(814) Tramonto

Cessa il fare-fare-fare e si instaura dentro di te il sollievo. Ce l’abbiamo fatta a concludere un’altra giornata, in modo onorevole il più delle volte, se non altro perché siamo ancora vivi. Non è poco di questi giorni.

Si ripongono le armi – o così dovrebbe essere – e si ricerca quella condizione mentale più vicina alla pace possibile (ammettiamo che c’è anche chi la guerra se la porta dentro e ovunque, ma non tutti, santocielo, non tutti). Quando si vive il finire delle cose della giornata c’è uno sfinimento (benefico se la giornata è stata gratificante, meno se è stata un disastro) che ti fa chiudere tutto fuori. Se non altro per darsi tregua, perché di una tregua c’è bisogno. 

Il punto, forse, è: quanto riusciamo a darci tregua?

Se lo chiede una che non l’ha mai presa troppo in considerazione e ne sta pagando le conseguenze. La domanda nasce, evidentemente, da una necessità. Impellente, aggiungerei. Svegliarsi prima no? Evidentemente no. Ho i miei tempi, giurassici è vero ma sono una fan accanita del meglio-tardi-che-mai (s’era capito?).

Questa mia nuova prospettiva – che vede protagonista LA TREGUA – mi sta rivoluzionando per bene i tracciati mentali che si erano ossidati e che mi implorano di recuperarsi in lucidità. Un lavoro immane. Un lavoro che prima inizia e meglio è. Un lavoro che inizia ora. Nel senso che non posso più rimandarlo, non posso più procrastinare un vitale processo che avevo fino a questo momento sottovalutato [NB: se non la prendo così, questo buon proposito finisce nel dimenticatoio tra tre-due-uno… eh.].

Questi miei risvegli, prendendoli di petto, hanno sempre una certa portata: strutturazione, calendarizzazione, esecuzione. Il tutto comporta una pressione impressionante (e la pressione sa benissimo quanto può diventare impressionante, usa la cosa a suo vantaggio ovviamente). Il mettermi sotto pressione nel prendermi una tregua è esilarante. Devo proprio resettare i neuroni, uno a uno, e vedere cosa resta di me. Non nego di essere preoccupata. 

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(712) Apparecchiare

Spendo molta della mia energia nella preparazione. Credo sia la parte migliore, il momento in cui le idee possono splendere. Immagini che ogni dettaglio sia perfetto, che ogni cosa sia al posto giusto, che tutto-proprio-tutto vada come vuoi tu. Per me è il momento in cui posso curare le mie idee affinché siano accoglienti e creino benessere per chi ne usufruirà.

A ben pensarci non ho fatto altro che apparecchiare il mio presente per tutta la vita, e non è poco. Davvero non è poco.

Mi sembra addirittura di non saper fare altro, e questo è di certo un limite. Faccio fatica a smettere, non riesco a stare con la testa ferma e godermi quanto ho fatto, sono sempre spinta oltre, devo sempre pensarne una nuova e arrovellarmi per riuscire a rendere il pensiero concreto, reale. Stachanov mi fa un baffo. Su tutta la linea. Non so se esserne orgogliosa o dolermene, sinceramente non lo so.

Tanto per cambiare sto apparecchiando un’altra tavola, e già non mi do tregua: immagino, strutturo, schematizzo, distribuisco il fare… Sì, una macchina da guerra. Non è per la guerra che mi sto preparando, però, questo spero farà la differenza. Fidarsi delle persone – alla mia età – non è facile, ti domandi sempre come e dove stavolta ti colpiranno, ma alla fin fine ci vuole una bella tenuta di nervi a stare perennemente sul chi-va-là. I miei nervi già sono oberati per tutto quello che devono affrontare, non posso trascinarli anche nel girone infernale dei cinici ad oltranza. Eh!

La vita, dopotutto, è un atto di fede. Se ci sei e non ci credi che resti qui a fare?

 

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(433) Elucubrare

E passano i giorni e io lì sempre presa in rimurgini e smacchinamenti babsiani che mi perdono per strada mille volte tanto da rendere il mio Iperuranio un posto ostile e minaccioso. Ancora giorni che passano e il ponderare e riflettere (che sono sinonimi, ma non nelle sfumature) e sistemarmi in ipotetici nuovi Iperurani soltanto per ammettere che non ci starei neppure troppo comoda e quindi è meglio stare dove sto. E ancora giorni (perché i giorni – se sei fortunato – non finiscono troppo in fretta) dove il pensiero diventa nenia e ti rende disgustoso anche il solo fatto che stai ancora impelagata nel fondale melmoso di quella palude che non sai neppure come ci sei finita lì dentro, ma ne cominci ad avere abbastanza perché manca l’aria. Eppure ci sono ancora giorni, e giorni, e giorni…

giorni…

giorni…

e poi ti stanchi. Decidi che ti dai una ripulita, spazzoli di qua e di là quell’Iperuranio che tutto sommato non è poi così malvagio e le cose cambiano. Vedi proprio che le cose cambiano. Non te lo stai immaginando, le cose cambiano sotto i tuoi occhi e non sei più abituata a quel movimento, ti gira la testa, hai la nausea, hai quasi voglia della palude – maledetta – ma sei troppo stanca per riprendere gli smacchinamenti tormentosi e ti guardi mentre implori una tregua.

Ti fermi a fare le coccole alla tua gattina che se ne frega dei dettagli perché sono comunque dettagli che non la riguardano e la osservi ammirata. Perché non ti assomiglio un po’ di più, Mei? Insegnami a non entrare nella palude se non per acchiappare una preda e scappare agile e soddisfatta. Dai.

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