(617) Studiare

Una cosa che mi manca davvero è prendere in mano un libro per studiare. Sono mesi che non riesco a farlo, mi manca. Mi manca lo stupore che mi prende ogni volta che incontro qualcosa che non conoscevo, specialmente quando lo incontro dentro un libro dove mi viene spiegato il cosa, il come, il quando, il dove, il perché… mi manca.

Solitamente prima di andare a letto mi leggo qualche pagina, ma ultimamente sono così stanca che non arrivo neppure alla fine della prima pagina. Crollo, letteralmente.

Quando dovevo studiare, dovevo impegnarmi, dovevo obbligarmi a imparare, dovevo memorizzare per affrontare un esame, era tutto pesante e mortificante. Quel dovere non mi ha mai dato la gioia dell’imparare, un vero peccato. Quando cominciai a scegliere le cose che volevo imparare, che volevo capire e volevo ricordare, cambiò tutto. La soddisfazione di assistere alla crescita della mia capacità di comprendere e di vedere e sentire e gustare meglio quello che mi circonda, non ha prezzo. Necessita molta di energia e lucidità, la stanchezza devastante non aiuta.

Se mi leggesse ora un mio vecchio prof delle superiori forse si stupirebbe. Segno che di me non hanno mai capito niente, non gliene è mai importato nulla di capire (né me, né la maggior parte dei miei compagni), capita a scuola molto spesso. E se guardo la pila di libri che devo ancora leggere mi vengono le vertigini. Riuscirò a capire tutto quello che c’è lì dentro? Riuscirò a ricordarmelo?

Ecco, queste ultime due domande sono il frutto della paranoia che proprio a scuola mi è stata inculcata: sarò abbastanza intelligente da approcciare questo argomento e capire di cosa si tratta? In poche parole sto ancora combattendo contro quel mostro disumano che in anni di scuola mi hanno aiutato a costruire e che ancora mi spaventa.

Ogni libro letto, ogni pezzettino di conoscenza acquisito è una vittoria per me. Butto al tappeto il mostro e sorrido. Quasi quasi mi metterei dieci e lode.

Una pacca sulla spalla, un “Brava Babs, well done!”, basta poco per riprendersi in mano, no?

 

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(616) Giotto

Disegnare una perfetta circonferenza senza bisogno del compasso. Questo sapeva fare Giotto, fin da piccolo. Credo sia quello che io sto cercando di fare con la mia vita, fin da piccola. La similitudine si conclude qui.

Se faccio una cosa tento di farla al meglio, dev’essere bella oltre che utile. Nove volte su dieci fallisco, non è mai bella quanto mi immaginavo né utile così come avrei voluto. Non importa, sarà per la prossima volta.

Eh! Magari. Magari riuscissi ad asciugarmela così, la prossima volta, pazienza. Naaaaaaa. Io ci rimurgino, mi mortifico, mi autoflagello, e dopo aaaaaaaaaaaaanni (forse) dimentico. Mai totalmente, solo quel tanto per rendere le cose un po’ più confuse e le recriminazioni un po’ meno fondate. Stemperato dalla memoria, il ricordo lascia spazio a giustificazioni e aggiustamenti, così diventa più sopportabile.

No, non sto parlando di grandi fallimenti, ma anche di cose piccole. Davvero, dico sul serio, anche una cosa che nessuno si potrebbe mai ricordare – ma io sì – e di cui tutto il mondo se ne frega – ma io no – per me diventa motivo di martirio. Qualcosa in me non funziona come dovrebbe, non so cosa, ma è evidente.  Riesco a rendermi la vita un inferno per ragioni inesistenti… ma perché?!

Forse l’ambizione di essere una Giotto contemporanea è un pretesto per darmi le martellate sulle nocche… cavoli. Fosse così sarebbe terrificante.

Non voglio saperlo, voglio solo concentrarmi sul fatto che la circonferenza perfetta a mano libera è l’estrema Bellezza. Un viaggio del tratto che si compie senza incidenti, senza impedimenti, senza indecisioni. Il tempo di un respiro, neppure troppo lento, e lì sotto ai tuoi occhi, sotto la punta della matita… la Meraviglia.

Diamo per scontato che incidenti, impedimenti, indecisioni e vari casini sparsi stanno facendo del cerchio della mia vita una cosa ben poco perfetta e non del tutto bella. Diamo per scontato che se riuscirò a riportarmi nel punto in cui tutto è iniziato, molto probabilmente, non me ne accorgerò neppure. Diamo per scontato che mi gestirò ogni respiro in modo scellerato – apnee, rantoli, singhiozzi e quant’altro – e avrò sempre troppo poco fiato o talmente tanto da andare in iperventilazione e schiantarmi a terra.

Va bene, ma almeno le buone intenzioni le ho mantenute. Non era affatto scontato. Per niente proprio.

 

 

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(615) Esperimento

Oggi mi sono guardata come se fossi una sorta di esperimento vivente. Non so come mi è venuta ‘sta idea, ma è stato interessante. Mi sono domandata: ma sono un esperimento riuscito o fallito? Ancora non ho trovato una risposta.

Ho sempre praticato l’attraversamento delle esperienze come metodo di apprendimento, a volte potevo anche risparmiarmelo ma quando si è giovani le forze non mancano e neppure la presunzione di poter affrontare tutto e comunque uscirne senza troppi danni. I danni non li percepisci subito tutti, escono in superficie un po’ per volta, magari quando attraversi un’esperienza analoga e ti ritrovi menomato, non integro, ed è una brutta scoperta. Una scoperta che ti toglie le forze e, soprattutto, la fiducia in te stesso.

Fatto sta che, seppur danneggiata, sono ancora in funzione, suppongo che l’esperimento in questo senso sia riuscito. Temo di essermela cavata per un soffio, ho detto addio a ogni illusione di forza e prestanza e mi sono sistemata su valori medi. Non vale la teoria del è-intelligente-ma-non-si-impegna-abbastanza con cui a scuola mi hanno martellato, bensì non-è-abbastanza-intelligente-ma-non-difetta-di-impegno, e nel cambio ci guadagno anche.

I test non sono ancora finiti, temo non finiranno mai, e i risultati cambiano di giorno in giorno con feedback altalenanti e ben pochi colpi di culo. Ho dalla mia ancora un paio di chili di motivazione (sparsa in giro) e sto cercando di farmela durare. Devo trovare al più presto un distributore, non durerà a lungo.

Vabbé, fine rapporto esperimento B72.

Passo e chiudo.

 

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(614) Affanno

Non lo so, non so perché non riesco a rallentare o se ci riesco mi passa la voglia dopo dieci secondi netti. Pensare è un boomerang, bisognerebbe evitarlo. Dico sul serio. Solo che se sei predisposto al pensiero, non puoi mica smettere di praticarlo soltanto perché hai scoperto che non ti conviene. Diventa una croce che ti porti appresso per l’Eternità.

Ora che mi sono sfogata vediamo se riesco a tirare fuori qualcosa di sensato da questo argomento: non era previsto, m’è uscito così e senza valutare bene la portata della cosa ho deciso di scriverci sopra. Senza pensarci, tanto per intenderci. E già qui la contraddizione. Lo so.

Riportando il discorso sul topic del titolo, posso ammettere serenamente che ce l’ho da sempre. Ho sempre l’affanno. Rincorro sempre qualcosa, non qualcuno, o perlomeno quel qualcuno alla fin fine sono sempre io. Io che rincorro me stessa mentre mi obbligo a fare delle cose che se non le facessi avrei troppo tempo libero e inizierei a pensare pensare pensare – che non mi fa bene affatto.

I miei pensieri istintivi sono distruttivi. Quando mi impongo pensieri costruttivi è per uno scopo: compiere qualcosa. Mi viene facile:

           idea => progetto => realizzazione => nuova idea => nuovo progetto  => nuova realizzazione e via di questo passo.

Ormai lo so come si fa e lo faccio, semplice. Se, invece, decido di prendermi un weekend per riposarmi – e quindi non pensare in modo costruttivo – ecco che vengo presa d’assalto dai pensieri distruttivi. Che non sono soltanto distruttivi, sono proprio D-I-S-T-R-U-T-T-I-V-I. Rafforzando la grafia spero di aver reso l’idea.

Lo so, ce li hanno tutti e bla-bla-bla-bla, ma non è che questo mi sollevi dal marasma o che mi crogioli nel mal-comune-mezzo-gaudio!

Se questi Carterpillar trovano spazio, in poche ore sono ridotta a uno straccio. Inzio a mettere in discussione tutto quello che mi riguarda: da cima a fondo, da dentro a fuori, dall’anno 0 fino a oggi. Non rimane nulla se non macerie. Non lo auguro a nessuno, davvero. Quindi i consigli degli amici – che lo so che mi vogliono bene ma ignorano l’esistenza di questa mia nevrosi – che iniziano con un innocuo rilassati-e-non-pensare-a-niente, mi provocano una sorte di affanno che non so neppure descrivere.

Va bene, credo di aver capito, se la soluzione è tenermi impegnata, non devo far altro che mettere in atto la strategia e mantenermi impegnata.

“Ok, Houston, forse possiamo tenere sotto controllo il problema. Passo e chiudo.” 

I’ll sleep when I’m dead (cit. Bon Jovi)

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(612) Pretesa

Una cosa subdola, si fa fatica a riconoscere la propria perché ci mette davanti a un dato di fatto: meriteremmo un bel calcio in culo.

Il Buddhismo ci consiglia di lasciare andare le aspettative, in questo modo ci avviciniamo al Nirvana. Sono anni che ci penso, anni che mi trovo talmente lontana da questo concetto da dubitare di averlo compreso veramente. Dal mio dubbio sono risalita alla sorgente e – sono ancora in marcia, la strada è lunga – in questa mia tappa odierna (le illuminazioni arrivano quando vogliono loro, mica quando decidi tu) sono riuscita ad afferrare questa parola: pretesa.

Mollare la pretesa che soltanto perché esisti il mondo debba essertene grato, tanto per iniziare.

Non c’è niente da fare, ci ricaschiamo ciclicamente. E mentre combattiamo, come-devono-andare-le-cose VS come-noi-pretendiamo-che-vadano-le-cose, si compie il nostro Destino.

La sostanza è questa: l’avere aspettative, l’attendersi qualcosa, è il carburante che ci permette di muoverci per soddisfarle. Questa cosa delle aspettative a me è necessaria, non mi piace perdere tempo, fare le cose senza aspettarmi niente non me le fa fare bene, le faccio come vuoto-a-perdere. Va al di là delle mie forze. Quello, invece, che devo e posso smettere di fare è alimentare ‘sta maledetta pretesa che le cose saranno e andranno come voglio io perché… perché sono io che le voglio, ovvio!

Nessuno è disposto ad ammetterlo, ma ce lo dobbiamo mettere in testa tutti che le pretese sono arroganti, sono fastidiose per chiunque ci stia attorno e sono mortificanti. Più spingi le cose dove vuoi tu e più vanno dove cavolo ne hanno voglia. Forse perché non pensano che tu sia il massimo della vita, e come dare loro torto?

Va bene, mettiamo il caso che non stiamo avendo ciò che ci meritiamo, ma se ci fosse in serbo per noi qualcosa di meglio perché buttarlo? E soprattutto: ma siamo proprio sicuri che ce lo meritiamo? Ma daverodavero?

A me un dubbio rimane. Fare di più, spesso, non guasta.

 

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(611) Giugno

Stasera scriverò qualcosa di assolutamente inutile. Qualcosa che è stato pensato ed è stato eseguito con l’intenzione di dire niente, di servire a niente, di far perdere tempo a chi si fermasse a leggermi anche solo per caso.

Bene. Dopo questa premessa la maggior parte delle persone che transita da qui se ne sarà andata. Qualcun altro, pochi, no. Perché? Perché penseranno che non può essere così come è stato affermato, è un modo per rompere il ghiaccio, ma poi qualcosa sicuramente ci sarà per cui varrà la pena restare.

Ecco, ho appena messo in scena uno dei grandi misteri della mente umana: me lo dichiari apertamente e io non ti credo. La politica nostrana, e non solo, è piena di casi del genere, ma anche la mia modesta esistenza – a dirla tutta. Siamo Esseri molto meno intelligenti di quello che ci raccontiamo, bisognerebbe che ce ne rendessimo conto una buona volta.

Vabbé, visto che la mia affermazione è esattamente così come la realtà dei fatti dimostrerà, vorrei far notare il titolo di questo post: giugno. Inutile, vero? Ma ancora non siete convinti. Ancora c’è un dubbio e quindi state ancora qui a leggermi. Solo per questo vi meritate tutto il mio bene, siete persone belle, persone che vogliono credere nei colpi di scena positivi. Vi stimo.

Se ora concludessi il mio post dicendo qualcosa di utile, però, verrei meno alla premessa/promessa e finirei col dare ragione a quel meccanismo mentale idiota che fa di noi tanti poveri illusi e… non me lo posso permettere. Mi dispiace.

Quindi vi auguro buonanotte, nella speranza che mi possiate perdonare.

Grazie (per davvero).

 

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(610) Verosimiglianza

Il massimo a cui si può ambire, il massimo che ci si può augurare, è una vita il più possibile verosimile. Punto.

Dopo una giornata estenuante, in procinto di buttarmi a letto sperando che l’insonnia mi ignori, m’è venuto in mente ‘sto concetto che sembra un aforisma e che molto probabilmente è il risultato del mio vissuto nelle ultime diciasette vite – tutte debitamente archiviate ma ancora simultaneamente presenti nel mio sub-subconscio (con tutta probabilità).

Sì, a volte stupisco pure me stessa per queste uscite che stanno a metà tra il genio e l’insensatezza – un limbo battezzato: IdiozieSopraffine. Cose come questa mi escono perché in qualche modo sono state pensate e digerite, quindi non posso che ripercorrerle a ritroso finché ne scopro l’origine. Stasera non je la posso fa’, quindi azzardo un’ipotesi tanto per non mancare di coraggio.

Sono quello che faccio e che non faccio. E quello che faccio e non faccio è il risultato di un pensiero che mi nasce, che seguo e che supporto fino a farlo diventare realtà. Mi conviene essere plausibile/credibile/attendibile o il castello di fandonie mi cadrà addosso, seppellendomi, al minimo cedimento strutturale.

Avere l’apparenza di vero non significa bluffare, se è vero che il Vero è condizione puramente soggettiva. L’apparenza verosimile se poggia sul nulla si sgretola. Una verosimiglianza onorevole è un’ambizione non perfezionata che parte da buone intenzioni. Questo basta, secondo me. Basta per gli altri ai miei occhi e basta per me agli occhi degli altri. Deve bastare.

Però, santiddio, se non sei bravo a costruire verosimiglianze solide meriti ti essere seppellito dal tuo stesso inganno. Ognuno ha il guadagno che si merita, o così dovrebbe essere.

Meglio di così non so fare. Ho dato il meglio di me (sigh) tra parole e pause. Verosimilmente lo posso imputare alla stanchezza, ma vi permetto di dubitarne. Questo sì. Sempre.

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(609) Preferire

Preferisco tacere quando sono veramente incazzata. Preferisco tacere anche quando sono fortemente in disaccordo, farmi passare i primi 10 minuti di furore e poi tradurre più serenamente il mio disaccordo in modo che risulti il più civile possibile. 

Preferisco il silenzio alla musica mediocre, perché anche se è mediocre quando mi entra in testa non c’è verso di farla uscire – per ore intere. Preferisco qualsiasi musica a tutti i silenzi branditi come armi di distruzione. Preferisco la musica che posso cantare e preferisco il mio silenzio a quello degli altri.

Preferisco guidare che fare da viaggiatore a traino. Preferisco volare piuttosto che camminare, per questo mi sarebbe piaciuto prendere il brevetto di volo o lanciarmi col paracadute – non c’entra niente, lo so, o forse sì.

Preferisco preferire qualcosa o qualcuno anziché farmi piacere tutto o non farmi piacere niente. Scegliere mi viene facile, non scegliere è un’agonia che cedo volentieri. Male che vada ho scelto male, pazienza, vedrò di rimediare in qualche modo.

Preferisco non soffermarmi sulle cose che mi danno fastidio, ma faccio fatica a dimenticarmele. Ho una sorta di spugna in testa che non rilascia un cavolo e continua ad assorbire assorbire assorbire. Ha una tenuta sorprendente e sono terrorizzata dalla possibilità che a un certo punto rilascerà le parti che non vorrei dimenticare per lasciarmi sola con le cose che dovrei dimenticare. Sì, avrei bisogno di uno psicoterapeuta in gamba, lo so.

Preferisco star qui a scrivere le mie idiozie e far finta che un giorno qualcuno le leggerà, che guardare la televisione – qualsiasi canale, qualsiasi programma, qualsiasi faccia vi compaia in qualsivoglia orario diurno o notturno. Preferisco leggermi un buon libro e rinunciare a un’uscita con la persona sbagliata – il tempo è un privilegio che non va ingannato.

Preferisco parlarmi chiaro per evitare di eludere concetti che poi mi chiederanno il conto, conto sempre salato. Preferisco, spesso, pagare un conto molto salato pur di arrivare alla verità oggettiva, perché della mia versione strettamente soggettiva – utile com’è – solitamente non so che farmene.

La lista potrebbe continuare, ma sto crollando sulla tastiera per sfinimento neuronale. Buonanotte.

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(608) Ritardo

“Sono in ritardo-sono in ritardo-sono in ritardo… “, questa è la vocina dentro la mia testa che mi accompagna da anni ormai. Devo essere imparentata in qualche modo con il Bianconiglio, non c’è altra spiegazione. Sì, perché nella realtà dei fatti io sono quella che a ogni appuntamento arriva almeno un quarto d’ora prima dell’orario stabilito. Quindi in quel senso non sono mai in ritardo.

Allargando leggermente lo sguardo, però, e sublimando il concetto, posso chiaramente verificare quanto io sia dannatamente in ritardo rispetto a una tabella di marcia basic per quelli della mia età. Non è un semplice ritardo, è un ritardo spaventoso. Davvero spaventoso, senza scherzi né eufemismi. 

La mia testa ragiona ancora come se io fossi nei miei venti, come se il tempo che mi rimane – virtualmente parlando – non fosse un problema, come se ci fosse ancora tutto l’agio possibile per realizzare quello che voglio… follia. La vocina-Bianconiglia ha ragione: SONO-IN-RITARDO!

E non è un ritardo che si recupera, non è un ritardo che si colma con altro, non è un ritardo che passa inosservato (soprattutto). Per il 90% delle cose che non ho realizzato e che non realizzerò me la sono messa via, ma l’ultimo 10% non mi va giù. Me la sto ancora raccontando che tutto è possibile. Patetica, lo so, ma nel paese delle meraviglie funziona così. Lì non ci sono parametri rigidi, a cominciare dal non-compleanno, il relativismo ha preso possesso di quella realtà e tutto procede alla grande.

Se il mio ritardo fosse spedibile in un altrove interessante, forse si dimenticherebbe di me e la vocina sparirebbe. Non lo so, so solo che sono in ritardo-sono in ritardo-sono in ritardo…

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(607) Nonchalance

Dovrei prendere certe cose con distacco. Dovrei. Ma non ci riesco. Eppure sono una persona pacifica, tranquilla, paziente, controllata… o almeno mi sono sempre considerata così.

Eppure se guardo ai fatti, a quanto poco tollerante e controllata riesco a essere quando mi toccano questioni per me cruciali, va a finire che non lo sono. Mi sbalordisce ‘sta cosa. Quando ho cominciato a non essere più pacifica-tranquilla-paziente-controllata? Lo ignoro.

Come può un punto e virgola messo da qualcuno al posto dei due punti scatenare il putiferio dentro di me? Ignoro anche questo.

Il tipo che oggi in tangenziale si è attaccato al baule della mia auto bestemmiandomi contro e facendomi i fari perché voleva passare – eravamo obbligati alla coda e facevamo i 70 all’ora – è pur sempre un mio simile, no? L’ho fatto passare e poi l’ho visto inchiodare cinque metri da me perché un camioncino gli aveva tagliato la strada costringendolo a rallentare ulteriormente, ed è lì che ho pensato che il karma istantaneo è di fatto una meraviglia. Ho riso di gusto, non sono riuscita a impedirmelo.

Reagire con distacco, elargire freddezza anziché sguardi fulminanti è un atteggiamento adulto, elegante, no? Sì, ma non ci riesco. Ascoltare un comizio politico che rasenta il folle, da parte di un decerebrato che pensa di essere il fenomeno della situazione, per la maggior parte delle persone è tollerabile quel tanto da cambiare canale e non pensarci più. Ecco, per me no, io mi costruisco un discorso di opposizione suddiviso in paragrafi e capitoli – tutto nella mia testa – e finché non ho scritto il finale non sono contenta.

Sospetto di non essere così normale come mi sono valutata negli ultimi quaranta-e-rotti-anni. Forse dovrei preoccuparmi.

Valuterò e mi farò sapere.

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(606) Goal

Mai vinto davvero una partita, lo so, ma ho fatto tanti goal. Mai abbastanza, lo so, ma ne ho fatti tanti e pure belli. Quelli che te li riguarderesti mille volte perché sono il frutto di una strategia, di un disegno fatto per bene. Giusto che lo tenga presente, di tanto in tanto, altrimenti mi sembra che il tempo trascorso non sia servito a niente.

La grande ambizione, com’è ovvio che sia, è quella di poter vincere una partita, almeno una volta. Una tripletta coi controfiocchi, vittoria clamorosa e… adios, mi riposo per un po’. Sì, mi piacerebbe.

E lo so che ci sono campioni e poi ci sono io, lo so. So anche che ci sono partite facili, in cui manco mi ci metto, e partite quasi impossibili – le mie preferite, c’è da dirlo? – quindi non è che se non vinco è perché sono proprio una schiappa… è che alzando il tiro, magari manchi la porta proprio quando quel punto ti farebbe portare a casa la vittoria, e se perdi una partita così tosta sai che puoi sempre dare la colpa alla sfortuna (anche se la sfortuna non ne ha alcuna di colpa).

No, al momento non sono intenzionata a mollare. Sto aspettando l’occasione giusta per giocarmi tutto, ogni grammo di energia rimasta, e vedere come va a finire. Devo ammettere che non mi aspettavo di arrivare fino a questo punto e, un senso, questa lentezza perversa ce l’ha. Pazienza non ne ho più molta, forse anche questo potrebbe giocare a mio favore al momento opportuno. Ci sono cose da completare, percorsi da compiere, progetti da realizzare.

Ma che scherzi? Sono qui per questo.*** [cit. G.P.]

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(605) Team

Credo sia arrivato il momento per me di riflettere su quello che è stato il percorso professionale più shakerante della mia vita fino a ora – e spero sia una strada che continuerà per qualche tempo almeno. Mi è indispensabile ogni tanto fare il punto della situazione, le cose sono sempre tante e sempre complicate perché se le vuoi conoscere a fondo non ti puoi accontentare di quello che ti passa sotto il naso.

Lavorare assieme agli altri comporta rischi e dolori imprevisti perché l’Essere Umano è imprevedibile e come tale è un rischio per se stesso e per chi gli sta attorno. Alcuni rischi si esplicitano in eventi concreti e questi possono causare dolore, dolore tangibile e non semplici paranoie autocommiseranti. Per molti anni ho incontrato altri Esseri Umani raggruppati per interessi comuni, non ne sono mai uscita bene, e questo è un dato di fatto: la mia vulnerabilità – per la maggior parte del tempo dissimulata con successo – è la mia peggiore nemica.

Non parlo di sensibilità, sensibili lo siamo tutti, ma di vulnerabilità e non tutti sono vulnerabili anche quando sono molto sensibili. Non sono sinonimi, sono due condizioni che si possono vicendevolmente accompagnare ma che non necessariamente sono legate tra di loro.

La vulnerabilità di ciascuno di noi fa capo al sentimento che nutriamo nei nostri confronti – ognuno nel suo intimo – e questo sentire può essere camuffato in talmente tanti modi diversi da non farsi trovare se non siamo ben motivati a scoprirlo. Il salto nel buio è evidente: come faccio a maneggiare quello che andrò a scoprire? Ecco, se ci penso mi viene già l’ansia. Esatto.

La cosa più spaventosa, però, è che non arriverai mai al nocciolo della questione se non ti metti in rapporto diretto con gli altri e no, non con un Essere Umano per volta, bensì con un gruppo di persone e tutte insieme. Devi immergerti nel caos emozionale di più Esseri Umani che entrano in collisione e che fanno scintille, ed essere devastato a sufficienza per scoprire che cosa in realtà senti per te stesso.

Il punto è chiaro: se il giudizio che pesa su di te arriva dal mondo esterno, ma questo giudizio tu non lo condividi, non ne verrai detronizzato. Se chi ti sta attorno ha un giudizio su di te duro che entra in risonanza con quello che tu stesso pensi di te – magari inconsciamente – allora il dolore e lo smarrimento e la rabbia e la frustrazione avranno la meglio. Potresti sbriciolarti, sappilo.

Lavorare in team è un’esperienza incredibile, ma se non sei disposto ad andare in fondo a te stesso per scoprire che sentimento nutri nei tuoi confronti, lascia stare perché se non ti offri onestamente non meriti onestà e il team potrebbe diventare un inferno.

Sono felice di essere riuscita a guardare nel mio abisso… in tutta sincerità pensavo fosse peggio.

Eh.

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(604) Competenze

Ne hanno tutti. Diverse e diversificate, molto probabilmente. Basic o Pro, ovviamente. Sarebbe bello andare oltre, però. Oggettivamente parlando qualsiasi persona portatrice sana di buona volontà può imparare, può imparare anche con una certa continuità, può imparare abbastanza bene da poter affermare tranquillamente di aver acquisito una competenza. Una qualsiasi. Just name it…

Quindi fare giù una lista delle proprie competenze potrebbe essere un buon modo per recuperare la stima di noi stessi, quando questa è stata grattata via – pezzo dopo pezzo – con cura encomabile dal mondo che ci circonda.

In tutta sincerità, sono in grado di affermare serenamente che la sfera delle mie competenze è consistente: posso andare dalla preparazione di un toast vegano super delizioso al brusca e striglia di un’auto di superlusso con grande agilità. Sì, non mi ha mai spaventato lo spauracchio del sai-fare-tutto-ma-niente-bene. No, non mi tocca proprio. Dirò di più, posso anche spingermi oltre: per esempio posso ascoltare ore di lagne e lamenti da parte di chiunque trovando sempre parole consolatorie e lasciando in chi si trovasse sull’orlo del baratro un ragionevole dubbio per rimandare il salto dal ponte. Mi viene proprio bene, quasi una dote naturale. Posso anche – a richiesta – prodigarmi in discorsi comparati su svariate tematiche interessanti (dal pedigree di un criceto delle Ande  al colore adatto per una parete rivolta a nord-est-sud-ovest di una cascina vietnamita del primo novecento) con grande dispiegamento di Ars Retorica e compagnia bella. Riuscirei a convincere un orso polare a togliersi la pelliccia argomentando lo scioglimento dei ghiacci come se ne fossi io la causa primaria. Senza che all’orsa venga in mente di sbranarmi. Mi ringrazierebbe anche, garantito.

Se la necessità fosse impellente, potrei imparare a domare un diavolo della Tasmania in una sola notte o surfare su un tappeto persiano nel Deserto di Atacama o, addirittura, misurare con adeguata precisione la velocità tenuta da un picchio canterino mentre attraversa le cascate del Niagara fischiando la sigla dei Muppets senza muovere il becco. Se la necessità lo impone, mi adeguo. Non c’è problema.

Il punto focale di tutte queste grandissime stronzate è che avere le competenze sbagliate quando ci si trova in un contesto o in un altro è un attimo. Puoi mandare a puttane la tua intera esistenza se non sfoderi la competenza giusta per l’occasione. Bisogna pensarci. Bisogna proprio far attenzione ai dettagli, ai segnali che ti possono avvisare in tempo utile che ti stai mettendo in un vicolo cieco e quindi potrebbe essere il caso di cambiare direzione. Andare altrove. Via, lontano.

E non basta essere proprio una brava persona – come mi hanno insegnato per tutta la prima parte della mia vita – aiuta te e chi ti sta attorno, ma potrebbe anche essere un boomerang che se non lo prendi al volo ti fa lo scalpo.

Eppure essere una brava persona ti permette di presentarti a testa alta – sguardo senza cedimenti, voce ferma – davanti a qualsiasi altro Essere Umano e in qualsiasi situazione si debba affrontare. Una brava persona ha competenze eccezionali, che riguardano la cura, l’ascolto, la capacità di esserci, la generosità di dare e darsi soltanto perché così si fa e così va bene. Competenze eccezionali, ripeto, che non metti in mostra nel tuo patetico CV, che non indossi soltanto quando vuoi fare buona impressione, che non ostenti per suscitare ammirazione e invidia, che non butti in faccia a nessuno per un misero tornaconto personale.

Non me ne frega niente se sei migliore di me, metto volentieri da parte le mie competenze per farti spazio, onore al merito – ci mancherebbe altro. Ma ho acquisito una competenza piuttosto interessante negli ultimi tempi: so mandare al diavolo una persona con una gentilezza e un’eleganza notevole, tanto che manco riesce ad accorgersene. Sono pronta a ogni evenienza, se la necessità intensifica la sua presenza, nessun problema.

Lo voglio dire, però: quando incontro qualcuno, per prima cosa tolgo le mie competenze e le metto in un angolo, poi nella mia testa tolgo le competenze della persona che mi sta di fronte e ripongo tutto nell’angolo opposto. Le dimentico lì per un po’, per quando saranno più utili. Quando incontro qualcuno è la persona che devo incontrare, è lì che mi concentro. Il resto viene dopo. Per il resto c’è sempre tempo, no?

 

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(603) Cromatico

La storia delle sfumature è stata ufficialmente sputtanata da un qualcuno senza rispetto per il buongusto (50 + 50 + 50 = 150 stronzate in 1000 pagine è davvero un record, gliene do atto), quindi inevitabilmente se parlo di colori devo evitare di far riferimenti fuorvianti, ci proverò.

Ogni cosa che mi riguarda è questione cromatica, io che viaggio di bianchi-neri-grigi,  e spesso di neri-e-basta, mi sono scoperta essere piuttosto sensibile ai colori. In certi momenti avere davanti agli occhi un verde acido o un giallo (giallo? GIALLO? Giallo!) mi comporta uno svarione emotivo imbarazzante. 

La percezione visiva dei colori, per me, è un barcamenarmi tra nausee e vertigini che mi offende. Davvero. Cavoli, ma perché? Perché ogni volta che vedo una persona con una t-shirt giallo canarino mi manca l’equilibrio? Una gonna rossa a pois viola, una camicia blu a righe verdi, un cappellino fucsia con elefanti azzurri… non lo so, mi parte l’embolo.

E mi rendo conto di essere un caso patologico, mi rendo conto che non tutti possono girare in stile Morticia Addams, mi rendo conto di tutto, ma…

Il Cielo è azzurro in tutte le varianti possibili ed è sempre una meraviglia…

I boschi, i prati, gli alberi, le piante sanno essere verdi in modo spettacolare e inimitabile…

I fiori, cosa si può dire dei fiori? Ogni gradazione di qualsiasi colore è una gioia e un piccolo stupore per gli occhi e il cuore di chiunque…

I marroni e i beige della terra sanno essere perfetti in ogni luogo del pianeta… 

E l’arcobaleno? Devo proprio commentarlo?

E vogliamo passare alla fauna? I giochi cromatici delle piume degli uccelli e dei loro becchi, i rettili, gli insetti, i mammiferi e gli ovipari… ma dai, siamo seri, non c’è competizione!

Siamo più morigerati nell’uso dei colori, fratelli e sorelle… ve ne prego.

Sigh.

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(602) Rallentare

Si fa presto a dirlo, ma mi è difficile anche solo concepirlo. Non ho tempo per fare tutto e non posso fare meno di così altrimenti non ci sto dentro. Così, in loop. C’è da domandarsi come io ancora non mi sia totalmente fusa. Mi lamento di come son messi i miei neuroni, ma a vederla bene son fin troppo gajardi per come li ho sfruttati in questi anni. Senza ritegno, davvero.

E allora come si fa a rallentare? Cosa devo mollare per poter occuparmi semplicemente di me?

Non lo so, non ho ancora trovato la risposta. So che ci sono vicina, però. Non so quanto ci metterò per fare i metri che mi mancano. So che non posso accelerare e so che devo per forza rallentare. Ma tutto ciò non mi aiuta.

Certo cadere distrutta a letto come se non avessi un domani è piuttosto ridicolo. Non si può neppure sentire che io già alle 22.00 stia cascando dal sonno, che io riesca a malapena a digitare qui due pensieri – per altro patetici al 90% – e che appena toccato il cuscino manco il tempo di spegnere le luce che già non esisto più. Che ne è di quella che stava in piedi tutta notte a scrivere e che carburava a meraviglia appena la luce del sole calava al tramonto? Sparita. Sembra incredibile.

Fatto sta che ho una pila di libri da leggere, libri belli-interessanti-utili, che non accenna a consumarsi perché dopo due pagine devo chiudere e buonanotte. Ma se continuo così non ce la farò mai a leggerli tutti! Sarebbe un disastro! Uno spreco disumano! Noooooooooooooooooooooooooooooooooooo!

Ok, vado a letto, non ce la faccio più.

Domani ci ripenserò a mente fresca. Tra una corsa e l’altra, ovviamente.

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(601) Ostinazione

Come ogni cosa che riguardi l’Animo Umano bisogna andarci cauti. Le parole non sono mai bastanti, bisogna saperle rivoltare come un calzino prima di appoggiarle sopra a un sentimento, a uno stato dell’Essere. Ostinazione, per esempio, può rivelarsi un tratto indispensabile del carattere per una persona che non molla mai e persegue gli obiettivi che si è posto senza farsi fermare da niente e da nessuno. Ostinazione può anche risultare un macigno sullo stomaco per chi non si permette di cambiare e di crescere. 

La mettono come caratteristica del mio segno zodiacale, lo si legge sempre e ovunque: il Toro è ostinato e possessivo, oltre che attaccato alle cose materiali. Ammetto che nella lista ci dovrebbe essere anche permaloso perché a me questo sguardo mi ha sempre offesa. Sono determinata, non ostinata. Curo le persone e le cose che mi stanno a cuore, non penso di possedere nessuno e ho sempre condiviso le mie cose con le persone di cui mi fido. Mi piaccione le cose belle, materiali è vero, ma le metto davvero all’ultimo posto nella classifica delle mie priorità. Il fatto, invece, che sono permalosa non ha sconti.

Una cosa che dà parecchio fastidio di me è la mia assertività – che a volte viene volutamente spinta per provocare crepe interessanti – e anche certe mie posizioni. Francamente, le mie posizioni non sono statiche, tendono a muoversi quando mi rendo conto che si stanno sgretolando perché i conti non mi tornano. So cambiare idea, so ammetterlo e so che è successo, succede e succederà spesso.

In tutto questo, il mio ostinarmi a resistere è davvero estremo. Questo sì. Resisto. Resisto. Resisto. Lo faccio perché non voglio e non intendo darmi altra scelta. L’ostinazione in questo senso è l’unico modo che ho per trattare con me stessa, con la parte pigra e indolente che cerca di trattenermi e di sedare ciò che di vitale ancora c’è dentro di me. Posso anche sembrare sopita, ma è soltanto perché da buon segno di terra i miei tempi sono più allungati, meno forsennati di altri. A volte è un limite, altri è una gran fortuna. Per la maggior parte del tempo è così e basta e non me ne occupo né me ne preoccupo.

Se mi permetto l’ostinazione è per rendere grazie a questa vita ogni giorno, oltre le mie lamentele oltre le mie cadute oltre i miei fastidi oltre oltre oltre oltre… Quindi anziché star qui a farmi un processo preferisco andare a farmi una doccia. Lavo via l’ostinazione della giornata per riposare meglio e domani ne indosserò una nuova. Pulita e vigorosa, perché è meglio attrezzarsi adeguatamente… non si sa mai.

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(600) Idiosincrasia

Detesto quando le persone urlano. Detesto me stessa quando perdo il controllo e mi metto a urlare. Mi succede raramente e – dal mio punto di vista – sempre per una buona ragione. Eppure, quando mi succede non me lo perdono.

Ci sono persone che urlano appena si svegliano al mattino, con chiunque capiti loro attorno, e che smettono di urlare quando si addormentano la sera. Urlano anche quando sono felici, perché un altro tono di voce non ce l’hanno o perché sono sorde e non si rendono conto di quanto stanno gridando anche solo per chiedere mi-passi-il-sale.

I miei vicini di casa fanno così e io sto, mio malgrado, ascoltando ogni dannato scambio verbale che accade in quella casa. Non sono affari miei, ma lo diventano se mi sveglio al mattino con il mal di testa (e non per un post-sbornia) e mi addormento con i tappi nelle orecchie perché di là c’è una riunione di capre urlatrici. State zitte! Zitte! Zitte! Zitteeeee!

La vostra voce a un certo punto ne avrà abbastanza e se ne andrà. Se ne andrà per non ritornare più e avrà la mia benedizione. La vostra voce se ne fotterà di voi, almeno quanto voi ve ne siete fottuti di lei. E io la benedirò.

Non si può buttare addosso agli altri la nostra rabbia, la nostra frustrazione, il nostro veleno, il nostro male di vivere, non si può! E se non si può farlo con gli estranei, figuriamoci con le persone che ci sono vicine, NON si può!

Sei giustificato a urlare solo se tra te e gli altri ci sono chilometri di distanza, solo se si tratta di vita o di morte. Le persone devono essere trattate con gentilezza e la gentilezza non alza mai la voce. Le persone per ascoltarti devono avvicinarsi a te, devono prestare attenzione alle tue parole e ai suoni che le accompagnano e per far sì che accada tu devi permetterglielo mantenendo il volume della tua voce in modalità normal, a volte persino soft. Non puoi sbattere in faccia frasi a 1.000 decibel aspettandoti che vengano ascoltate. La gente, sì, può fare quello che tu le ordini di fare quando glielo urli in faccia – chi non ha il coraggio di darti una testata, almeno – ma l’ascolto è un’altra cosa.

L’ascolto è il risultato di una dinamica delicata che ha origine nella fiducia, cresce nell’interesse, e si espande con l’attenzione.

Vabbé, fiato sprecato. Buonanotte.

 

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(599) Paradosso

Dunque: dopo oltre una quarantina d’anni che mi frequento – la storia d’amore/odio più lunga della mia vita – ancora riesco a sbalordirmi per la quantità imbarazzante di pensieri assurdi che mi passano per la testa.

No, non credo che capiti a tutti e questo potrebbe in qualche modo mettermi in una condizione di dubbio sulla mia santà mentale. Ho bypassato l’ostacolo anni fa quando decisi molto saggiamente che la mia condizione mentale ha il diritto di variare a seconda della stagione, del periodo storico e del mio stato emotivo. Tolto di mezzo ogni giudizio sul mio stato, le cose risultano lo stesso complicate. Come al solito le soluzioni che trovo non sono mai destinate a sollevarmi la vita, tutt’altro.

Ritornando sull’argomento mi trovo in una empasse imbarazzante nei confronti di me stessa perché non riesco a capire se quello che ho capito è realmente qualcosa che dovevo capire esattamente così oppure no. Voglio dire che il mio cervello ha ricevuto delle informazioni – frammentate – che ha sistemato una dopo l’altra e ne sta traendo delle conclusioni. Lecito, ma pericoloso.

Tenendo ora in mano quelle conclusioni mi rendo conto che potrei aver capito male, capito male però perché?

Potrei aver frainteso perché mi piacerebbe che fosse realmente così oppure potrei aver frainteso per deformazione professionale (mi piacciono le storie e me le cerco ovunque anche dove non ci sono). In entrambi i casi non va affatto bene. Eppure mi gira in testa una lista piuttosto lunga di elementi che sommati danno come risultato una cosa del genere:

Un granello di sabbia che cade non fa rumore, quindi nemmeno due, e nemmeno tre, e così via. Quindi nemmeno un mucchio di sabbia che cade fa rumore.

Zenone m’insegna che la logica fa cilecca e non è che la vita non me l’abbia confermato almeno un centinaio di volte, e io pensavo di essermene fatta una ragione. Ma la questione è che ci sono dei dettagli maledettamente convincenti e la realtà è proprio bastarda. Tutto quello che devo fare è: NON FARE NIENTE. Assolutamente e rigorosamente NON FARE NIENTE. Se riesco a NON FARE NIENTE per un lungo periodo, quello che ho capito rivelerà la sua natura (e molto probabilmente la mia malattia).

Ora che ho deciso cosa è meglio per me, devo soltanto ricordarmelo ogni santo giorno del mio presente per non fare l’ennesima cazzata.

Sperom [*dialetto bresciano]

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(598) Manipolare

Detto così è brutto, e a dirla tutta anche farlo è brutto, ma se agiamo entro un limite definito con precisione – quello del rispetto degli spazi mentali e fisici altrui – il verbo cambia e si trasforma in altro. Il nuovo verbo diventa meno brutale e – in certi casi – anche bello. La magia della manipolazione è ovunque.

Se con i gesti si può fare molto e causare anche molti danni, figuriamoci cosa si può fare con le parole. Quelle dette o scritte, quelle sottintese, quelle ripetute, quelle negate, quelle urlate o sussurrate… ce n’è per tutti i gusti. 

Lo facciamo tutti, lo facciamo fin da piccoli, lo facciamo perché vogliamo che le cose vadano come piacciono a noi e che le persone facciano quello che vogliamo noi e che nel farlo non creino fastidi. Obbedisci, punto. Chiunque neghi questa verità dovrebbe guardarsi meglio dentro. Non è che per questo siamo cattivi o persone orrende, siamo umani. Gli umani, quando non si sparano addosso, sono impegnati in un esercizio continuo di problem solving per poter avere a che fare gli uni con gli altri. Le soluzioni, quando sono “morbide”, ti evitano di rintanarti in un bunker prima di far esplodere l’universo umano che ti circonda. Semplice sopravvivenza. Nostra e dell’intera Umanità.

Manipolare è sinonimo di “viscido, sporco” nel nostro immaginario, ma in realtà il dizionario della lingua italiana allarga un bel po’ il suo significato:

manipolare v. tr. [der. del lat. manipŭlus, nelsign. mediev. di “manciata (di erbe medicinali)”] (io manìpolo, ecc.). – 1. a. [lavorare una sostanza plasmabile, o un impasto, trattandoli con le mani: m. unguenti] ≈ maneggiare, trattare. b. [ottenere una preparazione mediante l’impasto di vari ingredienti: m. acqua e farina; m. una torta] ≈ amalgamare, impastare, (non com.) malassare, maneggiare, mescolare, rimestare. 

Certo, poi c’è anche la seconda parte da tenere in considerazione:

2. (spreg.) a. [apportare modifiche abusive a una sostanza o un prodotto, spec. alimentare: m. il vino] ≈ adulterare, alterare, sofisticare. b. [adattare in senso favorevole a sé stessi, mediante imbrogli e intrighi: m. i risultati delle elezioni] ≈ alterare, (non com.) artefare, contraffare, falsificare, manomettere, truccare. c. (fig.) [indirizzare la volontà di qualcuno, spec. per trarne vantaggio: m. le coscienze] ≈ condizionare, influenzare, maneggiare, manovrare. ↑ plagiare.

Quindi, riuscire ad agire sul punto 1 (a, b) in modo attivo e produttivo e contemporaneamente riuscire a riconoscere quando si rischia di cadere vittime di un’azione del punto 2 (a, b, c) potrebbe essere la formula che ci salva davvero la vita. 

Basta saperlo, no?

 

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(597) Triciclo

Mi sono resa conto che ritornare al triciclo è un sacrificio che mi sta troppo stretto. Non lo so, forse perché siamo nati per soffrire e la vita è comunque una merdaviglia e siamo tutti masochisti e via di questo passo. Che ne so il perché. Non è che ogni volta che mi passa un pensiero per la testa, prima di scriverlo qui, io faccia grandi approfondimenti. Lo scrivo e mentre lo vedo scritto, spesso, mi rendo conto che c’è bisogno di fare un passo oltre il confine del non-ritorno. Così, tanto per rassicurarmi di non essere totalmente pazza, anche se dentro di me il dubbio è forte.

Non sempre riesco a rassicurarmi. Ovvio.

Vediamo, quindi, di capirci qualcosa: stavo andando in bicicletta da un po’, due ruote, e viaggiavo libera e felice-a-fasi-alterne (a seconda del terreno che incontravo, specifico che io sono donna-di-pianura-friulana) e devo dire che malgrado tutto me la stavo cavando discretamente. Certo, avrei dovuto accelerare per passare a un livello superiore e molto probabilmente in un periodo di sfinimento ho dubitato di me più del solito e questo mi è stato fatale. Quindi cos’ho fatto? Ho parcheggiato la bici e ho trasferito il mio deretano su un triciclo. Meglio per quanto riguarda l’equilibrio, ma non è che sia meglio in toto. I casi sono due: o soffro di labirintite oppure la libertà perduta mi sta giocando brutti scherzi.

In un caso o nell’altro sto soffrendo. Ma soffrendo perché? 

Non lo so. Davvero. Davanti a me le possibilità si aprono come quando sei proiettata dentro le maglie di Matrix, da perderci la testa. La prima naturale riflessione è: incredibile quanto la sofferenza sia sfaccettata! Quando sei felice non è che stai lì a misurare quanto e come, sei felice e basta. Per la sofferenza le cose non sono mai così semplici. Niente è come sembra, pillola rossa o pillola blu? Porca miseria, Morpheo, che domanda è? Se le smagliature nella tua realtà fittizia stanno andando in malora non è che puoi far finta di niente. O ti butti o vieni buttato fuori.

Chiudi gli occhi e passa tutto?

Vabbé, divagare non mi aiuterà a risolvere la questione, devo capire perché il triciclo che a due anni era la mia massima idea di libertà, ora è diventato un mezzuccio di poco conto. La bici mi faceva dannare, porco diavolo! Non me lo ricordo più? Cosa è successo alla mia memoria? Cosa mi è successo? Cosa? C?

Ora mi sparo tutti e tre i Matrix di seguito, la risposta è lì dentro, ne sono certa.

Caricamento.

 

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