(1079) OCA2

Ok, facciamo un gioco: indovinate che diavolo significa il titolo di questo post. Potete usare la mia pagina Facebook o il mio profilo per tentare la sorte… il premio? Nulla se non la soddisfazione di avercela fatta. Che ne dite?

Bene, io scommetto che nessuno di voi ci si metterà d’impegno perché non c’è premio e perché la “soddisfazione” fine a sé stessa ormai non ha alcun valore. Non è una motivazione che ci fa agire. Vogliamo qualcosa di interessante in cambio, qualcosa che ci faccia brillare gli occhi. La soddisfazione non ci reca che un tepore provvisorio, che si dimentica appena la nostra attenzione si sposta altrove.

Ebbene, il titolo là sopra non c’entra nulla con la soddisfazione, questo è il primo indizio. Il secondo è: appartiene soltanto ad alcuni. E il terzo indizio ve lo dò alla fine di queste righe perché voglio continuare con il ragionamento appena iniziato.

Quindi, noi adulti a meno che non abbiamo un interesse bello esplicito ci muoviamo difficilmente. La ricompensa ci piace quando è concreta, solida, non sentimentale. Per esempio: per una donna non basta l’amore, ci vuole un anello di fidanzamento che lo testimoni. Per un uomo non basta trascorrere una bella serata con una bella donna, ha bisogno di immaginarsi un dopo cena a base di sesso o gli sembrerà di aver perso tempo.

Non penso di essere stata troppo vaga con gli esempi e temo siano dannatamente veritieri.

Ok, stupidamente pensiamo che sia tutto lì. E io stupidamente mi ritrovo a fare delle cose solo per la soddisfazione di averle fatte e, me ne rendo conto, sono cose che non mi portano altrove e potrei anche risparmiarmele. Eppure mi immergo in cose che non hanno valore se non per me, senza mai pensare di star perdendo tempo o a quanto si riveleranno inutili nell’economia della mia esistenza.

Questo fa di me una sciroccata, molto probabilmente, ma (eccolo qui il terzo indizio) è qualcosa che non ho scelto, qualcosa che mi è stato dato in dotazione ed è qualcosa che ha riflessi che neppure io conosco (sì, è un indizio anche se non lo sembra). E non ho altro da dichiarare. Fine della storia. Per oggi.

 

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(832) Elicottero

Il mio ufficio offre una bella vista dall’alto e, davanti a me, ogni mattina, ci sono tre edifici completamente diversi l’uno dall’altro dove mille uffici si illuminano minuto dopo minuto. Chi arriva presto, come me, chi un minuto prima delle nove, quando inizia “il lavoro”. In un certo qual senso, molto perverso, ci si sente parte di un’Umanità che ha un compito e che ogni mattina si presenta per affrontare la stessa situazione. Stoicamente. 

Mi soffermo spesso sul pensiero: quante persone sono felici facendo quello che fanno? Penso siano una minoranza, una fortunata minoranza. Quindi la possibilità che di fronte a me ci siano “colleghi” che anziché stare al lavoro vorrebbero scappare a Capo Verde per dimenticarsi di questo mondo è molto alta. 

In uno di questi edifici, il più alto (lo potrei definire una sorta di grattacielo nostrano), c’è una piattaforma per il decollo/atterraggio di elicotteri. Non so se sia mai stato usato, ma c’è. Questa cosa la trovo fantastica. Cioè, qualcuno ha pensato che ci potesse stare bene una cosa così là sopra. Qualcuno che, molto probabilmente, possiede un elicottero. E devo dirla tutta, piacerebbe averlo anche a me un elicottero. Mi piacerebbe proprio pilotarlo. 

Stamattina mi sarebbe piaciuto stare là sopra, salire sul mio ipotetico elicottero luccicante, azionare i comandi e sollevarmi per farmi un giro. No, non perché io non sia felice di fare quello che sto facendo, solo perché ogni tanto mi piacerebbe potermi sollevare e guardare le cose dall’alto. Credo che ricordarci che possiamo decidere di muoverci da dove siamo per scegliere un altro luogo dove stare meglio, dove stare bene, sia una pratica da non sottovalutare. Io l’ho fatto finché non ho trovato quello giusto (magari non per sempre, ma per ora sì). Non dico che non ci sia voluta una bella vagonata di caparbietà e determinazione, anche un pizzico di coraggio, ma era una cosa che mi dovevo. Giusto per non morire prima del tempo. E non lo deciderò io quel tempo, pertanto è meglio sfruttare quello che c’è a disposizione prima di iniziare a pentirsene.

No regrets. Always.

[Ok, è deciso, vi passo a prendere in pausa pranzo e ce ne andiamo al mare per una frittura di pesce… un’ora e siamo di nuovo in ufficio, promesso!]

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(709) Veliero

Mi sento come un veliero parcheggiato. La baia è carina, certo, ma stretta. Niente venti, niente profumo di mare, non arriva fino a qui. 

E non è il periodo, non è una sensazione passeggera, mi sento così da sempre. Non so dire altro, l’immagine della baia e del veliero penso che sappia rendere l’idea. Ciao.

(…)

Sarebbe un ***Giorno Così*** troppo breve se finisse qui, devo per forza metterci ancora qualche riga e temo di aver preso diretto un bel vicolo cieco.

(…)

Qualche tempo fa scrissi un romanzo dove il vento era il protagonista silente della storia, comprai un libro per saperne di più e più leggevo quelle pagine piene zeppe di informazioni più ne volevo leggere. Sentivo che sapere tutto quello che potevo sapere sull’argomento sarebbe stato per me di vitale importanza al di là del romanzo che stavo scrivendo. È stato come scoprire di punto in bianco una mancanza che ignoravo di sentire.

Le vele accolgono il vento opponendogli quella giusta resistenza affinché il veliero possa muoversi. Se il vento è troppo si squarciano, se è poco non si gonfiano e lo stallo permane. Semplice. Quindi ognuno di noi ha bisogno del suo vento per muoversi, giusto?

Rimanere al sicuro nella baia ti può consumare di nostalgia. Il fatto che ogni viaggio – in realtà – sia consumato nella solitudine piena di noi stessi è la contraddizione più affascinante che c’è perché raramente quando viaggiamo siamo davvero soli. Come al solito più cerco di chiarirmi le idee e più queste mi ballano attorno la macarena. Dovrei rassegnarmi allo sberleffo. Prima o poi lo farò.

Va bene, ora le righe sono sufficienti – pure troppe – e mi stanno cascando le dita sulla tastiera dallo sfinimento. È venerdì e anche questo è un tema.

Già.

 

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(655) Ritorno

Il bisogno di spostarmi da un luogo all’altro è sempre stata la spinta che mi ha permesso di bypassare la mia pigrizia e anche alcune mie paure. Proprio queste paure, non ricevendo da me nutrimento, si sono andate ridimensionando e alcune sono del tutto sparite. Ho sperimentato chi sono quando viaggio, quando mi tolgo dalla mia comfort zone e, mano a mano che crescevo, sono venuta a patti con certe mie idiosincrasie e le tremende ansie – massì, mettiamoci dentro anche loro. 

Mi piace tornare a casa e ricomporre i pensieri, al sicuro nel mio ambiente, dove trovo le persone che amo e gli oggetti che parlano di me. Sto bene dove sto, ma…

Prendere l’auto e andare, è una delle cose più belle che posso immaginare per me. Guidare, la libertà più cara. Anche prendere un aereo e oltrepassare confini territoriali che l’uomo ha deciso per sé e i suoi simili è un privilegio enorme. Andare, anche lontano, e poi ritornare.

Se rimani troppo attaccato al tuo luogo, se non alzi lo sguardo, se non ti apri e se non ti rendi vulnerabile, come puoi incontrare il mondo? No, non sto dicendo che se non ti muovi non capisci il mondo, perché menti sopraffine hanno capito bene il mondo anche quando il mondo sembrava essere grande come un fazzoletto. La comprensione del mondo la si fa scavando e proiettandosi in cielo.

L’incontro con il mondo è un’altra cosa. Magari mentre lo incontri non ci capisci un’acca, ti si incasinano le sinapsi, ti vien voglia di scappare via, ma… poi, quello che hai assorbito inconsapevolmente ti ritorna, riaffiora in superficie per farsi guardare meglio, farsi gustare meglio. Questo accade a ogni mio ritorno a casa, sempre.

Per me ogni viaggio non ha mai un solo ritorno e neppure una sola andata. Sarà che sono nata strana, ma questa cosa la vivo come una delle mie caratteristiche migliori.

[Sì, ne ho altre e non lo dico per vantarmi, è proprio un dato di fatto. Così io, così ogni Essere Umano, ovviamente]

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