(1065) Manufatto

Fare con le mani è una meraviglia che ci appartiene così strettamente, così intimamente, che la diamo per scontata. Se ci fermassimo a riflettere a quando lavoro diamo alle nostre mani, SEMPRE e ININTERROTTAMENTE, e quanto le nostre mani imparino a fare le cose anche più complicate sempre meglio e in automatico (come se si muovessero con un’anima propria connessa ma non necessariamente succube della nostra stessa anima), resteremmo senza parole.

Ogni tanto ci penso e mi stupisco ogni volta.

Allora ricordo una vecchia poesia in friulano che trovai da ragazzina nel bollettino che la parrocchia distribuiva periodicamente in paese. Una poesia scritta da una nonna e si intitolava “Les mes mans” (trad. “Le mie mani”). Raccontava con delle rime delicate il lavoro di ogni giorno di quelle mani che toccavano la terra per far crescere le verdure nell’orto, che pulivano e tagliavano il cibo per cuocerlo in grandi pentole, che trovavano il tempo di rammendare ciò che doveva essere sistemato e di accarezzare i nipoti in cerca di consolazione. Erano mani di donna, di donna abituata a non stare ferma un attimo perché in una casa c’è sempre tanto da fare, di donna cresciuta per rendersi utile e per sostenere tutta una famiglia senza domandarsi se per lei ci fosse anche altro nella vita.

Ricordo che leggevo e rileggevo quella poesia e pensavo alle mani di mia nonna che erano state educate alla stessa vita, ma che avevano qualcosa di ribelle: le unghie lunghe molto resistenti che ogni tanto dipingeva di rosso. Guardavo le mie mani e notavo una certa somiglianza, in certe curve soprattutto. Rivedevo le sue mani alla macchina da cucire, a creare camicie per i clienti e vestitini per me e mia sorella e pensavo che le mani devono essere educate. A fare di più, a fare cose diverse, a fare anche cose matte. Così per divertirsi un po’.

Non sono cambiata, rivedo ancora tutto e ricordo bene quella poesia e mi guardo ogni tanto le mani mentre fanno e disfano e rifanno e trovano modi diversi per non fermarsi. Sono state educate da una tradizione che le ha forgiate e da una ribellione nei geni che le ha liberate. Certo, nel tempo le ho viste cambiare, ma sono proprie mie e io appartengo a loro. Tutto questo mi piace. Mi piace molto.

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(1061) Programmazione

Ho provato a vivermi gli ultimi quindici giorni – la mia vacanza – senza programmazione alcuna. Giornate libere. Faccio quello che voglio. Certo, avevo una lista di cose che avrei voluto fare, ma pensavo che quel voler-fare fosse talmente forte da non dover essere costretto a esplicitarsi. Illusa.

Talmente abituata al programmare le mie giornate affinché risultino onorevolmente produttive, ho scoperto con costernazione immensa che non so vivere in altro modo. Il mio lasciar andare ogni lista da flaggare si riduce a un realizzare in concreto nulla. Piccole cose, ovvio che non resto inerme come una Barbie in fondo allo scatolone dei giocattoli, ma tutto il resto sparisce.

Mi è stato consigliato di fare così perché ero a un passo dal burn out e, in un certo qual modo posso anche essere d’accordo con questa diagnosi un po’ spinta, ma me lo sentivo che alla fine me ne sarei pentita. E infatti è così.

Avrei potuto conquistare il mondo in questi fottuti quindici giorni e invece…

Va bene, forse esagero, sto drammatizzando troppo. Si tratta semplicemente di due settimana di riposo. Ho letto (7 libri), ho vissuto il quotidiano (cosa eccezionale per me), ho buttato su carta un paio di idee (eh, mi stavo annoiando), ho programmato i prossimi mesi. Eeeeeeeeeeeeeeeeesatto. Ho programmato i prossimi mesi. Mi sono proprio messa lì a segnare le scadenze e gli impegni, le possibilità e le impossibilità, il da-farsi e il da-finirsi… Ho cercato di fare mente locale e proiettarmi nel marasma di cose che mi aspettano e così facendo m’è salita una certa preoccupazioni, un’ansia da prestazione che metà basta, eppure. Eppure sento che posso farcela, posso maneggiare tutto questo, posso. Quello che non posso fare è lasciare le mie giornate in balìa del mio umore, non posso permettermelo, sarebbe la disfatta.

La programmazione. È lei che mi salva la vita, ormai ne sono certa.

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(1058) Fermata

Ogni tanto mi succede di perdere un po’ l’orientamento. Non so a che fermata devo scendere. Così non scendo e continuo ad andare. A volte mi domando se la mia fermata sia già passata – senza che io me ne rendessi conto – e se magari non sia il caso di tornare indietro. Rifare il percorso per verificare. Lo so, follia.

È molto probabile che io abbia fatto attenzione durante il viaggio, con l’ansia che mi contraddistingue è probabile che io abbia controllato tutte le mappe possibili e immaginabili per essere sicura di non scendere alla fermata sbagliata. È così probabile che per la maggior parte del tempo lo do per scontato. Ovvio. Non può essere. Eh.

Quando meno me l’aspetto, però, mi prende un guizzo di panico e mi faccio la domanda fatidica: non è che la fermata a cui dovevo scendere per caso sia già passata?

Ora, che io debba scendere e il perché debba scendere mi sembra neppure questione da discutere. Giusto? Sì. Certo. Ma se leggiamo tutto questo nell’ottica di un viaggio lungo una vita e quindi la fermata ultima è quella della morte, non sarò di certo io a decidere. Se, invece, vediamo il nostro procedere come un normale saliscendi dall’autobus e che a ogni fermata c’è qualcosa lì per noi, che ci aspetta, e quindi mancarne una è un vero peccato… ecco, il film cambia. Giusto?

Vedi che ci si perde a un certo punto del ragionamento? Si entra in un vortice spazio-temporale che non ha nulla a che fare con la realtà bensì con le supposizioni. E di supposizioni ci si può morire. Altroché.

Riprendendo il filo del discorso, agganciandomi al titolo del post, ho la sensazione di essermi persa delle fermate importanti. Ma ho anche la consapevolezza che io abbia volutamente tirato dritto perché non sembravano granché per quella che era la mia aspettativa. Con il senno di poi sono ancora più certa della giustezza di quella sensazione (anche se potrebbe essere una pura costruzione mentale per non mangiarmi le mani dal nervoso), rimane però in ballo la questione del: e se la fermata – quella giusta, quella per me – mi fosse sfuggita da sotto il naso e io – ignara e ansiosa – stessi proseguendo aspettandomi chissà quale meraviglia e invece non ci sarà niente?

E qui sale l’ansia.

Va bene. Facciamo così: alla prossima scendo e vedo cosa c’è.

Ok.

Forse.

Vedremo.

Eh.

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(1047) Noia

Davanti a me ho una pila di libri che devo leggere. Devo leggere perché l’ho deciso io, quindi non me la posso prendere con nessuno. Davanti a me ho anche il mio benamato Kindle che contiene almeno duecento ebook dagli argomenti più disparati e superinteressanti che ancora non ho letto, scelti e comprati dalla sottoscritta che si prende ogni responsabilità del caso.

Per leggere tutto avrei bisogno di almeno tre vite oltre a questa che sto vivendo.

Ho almeno una ventina di articoli che devo scrivere (perché lo voglio fare io, ovvio) per il mio sito e ho tre storie (significa tre romanzi lunghi) che non mi lasciano in pace e mi chiedono di uscire dalla testa. No, essere me non è semplice.

In tutto questo, le mie giornate si riempiono di progetti, pensieri, opere e giri su me stessa per capire dove andare e cosa fare per prima. E ho almeno una ventina di film che voglio vedere e altrettanti che voglio rivedere. Poi ci sono le due nuove attività di cui parlavo qualche post fa che voglio introdurre nella mia vita e la prima di queste ormai è già pronta e da domani si comincia!

Insomma: sono sempre stata così. Ormai so che faccio così di continuo, senza posa, sempre. E se per caso mi viene la febbre e non ho voglia di fare niente mi sembra che il mondo mi cadrà sopra seppellendomi viva perché inattiva e impegnata a piangermi addosso. Sì, essere me non è semplice.

Il paradosso? Eccolo: sono talmente annoiata di essere me che chiamerei un walk-in qualsiasi per farmi divertire in qualsiasi modo io non conosca. Pensa un po’ come sono messa.

È quasi la metà di agosto, fa un caldo porco, il sole preso oggi mi ha fatto alzare la temperatura corporea di mille gradi e… ora mi guardo un film.

Cia’

 

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(968) Francobolli

Affrancarsi e spedirsi dall’altra parte del mondo, come se fossimo una lettera. Questo facciamo, noi Esseri Umani.

Ogni volta che traghettiamo noi stessi sulle rive di un altro Essere Umano, raggiungiamo un mondo che ci è sconosciuto. Lì lasciamo un pezzetto di noi. Poi ce ne andiamo, spesso perché non ci è consentito restare. E ci succede continuamente.

Siamo lettere che ritornano al mittente, il più delle volte. Lettere mai aperte che vengono rifiutate. Senza cattiveria. Solo perché si fa fatica a leggere. Fatica a capire. Fatica ad accettare.

Sulla nostra lettera, ogni volta, appiccichiamo un francobollo. Assieme al timbro testimoniano le andate e i ritorni. E questi giri del mondo che promettono senza mantenere. E noi non perdiamo la voglia di partire e non riusciamo a schivare la delusione del ritornare.

Quando qualcuno ci legge, però, veniamo ripagati di ogni grammo di speranza che avevamo riposto lì tra le righe con punteggiatura sparsa e pochi respiri tra un capoverso e l’altro per non perdere tempo e non occupare troppo spazio.

La gente non legge più, ci viene ripetuto, e noi ci crediamo.

Una riflessione che sembra amara, questa, me ne rendo conto, ma non è con amarezza che la sto scrivendo, soltanto con un bagliore di consapevolezza in più.

Perché io amo leggere. Amo le lettere. Amo le andate e i ritorni.

E i miei francobolli, ormai, non li conto più.

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(829) Bosco

C’è chi pensa che nel bosco si possa trovare soltanto il lupo e qualche fungo. Questa visione ristretta della faccenda non ha nulla a che vedere con lo storytelling, ovviamente. La cosa che impariamo vivendo, è che nel nostro personale bosco mentale ci possiamo mettere quel diavolo che ci pare e piace e le cose – udite udite! – possono comunque funzionare.

L’importante è che certe cose che nel nostro bosco hanno una loro ragione d’essere, ci rimangano lì dentro per sempre. Non è sano far uscire dal bosco tutto quello che ci abbiamo messo dentro, bisognerebbe tenerlo presente.

E non sto parlando soltanto delle perversioni e delle brutte cose – nel bosco le brutte cose proliferano, lo sappiamo – ma anche delle cose belle. Anche i fiorellini di Cappuccetto Rosso devono rimanere lì e non andarsene a spasso nel nostro giardino. Perché? Perché il bosco è finzione, la realtà è altro. Nel bosco tutto è di più: più luminoso e più oscuro, più intenso e più tormentoso, più accattivante e più ributtante. I colori sono diversi, i suoni, i sapori, gli odori… tutto è di più dentro al bosco. Fuori c’è la realtà.

La realtà ha momenti spettacolari, verissimo, ma il più delle volte ha colori sbiaditi e tempi sbagliati (troppo lenti o troppo veloci) e modi sbagliati. Sbagliati perché castranti. Castranti perché ti bloccano il sogno. Ti inibiscono l’immaginazione. Ti fanno venire una voglia maledetta di buttarti dentro il tuo dannato bosco e restarci per sempre.

Ecco, la realtà non ti coccola, non ti asseconda, non ti rassicura. Ti dà quel che ti deve dare e non ti chiede se gradiresti – forse – altro. Se ne frega.

Il trick, però, che può farti risultare la realtà meno mostruosa sta nel prendere una parte del tuo bosco – quella meno strong, tanto per intenderci – e inserirla di tanto in tanto nel contesto adatto. Quando ci vediamo un film, o leggiamo un libro, o ascoltiamo musica, o balliamo senza che nessuno ci guardi, o cuciniamo assorti nei nostri pensieri, o ci dedichiamo al giardinaggio, al bricolage, alle passeggiate, al bungee jumping… ecco, così.

Non sempre, di tanto in tanto. Non necessariamente in compagnia, anzi meglio se da soli. Non per staccarci dalla realtà, ma per assaporare il mondo con una diversa profondità, come se non fosse tutto racchiuso in quel che c’è o non c’è. Il nostro bosco ha piccole parti di concretezza disarmante, solo che nessuno ne potrebbe indovinare l’esistenza. Nessuno le può vedere. Tranne noi, ovviamente. Tranne noi.

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(761) Relax

Il mio concetto di relax fa acqua da tutti i pori. Quello che per ogni Essere Umano di buonsenso è semplice pratica-del-non-far-niente, per me diventa motivo di macchinazione sui modi che potrei impiegare per fare qualcosa per distendere i nervi.

Ovvero: fare qualcosa per rilassarmi. Presente?

Dovrei io prendere in considerazione il non-fare-niente come pratica di rilassamento forse? Giammai! Devo leggere e sottolineare e commentare a bordo pagina, possibilmente, o devo guardare un film mentre controllo la posta e prendo appunti per possibili progetti futuri, o mentre passeggio mi immergo in riflessioni senza fondo sul da farsi per risolvere questa o quell’altra situazione e via discorrendo. In poche parole, se per me la meditazione è pura utopia, il relax è ridicola presa in giro. Non c’è mai una non-attività di qualsivoglia angolo del mio cervello, non c’è mai lo scorrere del tempo fine a se stesso, non c’è mai il cazzeggiare a fondo perso. Mai. Al massimo sospendo un pensiero ossessivo per sostituirlo con un altro finché mi stanco e riprendo in mano quello lasciato in naftalina il mese precedente.

Il relax dei sani di mente mi è precluso, arrendiamoci all’evidenza.

Se sotto la doccia mi vengono le idee migliori, se guidando mi compaiono davanti soluzioni geniali, se giocando a Toon Blast o a Wood Block ho squarci di lucidità dove poter costruire una strategia, tutto questo NON è relax. E se me ne sto seduta comoda, magari sdraiata, ascoltando musica e pensando al niente (madddove?! maqqquando?!), è ovvio che dopo tre minuti m’addormento… e neppure questo è relax, è dormire – che è tutta un’altra storia santiddio!

Va a finire che mi mancano proprio le basi. Le basi per vivere intendo. Ma che ve lo dico a fa’, ormai lo sapete meglio di me.

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(696) Palindromo

Il numero 696 di questo ***Giorno Così*** rimane invariato anche se letto al contrario. Detto l’ovvio, stavo riflettendo su come io sia solita leggermi correndo all’indietro (nel tempo e nello spazio) per cercare di capirmi meglio. Questa pratica se da un lato m’ha dato più di una soddisfazione, ora sta perdendo la sua carica positiva. In poche parole: mi annoio.

Conosco i passaggi a memoria, mi sembra tutto banale e privo di significato.

Dovrò cambiare tattica. Anziché all’indietro potrei leggermi di traverso. Questa interessante intuizione comporta parecchi problemi d’equilibrio, sono ancora titubante sul da farsi, non vorrei amplificare certe mie deviazioni sinaptiche e non ritrovarmi più – magari pensandomi Marilyn Monroe (mica si possono prevedere le conseguenze di una autoletturatrasversale, eh!).

Un po’ mi dispiace, perché davvero la mia vita letta dall’anno 1972 al 2018 e dal 2018 al 1972 non cambia di una virgola e in questa perfezione di forma mi crogiolo da un bel po’. Certo, non ho un’esistenza da immortalare in un’autobiografia capace di scalare le classifiche di vendita di tutto il mondo, ma conosco persone che hanno avuto possibilità ben più ricche delle mie e quando raccontano di se stessi ti vien voglia di buttarli al macero per quanto siano riusciti a non capire una benemerita mazza riguardo la vita. Le mie persone preferite, invece, sono quelle che hanno capito tanto e senza bisogno di molto e te lo porgono come fosse un dono da niente, con umiltà. Vabbé, ora sto uscendo dal seminato però, ripigliamoci.

Diamo per scontato che cambiando punto di vista, cambiando prospettiva, potrei trovare angoli interessanti del mio vissuto di cui ancora non mi sono presa carico, varrebbe la pena tentare, ma dal basso ci sono già passata, dall’alto ormai è un’abitudine, all’indietro è cosa nota, in avanti è decisamente pericoloso – considerato che il mezzo del cammin di mia vita è stato superato da un po’ e l’idea di aver così pochi anni ancora da vivere non mi mette di buon umore – non mi resta che prenderla in trasversale – come dicevo qualche riga fa. Non so ancora cosa significhi nel concreto, ma mi sono ripromessa di pensarci in questi prossimi giorni per vedere se riesco a venirne a capo.

Non so di tutto questo a voi cosa possa interessare, voi che gentilmente e pazientemente mi state leggendo, ma spero che qualcosa di utile in tutte queste cialtronate voi possiate trovare e magari usare meglio di come sto facendo io.

In ogni caso: grazie.

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(631) Balsamo

Il buon vecchio Manzoni definiva la benevolenza un balsamo, ovvero un rimedio portentoso contro la sofferenza. Ognuno ha il suo, alcuni ne hanno più d’uno. Bisogna ammetterlo: un rimedio portentoso contro la sofferenza non è cosa di tutti i giorni. Balsami che abbiamo la potenza di rimediare a certe abominevoli ferite non sono facili da trovare. E più li cerchi e più questi ti si celano.

Non è che ‘sto pensiero mi stia portando molto lontano, credo di essere troppo stanca perfino per riflettere – anche se le dita sulla tastiera vanno dove sanno andare perché hanno ormai vita propria. In momenti come questo, a fine giornata, quando la giornata è stata intensa come quella di oggi ho solo voglia di buttarmi a letto e dormire tutte le ore che posso. Potrebbe essere che in questo periodo il mio balsamo sia il sonno?

Allora ben venga! Ci sono montagne di sonno perso che mi devo scalare, un mese non basterebbe. Le cose più ovvie sembrano quelle meno importanti, non ho mai capito il perché. L’ottusità umana – che appartiene anche a me – è un mistero, oltre che una vergogna. Ci vorrebbe un balsamo per guarire la vergogna o l’ottusità? No, non ora, non riesco neppure a tenere gli occhi aperti, figurati se riesco a tenere collegate le sinapsi.

Buonanotte a chiunque si sia fermato qui per leggermi, mi scuso, ma stasera meglio di così proprio non riesco a fare. Davvero.

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(602) Rallentare

Si fa presto a dirlo, ma mi è difficile anche solo concepirlo. Non ho tempo per fare tutto e non posso fare meno di così altrimenti non ci sto dentro. Così, in loop. C’è da domandarsi come io ancora non mi sia totalmente fusa. Mi lamento di come son messi i miei neuroni, ma a vederla bene son fin troppo gajardi per come li ho sfruttati in questi anni. Senza ritegno, davvero.

E allora come si fa a rallentare? Cosa devo mollare per poter occuparmi semplicemente di me?

Non lo so, non ho ancora trovato la risposta. So che ci sono vicina, però. Non so quanto ci metterò per fare i metri che mi mancano. So che non posso accelerare e so che devo per forza rallentare. Ma tutto ciò non mi aiuta.

Certo cadere distrutta a letto come se non avessi un domani è piuttosto ridicolo. Non si può neppure sentire che io già alle 22.00 stia cascando dal sonno, che io riesca a malapena a digitare qui due pensieri – per altro patetici al 90% – e che appena toccato il cuscino manco il tempo di spegnere le luce che già non esisto più. Che ne è di quella che stava in piedi tutta notte a scrivere e che carburava a meraviglia appena la luce del sole calava al tramonto? Sparita. Sembra incredibile.

Fatto sta che ho una pila di libri da leggere, libri belli-interessanti-utili, che non accenna a consumarsi perché dopo due pagine devo chiudere e buonanotte. Ma se continuo così non ce la farò mai a leggerli tutti! Sarebbe un disastro! Uno spreco disumano! Noooooooooooooooooooooooooooooooooooo!

Ok, vado a letto, non ce la faccio più.

Domani ci ripenserò a mente fresca. Tra una corsa e l’altra, ovviamente.

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(413) Segni

I segni ci sono e li so leggere. Che io sappia cosa farne è tutto da vedere, ma intanto li vedo e li comprendo. Spesso basta solo aspettare e i segni diventano fatti, cose reali che si possono maneggiare meglio rispetto all’aria fritta di cui spesso mi occupo.

Ogni cosa lascia una traccia, evidente o meno, e sono quelle più leggere e dimesse che mi interessano perché hanno uno sviluppo, una trama, raccontano una storia. O anche più di una. Pensano che nessuno se ne accorga e quindi lavorano in pace, senza essere disturbate, e ricamano il proprio disegno. Ci sono cose che si raccontano molto bene da sé, altre che hanno bisogno di una traduzione. Ci sono cose che nell’omissione pensano di potersi nascondere, ma non è così perché i segni restano. Basta saperli captare.

L’amica che ti tradirà. L’uomo che ti ha già tradita. La collega che sta per tradirti. Una lista infinita di segni, che disegnano il tradimento e lui sta sotto qualsiasi segno di dolore. Ma anche la felicità lascia i suoi segni, magari sul viso di chi la sta provando o l’ha provata o si prepara speranzoso a provarla.

Niente è più importante del saper riconoscere e leggere i segni. Niente.

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(215) Lettere

Sono delle porte che si aprono. Sono un invito. Sono una sicurezza. Si portano addosso enormi tesori: le parole. Dei tesori le parole? Sì, perché:

Se possiedi le parole, possiedi le cose. (“Udire tra le parole”, Guido Marchi e Alighiero Betti)

Non è così per tutti, ma quando l’incantesimo ti coglie è per sempre. Non c’è controincantesimo che tenga, le parole ti tengono legata con laccetti di seta e si rendono pelle e scudo e corazza e specchio da attraversare e… quello che vuoi tu.

Per quanto tu faccia non puoi coinvolgere qualcun altro a sentirle come tu le senti, a meno che l’incantesimo non li abbia già colpiti. Ma non sei tu a lanciarlo, sono loro: le lettere. In che modo? Non lo so. Io credo leggendo, ma sono sicura non sia l’unico modo perché anche la musica ha la sua parte.

Le sto studiando, lettere come portali e parole come perle da indossare. Ci metterò una vita, ma non credo ci sia nulla di più bello per far passare questi miei anni – che tanto passerebbero né più né meno e magari inutilmente.

Allons donc!

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(165) Carte

Tempo fa – molto tempo fa – pensavo che uno nascesse con delle carte da giocarsi e che la partita si risolvesse in una mano soltanto. Ero convinta di essere fregata, avevo delle carte veramente pessime.

Avevo frainteso la questione: ci sono più mani da giocare e le carte vengono ridistribuite più volte (certo, un po’ alla cavolo – bisogna dirlo) per offrirti nuove possibilità di sfangartela.

Il punto è, però, che se non impari a giocare, puoi anche avere le carte migliori del mondo ma non te ne accorgerai mai. L’imparare occupa gran parte della nostra vita e il continuo cambio di carte può portare all’annichilimento. Bisogna imparare e bisogna capire come gestire le carte. E maneggiare dignitosamente la tensione del gioco. E leggere meglio volti e ambienti per intuire eventuali mosse e bluff.

Dimenticavo: si gioca per vincere, non per evitare di perdere o perdere troppo.

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(108) Leggere

Tanto tanto tanto tempo fa sognavo di possedere un potere speciale. Mi interessava così tanto l’Essere Umano (nella fattispecie la sua mente e il suo spirito) che espressi il desiderio di poter leggere il suo animo..

Bacchette magiche e incantesimi non sarebbero bastati, lo sapevo già, anche se ero molto molto molto molto giovane. Lo sapevo già.

Quindi iniziai con il farmi terreno fertile per l’intuizione. Misi in allerta tutti i sensi per imparare, ascoltando e osservando, chi mi stava attorno e cercare di carpirne pensieri e desideri.

Non era mia intenzione varcare la soglia dell’intimità del mio prossimo, ma era conseguenza inevitabile. Anche se il mio interesse era quello di farli stare bene, invadevo silenziosamente territori che non mi appartenevano. Conscia di questo io stessa divenni per gli altri terra off-limits: promisi a me stessa che nessuno avrebbe mai invaso i miei pensieri e i miei sentimenti.

Mantenni la promessa in modo quasi del tutto coerente, caddi un paio di volte nella trappola di chi pensavo fosse pianeta affine e l’errore mi costò caro.

Nel frattempo, però, ebbi modo di sondare perfettamente la mia terra e mi scoprii molto molto molto molto simile a chi avevo incontrato e sondato nei miei anni di studio. Caddero colonne di pregiudizi e di egoici marasmi interiori. Fu come liberarmi per rimettermi in pari con l’Umanità.

Leggere i libri perfeziona il mio studio degli Esseri Umani. Solo che non invado alcun territorio, mi faccio invece conquistare. Senza correre alcun rischio, per di più.

Impagabile libertà.

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