per una presa di posizione più decisa. Ho iniziato a cantare con forza, per farmi sentire. Dopo il putiferio iniziale, durato qualche mese, le cose si stanno sistemando. Nel senso che si stanno sistemando a mio favore. Niente di eclatante, piccoli spostamenti, ma importanti.

No, non dico che sia finita qui, anzi. Mi aspetto il colpo di coda, ovvio, ma per il momento posso cantare a squarciagola il mio Osanna! senza temere di stonare.

No, sembra cosa da nulla, ma è cosa da far tremare le ginocchia. Fidatevi. Provate.

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(508) Seriamente

Seriamente, dovrei davvero credere che quello che mi viene detto sia la verità? Forse, piuttosto, un sommario resoconto di ciò che dovrebbe essere, ma che della verità porta una inutile e labile traccia impolverata.

Seriamente, dovrei davvero credere che solo perché un tempo c’è stato un legame quel legame sia ancora valido oggi? Forse, piuttosto, un già detto ripetuto come se la ripetizione colmasse ogni vuoto, ma del legame resta solo un inutile e impolverato ricordo.

Seriamente, dovrei farmi bastare quello che la realtà mi rimanda come fosse tutto quello che i miei prossimi giorni hanno in serbo per me? Forse, piuttosto, è un’eco dei tempi aridi che si sono bruciati alle mie spalle, ma che ormai non possono più appartenermi neppure nella mia inutile e impolverata memoria.

Seriamente, non sono fatta per fermarmi al qui-ora. Io sono sempre proiettata in un altrove multitemporale e così mi piace, così posso superare tutto nel mio qui-ora patetico. Perché posso anche scherzarci su, posso anche non dire quando avrei voglia di urlare, non fare quando avrei bisogno di spaccare tutto, posso anche fingere quando le circostanze si impongono al mio volere, ma seriamente…

Seriamente, perché dovrei far parte di questo circo grottesco? Abbassare la testa, stirare un sorriso e passare oltre?

I do prefer not.

 

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(459) Veglione

C’è la quiete in una stanza dolcemente illuminata, dove il ticchettio di una tastiera fa compagnia ai pensieri trasformandoli in parole. 

C’è un’attraversata lunga 365 giorni, evento dopo evento, sotto la pioggia o sotto il sole, con il vento o senza, niente bussola e un kit di sopravvivenza sempre troppo ridotto per far fronte a ogni imprevisto che sa colpire sempre con una mira esagerata.

C’è un fare i conti per capire cosa aggiustare, cosa tenere e cosa buttare, cosa far crescere e cosa far morire, ed è una questione delicata che ti fa shiftare da un dolore all’altro con brevi sprazzi di gioia sparsa senza continuità.

C’è la preparazione a varcare l’ennesima soglia, dove la visuale è ridotta e normalmente fa un freddo porco e si sa che quando sei vestita per contrastare il gelo i movimenti risultano lenti e goffi e non ci puoi fare nulla.

C’è anche la parte dedicata ai propositi – buoni e meno buoni – e all’illusione che sì è possibile un cambiamento e sì è possibile che il cambiamento migliorerà la tua esistenza per cui abbi fede e persevera.

C’è un brindisi in una mezzanotte che non è mai mezza perché ti sembra che sia la notte più piena di tutto l’anno, dove senti l’eco di ogni cosa che ti stai lasciando alle spalle e ti auguri che a un certo punto quel dannato eco finisca.

E poi c’è il veglione, quello dove dovresti essere per non sentire tutto quello che c’è e che ti farà addormentare non felice e non subito. Un veglione dove fingeresti una leggerezza che non hai mai avuto, un divertimento che non hai mai sperimentato, un’euforia che non hai mai toccato, un amore sconfinato per ogni estraneo che ti passa accanto afferrandoti per i capelli obbligandoti a partecipare al trenino-peppe-pe-pe-pe-pe…

Alzo le dita dalla tastiera e spengo il pc, mi scolo l’ultimo sorso rimasto nel bicchiere, soffio via la fiamma della candela restando in silenzio con quello che di me rimane e che tra poche ore dovrà rimettersi in movimento. Non mi serve fingere né sorridere, mi basta essere qui e respirare il 2018 che mi aspetta.

Buon Nuovo Anno, Babs.

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(380) Finzione

Quando creo una storia simulo situazioni e quindi racconto ciò che non è accaduto, ma che accade solamente nella storia che sto raccontando. La finzione all’interno della mia storia non esiste, tutto è reale. Realmente accaduto esattamente lì dentro.

Come sono rigorosa nel mio creare una storia, così lo sono nel creare la mia realtà. Non c’è finzione, è tutto vero.

Non la definirei una scelta, piuttosto una condizione naturale. Non so fare in altro modo e se scelgo una modalità diversa mi costa troppa fatica, troppi pensieri, troppi disagi. Crolla la coerenza, crolla la verosimiglianza, crollo io.

Simulare, se lo si fa bene, può cambiare la realtà in cui viviamo. Ovviamente l’intento non dev’essere l’inganno, non deve avere come scopo danneggiare qualcuno o qualcosa, la purezza dell’azione determina il risultato. Sto dicendo che ci sono persone che partendo da una situazione di estrema difficoltà hanno saputo crearsi un ambiente mentale talmente forte, talmente vero, che specchiandosi in una realtà mediocre l’hanno convinta a modificare i propri contorni… da lì la finzione ha preso il largo ed è diventata l’unica realtà disponibile.

Possiamo chiamarlo il potere della mente, possiamo chiamarlo la grande illusione o possiamo – meglio – non chiamarlo affatto, tanto l’evento accade continuamente anche a nostra insaputa.

La finzione di cui parlo è quella che ci permette di costruire anziché distruggere. È l’unica possibile, per me. L’unica che può farsi perdonare qualsiasi cosa.

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(332) Crimine

Ogni Essere Umano dovrebbe considerarsi alla stregua di un luogo del delitto e transennarsi in modo da non permettere che nessuno oltrepassi i limiti. Perché? Perché tutti noi siamo vittime di un crimine, più o meno grave non fa alcuna differenza. Lo siamo tutti, senza distinzione di razza, di credo, di ceto sociale. Tutti.

Non ce ne rendiamo conto, ma siamo sempre così incazzati perché nel nostro subconscio lo sappiamo. Lo sappiamo, soffriamo, eppure non abbiamo il coraggio di denunciarlo: “Sono vittima di un efferato crimine e nessuno se n’è mai accorto!“.

Siamo incazzati per questo, tutti senza distinzioni di sorta. Quelli che lo sanno sono quelli che hanno subito i crimini più evidenti, dove i segni si vedono sulla pelle e ben oltre la pelle. Quando il crimine è sotto gli occhi di tutti, la società lo riconosce e la rabbia un po’ si attenua. Quel non-puoi-fare-finta-di-nulla non ti viene ributtato addosso con scherno e la tua rabbia trova un istante di pace. Se il crimine non viene percepito, riconosciuto, condannato dalla società… è come se non fosse mai successo. E qui la rabbia cova e s’ingigantisce fino a farti implodere o esplodere.

So con certezza che se non iniziamo a considerarci tutte vittime non potremmo mai provare vicinanza nei confronti degli altri. Chi si prende in carico il proprio dolore, smette di odiare, smette di covare rabbia, smette di augurare dolore al suo prossimo. Perché sa di cosa sta parlando, sa il peso di quella sofferenza.

Sto male e pertanto odio tutti? No, sto male e quindi auguro a tutti di non provare il mio stesso dolore. Tutto qui. Pertanto consideriamoci luoghi del crimine e proteggiamoci digerendo come si deve le nostre ferite. Siamo ancora qui, dopo tutto, giusto? Appunto.

 

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(173) Calma

Ho fama di essere una molto calma. Vorrei, ora e qui, sfatare il mito: mi obbligo alla calma, non lo sono affatto. Sono un’ansiosa cronica. Mi scoccia essere ansiosa, mi scoccia essere quella che si preoccupa sempre di tutto e di tutti, quindi m’impongo un certo contegno. In poche parole: fingo.

Non è una finzione atta a mettere nel sacco il mio prossimo, bensì me stessa.

La teoria che sta alla base di questa mia posizione è semplice: se fingo bene bene bene di non essere ansiosa, la calma entrerà in me e s’impossesserà della mia mente per sempre. Divento zen per autoconvinzione fingendo di esserlo già, in pratica.

Non voglio dubitare neppure per un istante che non sarà così, pertanto continuo a fingere e continuo ad aspettarmi grandi risultati da questo mio estenuante esercizio. Dovrei forse lasciare che il panico abbia la meglio? Nossignore! Accompagno il panico alla porta e mi pongo se non sorridente almeno presentabile agli occhi del mondo.

L’unico momento in cui vengo smascherata in modo vergognoso, però, è durante una seduta di meditazione guidata di gruppo. Lì m’infastidisce tutto e tutti. Non riesco neppure per un nanosecondo a estraniarmi e a percepire il benessere di quella luce bianca o rosa o azzurrina che una volta che ti avvolge ti trasporta lassù ad abbracciare il tuo nirvana. La calma che so fingere perfettamente va a farsi benedire, il mondo mi scopre per quella che sono e si ricomincia daccapo.

Rifuggo le suddette situazioni, ben inteso, passata da lì una volta mi sono ripromessa mai più. Ho intenzione di perpetrare la mia attività di calma apparente finché questa non si piegherà al mio volere e io, anche se non abbraccerò il mio nirvana come si suppone io faccia – prima o poi – almeno potrò salutarlo da una posizione più comoda. Con vista lago.

 

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(158) Barcollare

Mi muovo ondeggiando senza equilibrio, dentro. Fuori non si nota, lo percepisco da come il mondo si rapporta a me. Un sollievo, direi, finché non inciampo o non sbatto il ginocchio contro qualcosa, allora il mondo se ne accorge e io un po’ mi vergogno.

Non ho problemi quando la mia barchetta galleggia sopra onde e ondine e ondacce, no. Lì l’equilibrio mi si riequilibra. Folle, ma vero. Il problema sorge quando la barchetta è arenata. La terra è ferma, io dentro continuo a barcollare e perdo l’orientamento.

Non so se succede a tutti così o solo a me. Non ne ho parlato mai con nessuno, ora ne scrivo e non so quanti lo leggeranno e non so neppure se sia una buona idea scriverne per farlo leggere a tutti quelli che passeranno da qui. Infatti, potrei cancellarlo. Ma non lo farò.

Ecco spiegato perché barcollo dentro. Ora che lo sappiamo tutti ritorniamo a far finta di niente.

Grazie.

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