(939) Target

Ogni tanto sarebbe bene guardarsi come target del nostro agire. Nel senso che ci dovremmo considerare i destinatari del nostro fare/non fare e pensare/non pensare. Secondo me sarebbe un bell’allenamento. Ci preparerebbe ad affrontare ogni circostanza ci si presentasse davanti.

Quando capita di pensare cose che ci creano degli scompensi, nel senso che non ci fanno stare bene con noi stessi, ecco – forse – è perché non stiamo dando soddisfazione a quelle aspettative che ci siamo fatti crescendo come siamo cresciuti (lo so, un po’ contorto, ma portate pazienza).

Siamo scontenti di noi stessi, ci stiamo deludendo alla grande, ma ce la prendiamo con il resto del mondo. Noi (come target del nostro fare/non fare) siamo insoddisfatti non soltanto del risultato ma – forse e soprattutto – di quello che abbiamo fatto/non fatto per raggiungere quel risultato. Non è la risposta del resto del mondo che ci rende infelici, ma quello che abbiamo fatto/non fatto per arrivare fin lì. Complicato? Solo se lo si concettualizza, non se lo si pensa applicato nella pratica.

Nel mio caso, quando non reagisco con prontezza e mi perdo in elucubrazioni senza senso mi do sui nervi. Il risultato è che non solo perdo mordente nella situazione specifica, ma pure mi innervosisco per essere evidentemente un’incapace. Le aspettative che ho nei confronti di me stessa vanno a franare miseramente e mi incazzo. Con chi? Con il resto del mondo – ovviamente – e con me.

Se mi immaginassi target della mia comunicazione, mi tratterei con più cura. Mi immedesimerei con più partecipazione perché fallire l’obiettivo sarebbe per me insopportabile. Un’assurda iperbole, ma vera più del vero.

In poche parole mi tratto peggio di quel che farei con un cliente che mi chiedesse di occuparmi del suo personal brand. E ho detto tutto.

Sì, dovrei fare le valigie e andarmene da me. Non mi merito affatto.

 

 

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(776) Lobotomia

Se ti parlo e non mi vuoi ascoltare due meravigliose opzioni si aprono davanti a te: o me lo dici, che quello che ti sto dicendo non ti interessa (e io magari cambio argomento), o me lo dici, che ti sto sulle palle e che a prescindere qualsiasi cosa io ti dica tu non mi staresti comunque ad ascoltare (e io senza problemi smetto del tutto di parlarti). Fantastico vero? Devi solo dirmelo e io ti accontento. Non sto lì a discutere, a convincerti, a pregarti di prestare attenzione alle mie parole. No. Ti assecondo, senza rancore, e tutto si risolve felicemente.

Se ti parlo e non mi stai ascoltando io, comunque, smetterò di parlarti. Non sempre me ne accorgo entro i primi tre minuti, ma ho velocizzato enormemente la mia intuitività e la mia conseguente reazione, quindi… non ti preoccupare, la pianto di tediarti e non ci riprovo più. Senza rancore? Sì, senza. Infastidita, ma non rancorosamente pronta alla vendetta. Ah, smetto anche di ascoltarti, ovviamente, perché il senso di Giustizia insito della mia natura mi impone un “occhio per occhio e dente per dente” – un tantino biblico seppur efficace, me ne rendo conto, ma son fatta così.

Se quando la gente in generale ti parla e tu non ascolti, però, tesoro mio hai un bel problema. Grosso problema. E qui, mi dispiace dirtelo, ma neppure così tanto, le opzioni si ridimensionano drasticamente: o impari ad ascoltare o impari ad accettare le conseguenze della tua carenza immonda. Sì, perché sei così pieno di te stesso che la sporcizia ti ha intasato le orecchie, e pure il cuore, e prima o poi te ne renderai conto di quanto questo ti può costare.

Se scrivo tutto questo è perché, occupandomi 24h/7 di comunicazione, mi sono resa conta di quanto il mio limite al saper comunicare sia esponenzialmente aumentato negli ultimi decenni. O prima pensavo di comunicare e invece fallivo inconsapevolmente, oppure cercando di comunicare sempre meglio ho raggiunto un livello tale di tortuosità indotta da rendermi incomprensibile al mondo. Presente il detto “è talmente intelligente da essere stupida”? No, ecco, comunque il senso è quello. No, non sto millantando un’intelligenza superiore, ma una pignoleria superiore alla media per quanto riguarda il mio modo di esprimermi sì. Ci tengo proprio, ci faccio caso, mi ci impunto. Ebbene, la notizia del giorno è: NON SERVE A NIENTE.

Non serve a niente se chi riceve la comunicazione non ascolta. Il tuo 50% di responsabilità nel veicolare al meglio il messaggio si frantuma miseramente contro il 100% dello scazzo del tuo interlocutore. Amen, fattene una ragione e dichiarati sconfitta.

Però, tu lobotomizzato che mi stai davanti e vuoi parlare con me, sappi che non mi prendo più sul groppone il peso della pochezza dei tuoi neuroni. Non me ne frega proprio niente. Amen, fattene una ragione e togliti di mezzo.

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(737) Soddisfazioni

Oggi ne ho contate almeno tre, un record. Non ne parlo mai perché le incamero e ci passo oltre velocemente, troppe cose da fare e situazioni da risolvere, sfide da affrontare… tutto troppo per fermarsi e gongolare. Non va bene, non va bene perché sembra che ci siano solo le lamentele e le rogne, ma non è così. Sarei scema a fare quello che faccio se fosse solo così. 

Quindi eccomi al dunque: le soddisfazioni. Sono per lo più legate alla sfera umana, quando la comunicazione si compie senza fraintendimenti e con l’intenzione di incontrarsi e di trovare soluzioni creative e intelligenti insieme. Certo che scrivere un testo convincente ed efficace è un gran bel gol, ma non basta. La cosa migliore di tutte è attuare una dinamica di condivisione che va oltre il lavoro che si sta affrontando. 

L’intesa con i colleghi (basta uno sguardo e già sai), il confronto con i dirigenti (la stima che ricevi te la sei guadagnata ma non è mai scontata), l’incontro con i clienti (che ha nell’ascolto l’arma vincente), la collaborazione con professionisti che sanno portare la loro esperienza fino da te e che accolgono la tua in modo naturale… sembra un’utopia, vero? Non lo è.

Se lavori con questi intenti, questo può diventare il campo che ogni mattina ti vede entrare in gioco. Non lo trovi già pronto, lo devi costruire zolla dopo zolla, e devi crederci anche quando le tensioni e gli attriti si fanno pesanti. Perché un lavoro senza scazzi, casini e rotture proprio non esiste. Neppure se è il più bel lavoro del mondo e se non lo cambieresti con nessun altro. Bisogna farsi acqua, bisogna affidarsi allo spirito d’avventura, bisogna rinunciare a un po’ di comodità per azzardare dove non sei mai stato, bisogna rinunciare a metterci un punto perché si procede per virgole, bisogna rassegnarsi a ricominciare anche se non è mai daccapo è sempre un passo più in là rispetto a dove sei partito.

Bisogna. Se non te la senti, se ti chiami fuori, se pensi che non sia importante, se pensi di poterne fare a meno, se pensi che non ne vale la pena, se credi che le cose belle della vita siano altrove, allora siediti e aspetta di arrivare alla pensione sperando che il tuo inferno non abbia la meglio su di te.

Oppure: svegliati e muoviti. Non ci sono alternative, tu cambi e il mondo attorno a te cambia assecondando le tue decisioni. Il mondo non è uno solo, il mondo è personale. Sono due cose piuttosto diverse, ci hai mai pensato?

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(711) Presupposti

A volte penso che siamo fatti di anelli, come gli alberi. Ogni persona vive la propria vita a periodi e ogni periodo si sviluppa allo stesso modo: inizio-crescita-apice-decrescita-fine. Un anello. 

Se facessimo attenzione a questo particolare ci renderemmo conto che non è affatto facile leggere gli anelli che compongono una persona, non sono evidenti sulla pelle che la ricopre, bisognerebbe far entrare il nostro sguardo fin nelle viscere e allora sì potremmo avere una mappa veritiera del suo Sé, potremmo dichiarare: la conosco.

Ogni anello è una storia, una storia lunga anche anni perché non tutti i cicli hanno la medesima durata. Ogni storia parte da premesse conosciute per incasinarsi con incidenti di percorso e sorprese varie, leggere ogni anello comporta una conoscenza intima del Essere Umani. Solo pochi possono affrontare un’impresa del genere.

Quando raccontiamo agli altri i nostri anelli ne dobbiamo per forza fare un riassunto, tralasciamo le cose che non ci sembrano importanti e magari ci dilunghiamo su particolari che amiamo o che riteniamo fondamentali. Non siamo obiettivi, non possiamo esserlo. Mettiamoci poi il carico del pudore, della cautela, del buonsenso, del buongusto ecc. – tutto sacrosanto e lecito – come possiamo pensare che il nostro modo di raccontarci sia verosimile? In tutta buona fede, sarebbe comunque impossibile.

Chi riceve il nostro racconto si porta appresso i suoi anelli e il suo modo unico di mettersi all’ascolto – chi più distratto, chi meno – e anche lì in tutta buona fede, come possiamo pensare che riescano a leggerci in modo verosimile?

La comunicazione tra Esseri Umani non si può basare sull’ascolto o sul raccontarsi, bisogna spingerla oltre, bisogna spingerla oltre con l’intento dell’incontro. I nostri anelli e quelli del nostro prossimo se confrontati risulteranno molto simili per forma, non per suono forse, ma per forma sì.

Ogni albero differisce dall’altro, per specie se non altro, ma se li tagli scopri che gli anelli sono gli stessi. Ogni albero è un magnifico esemplare di vita, esattamente come noi. Mi domando, quindi, se non sia una questione di presupposti quella che fa crescere alcuni di noi storti. Se così fosse è da lì che bisognerebbe iniziare a lavorare, sui presupposti. Sarebbe già qualcosa, no?

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(708) Chicchessia

Oggi, in una presentazione di un piano di comunicazione aziendale, ho davvero usato il termine chicchessia. L’ho fatto con la mia solita quieta spavalderia e l’ho fatto solo perché suonava talmente opportuno che qualsiasi sinonimo mi risultava cacofonico.

Non nascondo che qualche dubbio l’ho avuto, dopo. Durante la revisione mi sono domandata se fosse il caso di lasciarlo lì. Mi rendo conto che è una leziosità per certi versi fastidiosa, mica sto facendo letteratura è un umile documento informativo, ma in quella frase, per il contesto che stavo descrivendo… no, non riuscivo a sostituirlo. Così l’ho lasciato.

Già mi immagino la faccia del cliente, già mi immagino il sorriso che mi nascerà e già immagino cosa dire a mia discolpa, eppure non lo toglierò.

Credo sia proprio una questione di amore viscerale per quello che sto facendo. Solitamente devo rimaneggiare idee e lavori per accontentare chi pagando vuole avere qualcosa che gli risuoni perfettamente anche quando non funziona, anche quando è una mossa catastrofica in fatto di comunicazione. In quei casi sfodero la mia migliore dialettica cercando di far comprendere le mie ragioni di professionista, spesso devo ritirarmi in silenzio nonostante gli sforzi profusi perché chi paga ha sempre ragione. Ecco, oggi ho voluto essere libera. Completamente libera di gestire la situazione, dopo tanto tempo mi sono detta: “Se per te va bene, significa che va bene e basta”. E dopo tanto tempo a sacrificare concetti e parole per volere altrui, è stato un delizioso sollievo. Decido ed eseguo. Liberamente eseguo… meraviglioso.

Mi rendo conto che sto parlando di cose piccole, eppure se applico questa mia piccola libertà una volta al giorno mi sento meglio. Un esempio? Ok, decido di farmi un toast e qualcuno mi dice: “Perché sistemi in quel modo il formaggio?”. La risposta ovvia (“Perché lo voglio esattamente così”) e l’affermazione della scelta continuando sulla mia strada, è un altro esempio di come voglio fare le cose: A-MODO-MIO.

Il vecchio Frank (Sinatra) lo ha cantato e io nel mio piccolo ho raccolto la sua eredità mettendola in pratica sempre a-modo-mio.

A me sta bene il consiglio, la condivisione, il fare meglio, l’imparare… va tutto bene, ma ci sono delle cose che preferisco fare a-modo-mio. Scrivere è una di queste, quindi se qualcuno vuole mettere mano a qualcosa che ho scritto io non la prendo benissimo. Magari la migliori, ma diventa tua e non mia. Nonostante i tanti anni di scrittura è ancora così. Quindi oggi mi sono ribellata e ci ho messo un bel chicchessia dove nessun altro al mondo avrebbe osato.

Sì, è una cosa da nulla, una sciocchezza è vero. Ma l’ho fatto. E l’ho fatto a-modo-mio. Grazie Frank.

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(637) Identico

Stasera faccio una cosa diversa: prima scrivo e poi ricavo dal testo il titolo. Si potrebbe pensare che sappia già cosa scrivere, giusto? No, sbagliato. Soltanto che mi sono un po’ stancata delle gabbie che mi sto costruendo da 636 post, ho bisogno di un po’ d’aria senza filtri.

Potrei parlare di come una volta che ti viene confezionato addosso un abito sia un gran casino cambiarselo. Tipo: ti fai vedere in giro con bermuda hawaiane, canotta fantozziana, calzini con sandali alla tedesca e per tutti sarai per sempre quel disadattato che in una giornata di scazzo s’è fatto quattro passi sovrappensiero mentre cercava una buona idea per pagarsi le bollette. Fa niente se di solito vesti in frac e sei un gran signore, tu sei e rimani per tutti un eccentrico e grottesco fannullone finché muori. Stessa cosa anche fosse la situazione inversa. Funziona così.

Ogni volta che qualcuno mi chiede che lavoro fai, partendo da questo presupposto, vado in crisi. Ho fatto la cameriera, la baby-sitter, la donna delle pulizie, la commessa, la centralinista, la segretaria, l’insegnante di scrittura creativa e ora sono responsabile della comunicazione di una manciata di start-up… ho cambiato abito mille volte ed è probabile che lo cambierò ancora, quindi mi chiedo: che lavoro faccio?

Le varianti confondono. La fluidità, contrapposta alla catalogazione, affatica. La malleabilità viene guardata con sospetto. Il cambiamento infastidisce.

Abbiamo i nostri schemi, i nostri scatoloni in cui infilare tutto, mettiamo ogni cosa al suo posto così la teniamo sotto controllo, così non ci salterà addosso per mangiarci le orecchie durante la notte. Mi viene da ridere, ma che amarezza!

Siamo così impegnati a pretendere pulizia dagli altri che nascondiamo la nostra sporcizia sotto lo zerbino che diventa collina e montagna e noi come se niente fosse domandiamo ancora e ancora: cosa fai? Cosa fai? Cosa fai?

E se cambiassimo la domanda in: chi sei?

E no! Comporterebbe la rogna di andarsi a cercare la risposta in chissà quale anfratto dell’anima. Sempre diversa a ogni occasione. Perché non siamo mai una cosa sola e sola soltanto. Conteniamo moltitudini come Walt Whitman ci ha insegnato, e queste moltitudini ci spaventano a morte. Le nostre, poi, sono le più terrificanti di tutte perché in fondo in fondo le conosciamo bene, anche se ce le nascondiamo. Sappiamo che siamo noi ad averle generate e non riusciamo a perdonarcelo. Ma perché?!

E se non ci fosse nulla da perdonare? Eh? 

Lo sguardo che va a pesare sul collo affossa l’idea che abbiamo di noi ed è una violenza inaccettabile da noi stessi perpetrata. Se, invece, è il nostro sguardo a pesare sul collo di qualcun altro meritiamo lo stesso inferno che stiamo causando. Ma proprio uguale uguale.

Identico.

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(403) Laringite

Male di stagione? Eccomi pronta! E non sto a dire quanto mi girano le palle, che non sto bene e tutto è più pesante e che non posso mangiare, bere, dormire… insomma: laringite. Non è il colera, non è il caso di farla tanto lunga, lo so, ma ne farei volentieri senza. Grazie.

Questa premessa non è soltanto uno sfogo isterico (anche se potrebbe sembrarlo), è un modo per approfondire il pensiero (che ci vuole poco partendo dal basso) e arrivare all’illuminazione che in questi giorni di sofferenza mi ha aperto una via percorribile. Procederò con ordine: gola in fiamme = fatica e dolore anche solo a respirare, figuriamoci a parlare. Ergo: se non vuoi soffrire inutilmente stai zitta. Silenzio = Soluzione.

Il processo è disarmante nella sua banalità, ma se lo sperimenti su te stesso porta a risultati non così ovvi. Dovendo star zitta per la gran parte del tempo ho notato cose interessanti sia su di me che su chi mi sta attorno. Parto da me: parlare stanca, il silenzio dà sollievo. Io parlo troppo, senza se e senza ma. Farei meglio a parlare di meno, e questo farò d’ora in poi. Passando agli altri: chi mi conosce si aspetta che io parli, se non lo faccio si fermano e mi guardano come mi vedessero per la prima volta. Ho ricevuto più sguardi interrogativi in questi giorni che in tutta la mia vita. Non vorrei appesantire troppo la cosa, ma è possibile (direi anche probabile) che il mio parlare tanto vada a indebolire la mia comunicazione. Non è detto che sia proprio una risultanza matematicamente precisa, però sospetto che il punto sia proprio questo: sono esausta e un bel po’ di silenzio (direi qualche tonnellata al giorno) potrebbe essere il modo per arrivare ad una sorta di equilibrio.

Conto molto sul fatto che adesso la cosa mi risulta talmente chiara da non scordarla per un bel pezzo. O almeno fino alla prossima laringite. Amen.

 

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(75) Donna

Me lo sto chiedendo da troppo tempo che cosa sia una donna. E’ che ogni risposta che ho trovato in questi anni non mi è mai bastata. Ho sempre voluto guardare oltre. Più a fondo.

C’è sempre di più di quel che una pensa di trovare dentro di sé, specialmente quando la domanda ti riguarda da vicino.

No, non mi è mai bastato la versione di “donna” che mi è stata data (diversa, ma sempre uguale) durante questi miei tanti anni di crescita. Perché donna lo sono dalla nascita e non per scelta. O forse sì.

Sì, risceglierei di essere donna, ora che ho un quadro abbastanza dettagliato della questione, anche se non completo. Grazie al cielo ancora non completo. Le donne che ho incontrato nella mia vita non mi sono sempre piaciute, non le ho riconosciute tutte come sorelle. Da certe sono fuggita nello scoramento di una comunicazione impedita dai troppi specchi.

Rimangono, però, le donne che sono e sono state Maestre. La loro bellezza perdura, oltre il tempo e il ricordo che non appassisce. Essere quel tipo di donna è stata l’ambizione che ho curato in silenzio. Chissà se un po’ mi sono avvicinata a loro. Sempre troppo poco, comunque, sempre troppo poco.

Essere donna non è complicato dal fatto che sei donna, viene complicato da chi donna non lo è.

Non ho nient’altro da dire al riguardo. Non adesso.

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(29) Fraitendimenti

Mi prendo il cinquanta per cento di responsabilità: se non mi capisci è perché non sono riuscita a esprimermi come si deve. Considerato che il mio mestiere riguarda la comunicazione, è ovvio che non sono così brava come dico dato che non mi faccio capire. Devo fare di meglio, ok.

Parliamo ora del restante cinquanta per cento di responsabilità: la tua che non mi capisci. Dove sei mentre ti sto parlando? In che pianeta stai orbitando? In che universo parallelo ti sei proiettato per aver frainteso quello che ho appena detto? Perché se sei distratto, se sei distante, se sei arrabbiato, se sei pieno di pregiudizi o preconcetti o se sei troppo pieno di te per metterti in discussione allora, amico, il problema parte da te.

Non è che non mi riguarda, certo che mi riguarda, molto probabilmente mi prenderò le conseguenze del tuo orbitare allucinato e anche del tuo cadere in buchi neri di inconsapevolezza, ma non mi sentirò in colpa per questo.

A ognuno il suo compito: io imparerò meglio a comunicare e tu ad ascoltare. Anzi, c’è un’altra cosa che devo imparare a fare meglio: evitare di comunicare con chi già so che non sa ascoltare.

Restringo il campo, mi salvo la vita.

b__

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