(986) Spine

È come se tanto tempo fa mi fossi spinata la mano e quelle spine ancora non sono riuscita a togliermele tutte. Cioè, è passata una vita e ancora la metà sono qui e fanno un male boia.

Che non è quel dolore che ti vien voglia di tirare giù i santi e le madonne, è una cosa che esce ogni tanto quando ci prendi dentro. Tac. Ti ricordi di quella fottuta spina e ti dici che te la dovrai togliere prima o poi ma non ci riesci.

E non serve, forse, neppure ripensare a quando quella spina ti si è infilata nella pelle, basterebbe capire come fare per farsela uscire da lì. Maledizione.

Quindi la situazione è questa: sempre lo stesso fastidio, sempre la stessa reazione, sempre lo stesso dolore, sempre la stessa condizione. Loop.

Mi rendo conto che o me le tengo e smetto di lamentarmi o le tolgo e vedo come sto senza. Non è che le alternative si sprechino e non è che questo mi risolva il dilemma.

Ovvio che da sole non usciranno.

Ovvio che al momento ignoro bellamente cosa fare di mediamente intelligente per liberarmi dal filo spinato.

Sì, perché è un filo, è evidente che si tratti di un filo.

Buona o cattiva notizia?

Ma che ne so.

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(936) Empirico

Ovvio che noi abbracciamo, empiricamente parlando, ciò che riconosciamo come reale perché frutto della nostra esperienza diretta. Posizione saggia, ma parziale. Se ci evitiamo di sperimentare cose nuove, escludere tutto ciò che non abbiamo incontrato e attraversato diventa pericoloso. Il mondo ci sovrasta, che lo vogliamo oppure no. 

Non credo che l’Essere Umano agisca per sentito dire, sulla base di quello che gli altri affermano, penso che soltanto se hai fatto esperienza – magari in altro modo e con altri risvolti – di quella cosa che stai ascoltando, allora sei anche disposto ad agire. Perché agire costa fatica. E comporta un certo rischio. Noi siamo pigri e paurosi di default.

Sarebbe il caso, piuttosto, di riflettere sul come affrontiamo e attraversiamo le cose della vita, sul quanto siamo disposti a esperienziare e su come digeriamo l’esperienza: traendone vantaggio oppure subendone le conseguenze. La prima opzione ci gratifica, la seconda ci mortifica e ci crea frustrazione.

Quanto siamo stati gratificati e quanto mortificati durante la nostra esistenza?

Ognuno di noi potrebbe scriverci un libro, in realtà ognuno di noi si scrive il proprio anche senza bisogno di penna e quaderno perché siamo noi il nostro libro che vive, respira, cresce, invecchia.

Empiricamente parlando, limitare le esperienze che siamo disposti ad affrontare a una lista rigida dove tutto è sotto controllo, non significa che sappiamo come va il mondo, ma soltanto come va il nostro micro-mondo quando segue le nostre regole. Gli imprevisti ci colpiranno comunque, però, e questo bisognerebbe tenerlo presente.

Condividere il proprio bagaglio di esperienze con quello degli altri ci permette di non includere qualsiasi cosa nella nostra lista, ma di trarre del buono anche dalle storie di chi ha già imparato in prima persona quella lezione. La condivisione è un’astuzia che ha sempre funzionato, basta essere intelligente per approfittarne.

Il segreto, infatti, rimane uno soltanto: essere abbastanza intelligenti per riconoscere le opportunità e farle proprie quando queste si rivelano utili.

Sempre empiricamente parlando, ovvio.

 

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(921) Arabesque

Una certa grazia è d’obbligo. Le persone che bypassano questa delicatezza di pensiero mi lasciano sempre perplessa. Dai per scontato che l’educazione sia un optional curioso da poter sistemare alla fine della lista-priorità nei rapporti umani e ti arroghi il diritto di entrare a gamba tesa nello spazio del tuo prossimo come se niente fosse. 

Mi succede spesso di tirare il freno a mano prima di approcciarmi con un altro Essere Vivente, penso sempre se non esista un modo migliore di quello che sto dando per scontato per interagire con il mondo. 

Non è detto che le mie urgenze siano le urgenze degli altri, che siano prese in considerazione immediatamente e che siano condivisibili. Non è detto. Quindi pensarci mi fa bene. Mi fa riposizionare la mia urgenza in una prospettiva più lucida, mi fa controllare il mio movimento nello spazio e nei tempi (quelli che entrano in gioco, tutti) e mi fa prendere un respiro. 

Il controllo fa tanto. L’arabesque è questo.

La questione dei tempi giusti è in ogni ambito una grande risorsa. Anticiparli ti fa bruciare l’occasione, ritardarli ti fa mangiare le mani perché ormai non c’è più spazio per te. A valutare bene le cose della vita, sbagliare i tempi è la prassi e le conseguenze si spandono volentieri in ogni dove e la tua esistenza va a rotoli. 

Con questa visione ottimistica del mai-una-gioia-pensiero non si va lontano, ma anche far finta di nulla quando invece ci sono delle Leggi Universali che concorrono alla realizzazione dei tuoi desideri, o si oppongono alla tua volontà, strategicamente non è molto intelligente.

E l’arabesque, strategicamente, non sbaglia un colpo. Davvero.

 

 

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(828) Guinzaglio

Serve a portar in giro il cane. Nel senso che lo porti dove vuoi tu. Lui può impuntarsi e farti bestemmiare in aramaico antico se non vuole muoversi, ma – dato di fatto – sei tu che hai il potere e alla fine vincerai. Lo porterai dove decidi che dovete andare. Non glielo chiedi, glielo imponi. Se lui è docile ti seguirà senza fare storie, altrimenti diventerà un fastidio che sistemerai applicando il tuo ruolo di capobranco.

Stiamo parlando di uomo/donna vs cane. E basta.

Non puoi mettere il guinzaglio a un uomo o a una donna, gli Esseri Umani non vanno portati in giro a fare pipì. Loro si scelgono liberamente dove farla, che ti piaccia o no. Pensare che un uomo/donna possa avere in mano il potere di decidere dove un altro Essere Umano deve andare o stare è aberrante. Se si basano le Leggi su questo principio si evitano idiozie e abusi piuttosto importanti per la salvaguardia della dignità umana. Questo è quello che penso.

Dal macro al micro: mi è capitato più volte di essermi ritrovata al guinzaglio, senza manco accorgermi. Ovviamente ho fatto ben altro che impuntarmi per dare fastidio, ho proprio spezzato la corda a morsi e me ne sono andata dove ho creduto bene di andare. Questo perché non sono un cane, anche se non sono proprio sveglissima e ci sono cascata.

Il punto è che ci si casca. Basta che affidarsi alla guida di qualcuno privo di scrupoli, privo di sensibilità, privo di buonsenso, privo di qualsiasi umana accortezza e track, vieni tirata da una parte o dall’altra da un dannato guinzaglio. Che tu sia uomo o donna, adulto o bambino, intelligente o stupido, non fa alcuna differenza, basta essere in buonafede e il rischio si concretizza. Bisogna stare attenti.

Ho intenzione di reimpostare il gioco, ho intenzione di togliermi il collare (da quanto tempo ce l’ho su, ‘sto maledetto?!) per rendere l’acchiappo più difficile, ho intenzione di non aspettare di vedere dove mi stanno portando prima di dare un morso alla mano sciagurata e andarmene via. Non ho più tempo da perdere, né pazienza da impiegare per i giochi idioti di qualche arrogante giocherellone che si crede furbo, più furbo di me.

Non sono un cane. Sono una gatta. Sia chiaro.

[ma se fossi un piccione saprei benissimo su che testa focalizzarmi]

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(720) Orsetto

Non ho mai avuto un amico orsetto che mi stesse vicino nel momento del bisogno. Avevo i miei fumetti, i miei libri. Non sono morbidi, non sono caldi, sono proprio un’altra cosa. Un orsetto non avrebbe potuto rassicurarmi sul fatto che oltre a quello che conoscevo e che stavo vivendo ci fosse dell’altro, qualcos’altro di magnificamente misterioso e intrigante (come le storie che leggevo) e che quel qualcosa era lì e mi stava aspettando. Dovevo solo crescere un po’.

Ecco, questa cosa mi ha fatto viaggiare su corsie neuronali preferenziali, lo ammetto, ma nel concreto mi ha fatto sbattere il muso quotidianamente contro una realtà che non aveva nulla a che fare con quel misteroso-e-intrigante che sognavo – anzi tutto il contrario – eppure senza mai dubitare del fatto che la parte migliore doveva ancora arrivare e che mi stava aspettando.

Aspetta che ti aspetta ho affrontato diverse avventure – nel vero senso della parola – e seppur io mi sia pure divertita oltre che fatta il mazzo tanto, mai neppure per un istante quella tensione frizzante e deliziosa che trovavo in quelle storie si è verificata. Mai. Neppure da lontano. Neppure quando ero emotivamente coinvolta, niente di niente.

Ho pensato che probabilmente peccavo di sensibilità e che fosse mia responsabilità andarmele a cercare queste sensazioni mirabolanti, infatti continuavo a pensare che fossero lì da qualche parte e che mi stessero aspettando. Sta di fatto che odio aspettare senza fare niente per cui mi sono data piuttosto da fare per andare loro incontro, con molto impegno mi permetto di aggiungere. Anni e anni di situazioni assurde e spesso grottesche, di scivoloni e ridicoli errori, di incontri tristi-scellerati-stupidi-inutili, ma niente.

Quindi, facendo due conti veloci, le cose possibili sono due: o il  misteroso-e-intrigante non sono lì ad aspettarmi (e neppure sanno della mia esistenza) oppure mi stanno deliberatamente ignorando – per lecite ragioni, perlamordelcielo, ma senza un briciolo di compassione o umanità.

Qualche tempo fa decisi che mi sarei fermata, basta andare incontro alle mie allucinazioni, facciamo che il misteroso-e-intrigante non li voglio più. Un po’ mentendo e un po’ con convinzione, metà e metà diciamo. Non mi sono ancora spostata da questa perentoria autoimposta decisione, e non me ne pento. Però, stasera, stavo pensando che se fossi stata come tutti i bambini intelligenti di questa terra, mi sarei fatta regalare un orsetto perché a questo punto sarebbe lui a rassicurarmi sul fatto che anche così va bene. Non troppo, ovvio, ma potrebbe pure andare peggio.

Prossima volta nasco più intelligente.

 

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(665) Lucidità

Faccio fatica a mantenere il controllo. Ormai è un dato di fatto. Faccio fatica. Non significa che l’ho perso il controllo, significa che faccio fatica. Fatica. Fatica. Fatica. 

La fatica uccide la lucidità. Quindi in realtà ho perso la lucidità. Eccoci al punto.

Essere lucidi è essere veloci, agili, vigili. Una gran condizione per affrontare qualsiasi cosa il mondo ti butti addosso. Lascia stare l’intelligenza e la sensibilità, perché spesso sono proprio loro a minare la lucidità di pensiero. Un giorno un amico mi ha detto: “Sei talmente intelligente da risultare stupida”. Sbang. Estremizzare l’intelligenza non ti rende migliore, evidentemente. La sto ancora digerendo ‘sta cosa, comunque. Vabbé, piano piano, ho i miei tempi.

La sensibilità, che è propria di chiunque al mondo respiri (mondo vegetale compreso), riduce drasticamente la capacità di discernere, di comprendere, di tenere le briglie di una realtà che cambia e si stravolge a seconda dell’angolazione da cui la guardi. E siamo tutti in balìa degli eventi – volevo aggiungere un’ulteriore banalità, così da rendere evidente la mia stupidità (no, non l’ho ancora digerita).

Ritornando alla faccenda del controllo, ormai me ne sono fatta una ragione: tutto quello che riesco a maneggiare con padronanza si può contare sulle dita di una mano, una mano di tre dita – tipo Ben-nemico-del-mal (ndr. che tutti noi quarantenni conosciamo bene) – e mi rifiuto di trasformare questo limite in un cruccio. Va bene, me ne posso fare una ragione, non controllo un cavolo fritto da una vita e non cambierà mai, neppure con l’avanzare della vecchiaia. Amen. 

Ciò non toglie che la lucidità me la voglio riprendere, non so ancora come, ma voglio proprio riprendermela tutta. Al più presto. Grazie.

 

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(615) Esperimento

Oggi mi sono guardata come se fossi una sorta di esperimento vivente. Non so come mi è venuta ‘sta idea, ma è stato interessante. Mi sono domandata: ma sono un esperimento riuscito o fallito? Ancora non ho trovato una risposta.

Ho sempre praticato l’attraversamento delle esperienze come metodo di apprendimento, a volte potevo anche risparmiarmelo ma quando si è giovani le forze non mancano e neppure la presunzione di poter affrontare tutto e comunque uscirne senza troppi danni. I danni non li percepisci subito tutti, escono in superficie un po’ per volta, magari quando attraversi un’esperienza analoga e ti ritrovi menomato, non integro, ed è una brutta scoperta. Una scoperta che ti toglie le forze e, soprattutto, la fiducia in te stesso.

Fatto sta che, seppur danneggiata, sono ancora in funzione, suppongo che l’esperimento in questo senso sia riuscito. Temo di essermela cavata per un soffio, ho detto addio a ogni illusione di forza e prestanza e mi sono sistemata su valori medi. Non vale la teoria del è-intelligente-ma-non-si-impegna-abbastanza con cui a scuola mi hanno martellato, bensì non-è-abbastanza-intelligente-ma-non-difetta-di-impegno, e nel cambio ci guadagno anche.

I test non sono ancora finiti, temo non finiranno mai, e i risultati cambiano di giorno in giorno con feedback altalenanti e ben pochi colpi di culo. Ho dalla mia ancora un paio di chili di motivazione (sparsa in giro) e sto cercando di farmela durare. Devo trovare al più presto un distributore, non durerà a lungo.

Vabbé, fine rapporto esperimento B72.

Passo e chiudo.

 

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(546) Brand

M’è capitato di tanto in tanto – e va bene, lo ammetto, spesso – di non sapere cosa fossi. Il cosa ha a che fare con l’abito da indossare per muoversi e agire in società. Non era un cruccio, era una rottura di scatole. Il mio cos’ero in quel momento era provvisorio, poteva cambiare da un giorno all’altro, dipendeva dal vento e dalla mia pazienza. Il cosa non mi ha mai preoccupata, oggi meno di sempre.

Quand’ero adolescente, invece, mi sono infognata sulla questione dell’essere, ovvero: chi sono? Questo non è affatto un dettaglio, è uno stato che per poterlo modificato ti ci vuole un po’. Peggiorarlo si fa relativamente presto, migliorarlo potrebbe non bastare una vita. Siccome volevo fare un miliardo di cose, e se non ti ci metti determinata e focalizzata non combini nulla, decisi che volevo essere me. L’ideale sarebbe stato essere il meglio di me, ovvio, ma non è che ti puoi vivere al 10% senza poi pagarne le conseguenze e le conseguenze le si paga sempre. Già allora lo avevo capito.

Fatti due conti, sono trent’anni che curo il mio personal branding, che ha a che fare con una certa idea e un certo intento, e non penso più da molti anni se sia la cosa più furba o quella più comoda, quella più idiota o quella più impegnativa. Non ci penso perché non mi piace perdere tempo. Non serve a niente capire quanto io sia intelligente o scema, importa solo dove sto andando e quali sono i miei attuali mezzi per sperare di raggiungere la meta.

Il brand è questione di pancia, non di calcolo. Le forme che il brand può prendere sono frutto di tecnica – bilanciamento degli elementi e armonia – e scegliere la forma che parla davvero di te può non essere la cosa più semplice del mondo, ma ce la si può fare. La menzogna, invece, quella può avere forme stratosferiche, ma una volta che la indossi ti divora.

Il pubblico lo sa, lo sente. L’anima del brand attira anime affini, questo bisognerebbe ricordarlo e bisognerebbe dargli il giusto peso perché le conseguenze arrivano sempre. Puntuali e spietate.

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(427) Mancanza

La velocità d’abituarsi al lusso (fosse anche un piccolo lusso) è immensamente più alta rispetto a quella d’abituarsi ad una mancanza (anche piccola). Sembra ovvio, ma può non esserlo nella pratica, soprattutto quando è il nostro benessere a crescere e assieme a lui la nostra noncuranza.

Una cosa, però, ho imparato in questi miei anni ed è qualcosa che mi ha messo fortemente in crisi, ovvero: quando per lungo tempo vivi con una mancanza, quando l’hai addomesticata, quando le hai tolto potere, quando l’hai tradotta in un semplice e piccolo vuoto… a quel punto capisci che puoi farne a meno.

Se puoi farne a meno, ed è un dato di fatto visto che sei sopravvissuta, allora significa che forse quella mancanza non pregiudica la tua esistenza (e questo è un bene), ma piuttosto pregiudica la tua felicità (e questo è anche un bene, perché la felicità è sempre un bene) e se reputi che quella felicità sia giusta per te allora sarebbe bene che tu la recuperassi.

Dato per scontato che ogni Essere Vivente ha il diritto sacrosanto alla felicità, allora bisogna anche valutare che la felicità può assumere diverse forme e un numero smisurato di colori. Ci sono felicità sane e felicità meno sane, altre proprio avariate, e la cosa che dovremmo fare – quella più intelligente – sarebbe prenderci cura della nostra idea di felicità.

Cos’è che ci rende felici? Perché? Già rispondere a queste due domande potrebbe risolverci la vita.

La pienezza della felicità non tiene conto delle mancanze, ma delle presenze. Ecco cosa voglio ricordarmi ogni giorno finché avrò respiro: le presenze, non le mancanze.

Ce la farò?

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(409) Pacemaker

Regolare il passo, è un concetto che mi affascina. Fossi capace di regolare il mio passo non mi troverei semprea altrove rispetto al passo che sto facendo. E no, non è una cosa che riesco a spiegare, è soltanto quello che è. Non ci posso fare niente, non riesco a stare al passo con me stessa. Amen. 

Però, regolare il passo sarebbe la soluzione a tutto. Non so da che parte si cominci, se qualcuno lo sapesse e me lo volesse far sapere mi farebbe un gran favore, ma la cosa importante, per ora, è rendermi conto che esiste una via e che questa via si chiama “regolare il passo” tradotto “pacemaker” (in inglese fa più figo, come al solito).

Regolare ha valore di “gestire”, cioé calibrare le energie, l’attenzione, le forze ecc. ecc. ed è sicuramente il modo giusto per fare le cose, soltanto che nel mio quotidiano le cose non seguono la programmazione, vanno come vogliono e senza criterio. Ho speso anni a cercare di domarle, nessun risultato. In questi ultimi mesi (più che altro per sfinimento) mi sono arresa: “Fa un po’ quel cazzo che te pare!” – per dirla alla Osho. E comunque le cose accadono, si sviluppano, crescono e si sistemano da sé. Anche senza il mio controllo, senza la mia programmazione, senza la mia resistenza alle catastrofi. Questa cosa mi sconvolge.

Dando per scontato che il controllo che ho sempre cercato di mantenere è totalmente ininfluente e rasenta il ridicolo, a questo punto una gestione del passo potrebbe essere quella santa via di mezzo che tanto aspettavo. Seppur forte di questa nuova presa di coscienza, però, sto sempre ferma sul: da dove si comincia?

Perché non è che fermo il mondo, sistemo il passo e poi lo rimetto in moto. Non credo sia una cosa alla mia portata. Quindi, ragionando, dovrei scoprire qual è il passo del mondo e adeguarmici. Non funziona, anche se mi ci mettessi di buona lena lo perderei dopo un nanosecondo, perché non è il mio. Cosa rimane da fare? Lo ignoro bellamente.

Le teorie stanno a mille  e la realtà se la ride, a mie spese ovviamente. Senza fare troppo la Will il coyote della situazione, vorrei comunque trovare il sistema più alla mia portata per regolamentare l’afflusso di sangue al cuore e al cervello (po’racci) perché ho come la sensazione che così non possa durare a lungo.

Forse un po’ me la tiro addosso, è sempre andata così e non vedo perché adesso dovrebbe essere diverso. Forse certe riflessioni fanno più male che bene. Forse preoccuparsi del fatto che non c’è una soluzione non è troppo intelligente. Forse non posso pretendere troppo da me. Forse è meglio che me ne vada a letto, la mancanza di sonno mi è deleteria.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

 

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(117) Buongusto

buongusto (o buon gusto) s. m. [grafia unita di buon gusto], solo al sing. – 1. [attitudine a gustare ed apprezzare le cose belle] ≈ classe, eleganza, finezza, gusto, raffinatezza, ricercatezza, stile. 2. [capacità di valutare l’opportunità di azioni e parole] ≈ accortezza, buonsenso, delicatezza, discrezione, garbo, sensibilità, tatto. ‖ intelligenza, perspicacia.

Ho voluto andare a cercare nella Treccani il significato preciso, perché volevo rileggermelo e farmelo scivolare dentro. Ne avevo bisogno.

Non frega nulla a nessuno, evidentemente, ma essere in balìa di persone che ignorano totalmente l’importanza di questo termine e l’enorme valore aggiunto che un Essere Umano acquista quando gli si attiene… mi rende furibonda.

Se l’eleganza, la finezza, lo stile, sono doti naturali – e poco le puoi inculcare in chi è tagliato grosso – l’accortezza, il buonsenso, la delicatezza, la sensibilità, il garbo si possono insegnare. Rientra nell’ambito dell’educazione.

Il buongusto ci fa fermare un secondo prima di diventare fastidiosi, molesti, fuori luogo, indisponenti, cafoni e anche teste di cavolo. Un passo prima. Ti fermi, valuti la circostanza e ti tiri indietro.

Questa accortezza ti rende un amabile Essere Umano con cui aver a che fare. Non sto parlando di essere buoni, quella è cosa dei santi, sto parlando di buongusto. Fa parte dell’amor proprio, di quel sentimento che se lo calpesti ti fa vergognare di esserti lasciato andare e esserti comportato da buzzurro, cafone, troglodita, idiota e testa di cavolo.

Ti fermi prima, giusto un passo prima, perché ti vergogni di mostrarti per quel che sei e decidi di dare al mondo la parte migliore di te.

Ecco. Lo possiamo fare tutti. Basta fermarci un misero passo prima. Non è mentire, è gestirsi con accortezza. Rendersi odiosi non è una scelta intelligente, neppure per un troglodita testa di cavolo.

 

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(80) Pagliacci

Tristezza. Tristezza. Tristezza.

Sant’Iddio quanta tristezza c’è dentro un pagliaccio. Insopportabile. Far ridere gli altri è una maledizione che ti prendi addosso perché pensi che solo così potrai essere amato. Ho sempre pensato questo, dal Circo di Moira Orfei (le tre volte che mi ci hanno portata da piccola, poi mi sono rifiutata) al cinema di Fellini e oltre. Nemmeno le “Opinioni di un clown” mi hanno aiutato granché ad ampliare la visuale sulla questione, se devo dirla tutta, o il saggio di Tristam Remy o Slava Polunin. No.

Sì, perché mi sono documentata prima di cristallizzare la mia posizione, mica le sparo così tanto per dire. Eh!

[No, non parlo di IT perché è fuori tema]

Ecco. Ho cambiato idea. Oggi ho visto dei clown far sorridere dei bambini, e di solito li fanno sorridere quando sono in ospedale e stanno malissimo, bambini che anche se con problemi seri non sono messi a paranoie come lo ero io alla loro età – evidentemente, e i bambini quando sorridono sono belli da togliere il respiro.

La lezione? Non prendere mai troppo sul serio quello che pensi. Non è mai definitivo, e spesso non è neppure granché intelligente.

Amen.

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(79) Opportunità

Non mi è mai successo che una buona opportunità mi cadesse in testa come una benedizione. Credo di non essere stata programmata per le botte di culo. Non dico che così si parte in svantaggio… anzi, sì, lo dico.

Senza voler dare colpa a chicchessia (non ho saputo resistere, lo dovevo usare per forza “chicchessia”), affermo pubblicamente che partire in svantaggio se c’è bel tempo ti passa via come fatto ineluttabile di cui non curarsi. Se piove, t’incazzi. Se piove e tira vento, di più. Se c’è nevischio e il vento è un’impietosa bora, non sei a rischio tu ma chi ti capita vicino se su di lui c’è bel tempo.

Detto questo, ho imparato presto che o le opportunità te le vai a cercare o non busseranno alla tua porta solo perché sei bella, intelligente e creativa* (ma anche se non lo fossi sarebbe lo stesso, è la programmazione alla casa madre che ti preclude vie agili e felici).

Sta di fatto che il casino è anche nel saper valutare quale sia in concreto una reale opportunità e quale una fregatura. Ecco, qui è questione di esperienza. Uno l’esperienza se la fa a suon di fregature, mica di belle opportunità. Capito il gioco?

Sì, ritornare alla casa madre l’articolo difettato sarebbe la cosa più saggia da fare, ma che garanzie di sostituzione ci hanno offerto? Parliamone: non sono pronta a trasformarmi in uno scarafaggio.

I would prefer not to.

*No, non sono bella né intelligente. Solo creativa, e non sempre.

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