(1072) Scaffale

“Allora ci si colloca nello scaffale degli oggetti smarriti, si aspetta di essere cercati di nuovo e si resta ad occhi aperti la notte aspettando il passo di chi torni a reclamarci. Ma nessuno torna e dopo il giusto tempo si è di nuovo se stessi, sciolti dal possesso, liberi perché si diventa liberi dopo essere stati perduti.”
(“Aceto, arcobaleno” di Erri De Luca)

Stai lì sovrapensiero, sai che ti gira qualcosa che potrebbe avere parole ma che si rifiuta di parlare. Non puoi fare altro che aspettare che accada. Se non parla dovrà per forza palesarsi con un’azione, altrimenti che sta lì a fare? 

Vaghi sovrapensiero tra i post del diario di Facebook, non è che uno pensa a sta sempre immobile e scorrere è sempre meglio di stagnare. Così tanto per dire. Fatto sta che accade quel che doveva accadere e leggi una frase riportata da qualcuno e postata come omaggio all’Autore. Sei sovrapensiero e quindi leggi solo con gli occhi. Veloce. E vai avanti. Dopo un po’ gli occhi si sono collegati al cervello riportando un messaggio che evidenzia due o tre parole e poco altro. Non c’è verso di archiviarle, ci pensi mentre scorri e devi tornare indietro. E lo ritrovi quel post, e rileggi quella frase una volta, due volte, tre volte. 

Accade quindi (perché gli accadimenti sono sempre a valanga) che quella frase ti scoppia nella testa e ti muove come un terremoto col boato scuro. Sì, il tuo scaffale trema. 

Ti rendi conto che il giusto tempo è arrivato e che si è sciolto il possesso. Ti accorgi che non sei più perduto e che riconsiderarsi libero non è un peccato. Non sei più sovrapensiero sei dentro il pensiero e se lo allarghi un po’ vedi e senti meglio. Ti mancava l’aria e non te n’eri neppure accorta. L’aria c’è sempre stata ma te la stavi negando. Ti stavi annegando. Perché? Sortilegio maledetto.

L’Oceano in movimento ti compare davanti senza averlo mai visto. Dovresti vederlo, pensi. Dovresti andarlo a incontrare. Ci sono storie che devono essere raccontate. Prima o poi, nel tempo giusto.

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(599) Paradosso

Dunque: dopo oltre una quarantina d’anni che mi frequento – la storia d’amore/odio più lunga della mia vita – ancora riesco a sbalordirmi per la quantità imbarazzante di pensieri assurdi che mi passano per la testa.

No, non credo che capiti a tutti e questo potrebbe in qualche modo mettermi in una condizione di dubbio sulla mia santà mentale. Ho bypassato l’ostacolo anni fa quando decisi molto saggiamente che la mia condizione mentale ha il diritto di variare a seconda della stagione, del periodo storico e del mio stato emotivo. Tolto di mezzo ogni giudizio sul mio stato, le cose risultano lo stesso complicate. Come al solito le soluzioni che trovo non sono mai destinate a sollevarmi la vita, tutt’altro.

Ritornando sull’argomento mi trovo in una empasse imbarazzante nei confronti di me stessa perché non riesco a capire se quello che ho capito è realmente qualcosa che dovevo capire esattamente così oppure no. Voglio dire che il mio cervello ha ricevuto delle informazioni – frammentate – che ha sistemato una dopo l’altra e ne sta traendo delle conclusioni. Lecito, ma pericoloso.

Tenendo ora in mano quelle conclusioni mi rendo conto che potrei aver capito male, capito male però perché?

Potrei aver frainteso perché mi piacerebbe che fosse realmente così oppure potrei aver frainteso per deformazione professionale (mi piacciono le storie e me le cerco ovunque anche dove non ci sono). In entrambi i casi non va affatto bene. Eppure mi gira in testa una lista piuttosto lunga di elementi che sommati danno come risultato una cosa del genere:

Un granello di sabbia che cade non fa rumore, quindi nemmeno due, e nemmeno tre, e così via. Quindi nemmeno un mucchio di sabbia che cade fa rumore.

Zenone m’insegna che la logica fa cilecca e non è che la vita non me l’abbia confermato almeno un centinaio di volte, e io pensavo di essermene fatta una ragione. Ma la questione è che ci sono dei dettagli maledettamente convincenti e la realtà è proprio bastarda. Tutto quello che devo fare è: NON FARE NIENTE. Assolutamente e rigorosamente NON FARE NIENTE. Se riesco a NON FARE NIENTE per un lungo periodo, quello che ho capito rivelerà la sua natura (e molto probabilmente la mia malattia).

Ora che ho deciso cosa è meglio per me, devo soltanto ricordarmelo ogni santo giorno del mio presente per non fare l’ennesima cazzata.

Sperom [*dialetto bresciano]

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(591) Brivido

Quelli che preferisco, quelli positivi, ormai non li provo più da millenni. Bah, sarò diventata cinica. Sarà che a forza di tirar su muri protettivi alla fine te ne freghi anche dei brividi. Basta che non ci siano casini, il resto va tutto bene.

Non mi passano, invece, quelli negativi, quelli legati a degli eventi allucinanti che non potevi neppure immaginare potessero accadere. Quelli non passano, nonostante il bombardamento mediatico ci metta il carico da cento per costringerti all’assuefazione. No, non mi farete addormentare prima della mia fine estrema, non ci riuscirete per quanto vi potrete impegnare. Omicidi, eccidi, assoluzioni, indifferenza, assurdità inenarrabili… una lista infinita.

Quando la realtà fa schifo, e tu te ne rendi conto che fa schifo, puoi fare due cose: o te la racconti in modo da fartela piacere oppure fai del tuo meglio per cambiarla affinché non ti faccia più tanto schifo. Si possono contare sulle dita di una mano le persone che scelgono la seconda opzione, lo sappiamo bene. Perché sono così pochi? Perché è faticoso e può essere anche frustrante e snervante. Potresti non arrivare mai a ottenere neppure la metà di quello che speri, nonostante i tuoi sforzi e la tua fede. Cosa da pochi, da chi c’è nato così e non riesce a inventarsi un modo di essere diverso da questo. Quando non hai scelta, il libero arbitrio è dettaglio ininfluente.

Raccontarsela per farsela piacere, invece, è lo sport nazionale. Noi italiani siamo dei maestri in questo e possiamo fare scuola a chiunque. Mi vengono davvero i brividi quando incontro storie deliranti, facilmente demolibili, che vengono portate avanti con prepotenza, e contro tutti, soltanto per non ammettere la realtà delle cose. Perché la realtà delle cose non si fa insabbiare facilmente, ritorna in superficie appena può. La codardia, la furberia, la castroneria – anche quando condivisa dai più – rimangono lì a far mostra di sé. Non si cancellano.

Sono brividi brutti e non passano. Ecco, questa realtà delle cose non riesco a raccontarmela in modo che mi piaccia. Non ci riesco proprio.

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(544) Intervista

Sono stata intervistata e per me non è la normalità, di solito le interviste le faccio io. Grazie all’ascolto e alla capacità di gestire la situazione dei miei intervistatori è stata un’esperienza molto piacevole. Non ricordo esattamente cos’ho detto, perché non c’era nulla di preparato, ma lo saprò appena la riascolterò in radio.

Ho smesso di preoccuparmi, per questo. Forse sono una sconsiderata, per questo. Nonostante ciò faccio affidamento soltanto su una cosa: la mia incapacità a fingermi chi non sono. Questo mi mette al riparo da qualsiasi strafalcione io possa dire.

Nel tempo le cose escono, quelle vere e quelle non vere. Non voglio preoccuparmi di quel che sarà, quindi se resto fedele alla mia piccola verità non corro rischi inutili. C’è una grande apprensione nel cuore di chi non sa affermare la propria piccola verità e si affida al proprio talento narrativo gonfiando la portata del racconto. Le cose poi sfuggono di mano e la valanga ti travolge. Preferisco evitarlo.

Io scrivo storie, racconto storie, ma non mi racconto storie. Sono limitata, finisco presto. Quello che sono fa capo a quello che faccio e quello che faccio non è memorabile, non è magnifico, è soltanto onorevole. Ecco perché chi la racconta troppo grossa mi fa dubitare. Ecco perché chi si proclama umile mi fa scattare come una molla dall’altra parte della stanza. Ecco perché non faccio leva sull’opinione che ho di me per presentarmi agli altri, soltanto sulla realtà che ho potuto/saputo costruirmi e che per me può parlare senza menzogna.

Questa è soltanto una riflessione di fine giornata, non vuole di certo essere una esternazione egoica per prendermi un applauso. Anche perché finché non sono io ad applaudire me stessa nessun altro applauso potrebbe convincermi di essere la persona che vorrei essere. Che tipo di persona vorrei essere? Semplice: una che vive senza paura di essere o non essere, avere o non avere. E resta sempre questo il problema, aveva ragione Shakespeare.

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(521) Biblioteca

Nella mia biblioteca non esistono generi, ma solo storie. Ci sono storie che amo così tanto che dopo averle lette soltanto una volta e essermene innamorata non oso rileggere mai più.

Ci sono libri che ho dovuto mettere in scatoloni perché non ho più spazio e di questi scatoloni sono riuscita a distribuirne alcuni affinché trovassero nuovi padroni. Pensavo fosse più difficile, non lo è stato forse perché ho lasciato andare quelli che ormai avevano fatto di me qualcosa che ho superato. Sì, è così, altrimenti mi mancherebbero e invece non mi mancano affatto.

Non ho mai preso in prestito da una biblioteca troppi libri, alcuni sì perché ero sicura non mi avrebbero appassionato, ma se per caso mi sbagliavo li restituivo immediatamente e me li andavo a comprare. Un libro che porta le impronte di qualcun altro (magari di decine e decine di altri) non è un luogo dove amo stare. Deve tenere traccia dei miei polpastrelli sopra, per forza. Certo che se avessi per le mani un libro con le impronte di un Essere Umano fuori dal comune, allora lo terrei stretto senza osare leggerlo, soltanto per adorarlo. Sono fatta così.

Nella mia biblioteca un tempo c’erano più romanzi e meno saggi, ma più scrivevo e più faticavo a trovare romanzi su misura per me e quindi per un periodo ho deciso che dovevo conoscere meglio il mondo anche attraverso l’esperienza e lo studio riposto in pagine che raccontano di pensieri e di fatti e di scoperte senza essere romanzati, e non mi sono ancora fermata. I romanzi che leggo sono scritti da autori che amo – fior fiori di menti sopraffine – e non sono molti, ma così preziosi.

Anni fa, non avrei mai immaginato di poter sostituire un libro con un kindle, e infatti non è successo, ho potenziato la portata dei libri cartacei con gli e-book. Credo sia una meraviglia, doppio godimento.

Non sono mai entrata di una biblioteca enorme e magnifica, mi piacerebbe fare un tour mondiale dei contenitori di libri più belli esistenti: la British Library, la Biblioteca Civica di Stoccarda… ma sono sicura che niente può assomigliare anche solo minimamente allo splendore della mia biblioteca personale. Perché? Perché parla di me, di chi sono. Lo so, sono un’egocentrica… tu no? Prova a farti una biblioteca e poi mi dirai.

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(305) Albero

Nel mio paese d’origine, piena campagna friulana, c’era una collinetta chiamata: Il Castelletto. Non c’era un castello là sopra, ma una bellissima compagnia d’alberi. Alti e con mille sfumature di verde. Se ti arrampicavi e raggiungevi i primi rami già potevi goderti la vista dei campi di mais e di frumento che si perdevano a distanza.

In mezzo alla collinetta c’era un tavolo di pietra con tre panchine attorno, sempre di pietra, e noi ci mettevamo lì da ragazzini per chiacchierare dei fatti nostri e poi rubare pannocchiette tenere da abbrustolire. Buonissime.

Gli alberi ci proteggevano, ci ascoltavano, ci facevano compagnia con il fruscio delle foglie e lo scricchiolio degli insetti che ospitava. Uccelli e qualche riccio e topi, ovviamente.

Una mia amica li sapeva riconoscere, catalogati per genere e forma delle foglie, la invidiavo moltissimo perché io non riuscivo a memorizzare tutti quei dettagli, dopo un paio di minuti di spiegazione già la mia testa era partita per la tangente immaginando quanta terra avrei visto se fossi stata capace di arrampicarmi fino in cima al più grande di tutti.

Oggi ho un albero tutto mio, è un melograno. Non lo faccio potare da un bel po’, non mi piace l’idea che qualcuno lo possa ferire, ma probabilmente sbaglio punto di vista. Comunque, fa tanti melograni ogni anno (che mangio solo io perché sono asprissimi) e a ogni stagione lo fotografo perché mi sorprende sempre constatare la sua impressionante capacità di mutare veste e restare sempre bellissimo.

Vorrei potessero parlare, gli alberi, sono sicura avrebbero storie pazzesche da raccontare.

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(154) K.O.

Stamattina ho iniziato gli incontri alla scuola media (per il quarto anno), io davanti alle classi prime. Il 90% dei ragazzi si ricordavano di me, con un gran sorriso, e delle storie che abbiamo scritto insieme in quarta elementare.

Ho ripreso da lì dove avevo interrotto: scriviamo una storia insieme. Hanno ripreso il filo subito, mi hanno seguito a rotta di collo per due ore filate.

“Ritorni il prossimo mercoledì?”, la domanda di tutti.

Affermativo, ragazzi. Porteremo a casa anche questa volta la nostra storia, che è vostra e che sarà uno spettacolo. Promesso.

[Lo faccio per questo, è una bellezza che toglie il respiro. Giuro.]

 

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(100) Storie

Mi sono fatta spesso la domanda e mi sono pure spesso data la risposta. Una risposta rassicurante, mi piacciono le risposte rassicuranti. Se lo sono troppo, però, e la realtà non ci va proprio a braccetto, non mi bastano.

Ho cambiato domanda, così per sorprendermi. La risposta mi ha difatti sorpreso. Non era rassicurante, era più vera. Era molto molto molto più vicina alla verità che dentro di me c’è, esiste, ma non ama farsi troppo evidente.

Il mio DNA è molto probabilmente segnato da questa verità, che non è lì per portarmi chissà dove. Questo è stato il tassello mancante e, ora che sono riuscita a inserirlo al suo giusto posto, sono tranquilla. Non mi viene chiesto di portare questa mia umilissima verità fin sulle stelle, ma mi viene imposto di riconoscerla e di darle spazio.

L’ho fatto per quel che ho potuto. Se ora sono piuttosto rattristata è perché ho di nuovo (mi capita troppo spesso, lo so) frainteso: non mi è dovuto nulla, da nessuno e da  niente, se non quello che è. Ho riconosciuto questa mia piccola verità, le sto dando spazio, nel frattempo lei mi fa crescere. Stop.

Non so perché la mia parte bambina pensa che sono in credito di qualcosa da parte di qualcuno (della vita?) o da che-ne-so-io. Sono capricci che mi irritano. Devo trovare il modo di farle passare questa brutta abitudine.

Non sono qui per fare storie, sono qui per scriverle.

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