(1023) Gola

Quando un’emozione ti prende la gola è fatta, sai già che avrai la peggio. Perché lo stomaco lo puoi nascondere, la gola no. Neppure una sciarpa o un foulard potrebbero nascondere il tremito che la gola rivela – che sia di gioia, di dolore, di rabbia, di tristezza, di tutto-quello-che-vuoi non importa – e che è pronta a usare contro di te.

Il segreto per evitare la disfatta sarebbe: non provare alcuna emozione. Bingo.

I peccati di gola, d’altro canto, possono rivelarsi ben piacevoli e del tutto perdonabili, chissà perché.

Prendere per la gola qualcuno – che tu lo voglia sedurre o far fuori – è un’azione potente, che richiede una certa concentrazione. Non da tutti, non sempre, non con chiunque e non ovunque. Bisogna farci attenzione.

Tagliare la gola… ecco, i tagliatori di gole son brava gente dopotutto – gente che fa soltanto il proprio lavoro – e che crede nel proprio valore e nell’utilità che apportano alla comunità, ma è meglio tenerli a distanza, si rischia di avere la peggio.

Il nodo in gola fa parte delle cose mal digerite, che ti viene da piangere o da vomitare, e sempre di emozioni si tratta.

Quando riesci ancora a parlare, quando la voce non ti manca, quando il respiro ti regge, sii grata alla tua gola.

Ingoiare i rospi come pratica quotidiana non porta niente di buono, bisognerebbe ricordarlo.

Tutto questo per dire cosa? Che la gola è importante perché ci rivela.

Eh, sì. Un’altra imperdibile perla di saggezza… no, non ringraziatemi, e soprattutto state lontano dalla mia gola!

‘notte

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(1009) Muta

Ci sono dei periodi in cui mi ammutolisco. Non so se sia per una sorta di cortocircuito neuronale o per sfinimento, fatto sta che smetto di parlare. Soltanto lo stretto necessario. Se sono costretta a dire di più lo faccio malvolentieri. 

Sia chiaro: non lo decido coscientemente, applico la nuova modalità e me ne accorgo soltanto se punto lì la mia attenzione. Più che altro se ne accorge chi di solito mi sta attorno, abituato alla mia voce che va e viene a intervalli sostenuti. Se gli intervalli si dilatano significa che sto affondando in uno dei miei periodi muti.

Il silenzio che si crea dentro di me non è allarmante, è una sorta di limbo dove i rumori sono solo rumori e i pensieri non sono poi così importanti. Perdendo il senso del contenuto, il contenente perde di sostanza. Molto probabilmente.

Non durano tantissimo questi periodi, non potrei però definire una timeline precisa, sono sicuramente ciclici. Al momento ci sono dentro. Non è una grande notizia, ma è comunque qualcosa che voglio far presente a chi mi sta attorno in questi giorni e mi trova strana e più insopportabile del solito. È così. 

Non parlare, o parlare poco, è una condizione che associata a me potrebbe sembrare paradossale, ma i periodi in cui sparisco dalle scene non sono orientati al calcare altre scene, sono quelli che mi vedono in ritiro monacale e che non racconto a nessuno perché sono pieni di cose che riguardano soltanto me. Piccole cose, stupide cose che parlano a me e a me soltanto. 

Non è dove finisco, è dove mi espando. 

Ritornare poi in scena è sempre strano. Quasi doloroso. Sempre strano e stranamente doloroso. Non capisco più che peso dare al contenente e al contenuto e questo potrebbe non essere un dettaglio da poco. Proprio no.

Tant’è

(…)

 

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(838) Artigianato

Non credo nel “buono alla prima” neppure per le idee geniali. Il “buono alla prima” è una scusante per la mediocrità, perché non ti vuoi sbattere più di tanto, perché non lo ritieni così importante, perché hai altro da fare che ritieni più meritevole e per milla altre ragioni.

Le idee geniali possono essere meravigliosamente geniali se rimangono idee, poi si scontrano con la realtà e la materia e perdono il loro smalto. Quindi le devi raccogliere e modellare. Non una volta magari. Magari mille volte. Il segreto è continuare a crederci e non accontentarti. Ma è soltato una questione di quanto lo vuoi. Tutto lì.

Un artigiano che costruisce una sedia non può fare spallucce se la sedia traballa. Se non trova il modo per farla poggiare solidamente, la rifà. Punto daccapo. E ti viene nervoso, lo so, ti prende proprio lo scazzo, me ne rendo conto, ma la sedia non diventa sedia a dondolo solo per alleviarti il fastidio. Vedi tu.

Quando lavori sul far stare in piedi le cose, non sdraiate se è scritto che devono stare in piedi, si tratta sempre di piccoli tocchi che si inseriscono perfettamente in quel contesto. Ci vuole tempo? Certo. Ci vuole pensiero? Certo. Ci vuole dedizione? Certo. E se ci metti tutto questo, e raggiungi il tuo scopo (non è affatto scontato), quando qualcuno dà una manata per scombinare la tua creazione, ti incazzi? Certo. E non poco. Esageratamente.

Puoi mostrarlo o meno (non è scontato neppure questo), ma l’incazzatura è devastante. Chiedi, no? Chiedimelo! Dimmi dove vuoi modificare e ne parliamo serenamente, ci lavoriamo su, rispetta quello che c’è, rispetta il mio lavoro. Rispetta la mia persona. Perdio.

Quante volte arriviamo nella vita delle persone per farci largo a colpi di machete? Le persone si incazzano? Bhé, dovrebbero. Dovrebbero incazzarsi smisuratamente, santocielo. Se non lo fanno ringraziamo il nostro santo protettore, perché ci meriteremmo la mazza chiodata. Così da ricordarci che non si fa. Non si fa. NON-SI-FA.

Come laboriosi artigiani noi ci stiamo modellando, è un lavoro sfinente, è un lavoro che non ci viene pagato in monete d’oro (al massimo con grammi di consapevolezza), è un lavoro che non si quantifica e non finisce mai. Farsi strada a machete spianato nell’esistenza di un Essere Umano è un crimine. Un po’ di delicatezza, perdio. Un po’. Non dico che siamo fatti di cristallo, ma neppure di titanio!

Ok. Anche se non ci credete oggi per me è stata una gran bella giornata, ho interagito con persone che fanno dell’artigianato (personale e professionale) un’opera d’arte e questo mi ha riempito di gioia. Incontrare questo tipo di umanità fa crescere in me la voglia di essere ancora più delicata quando entro nei mondi di chi mi sta davanti.

E si bussa.

Sempre.

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(797) Tacere

La gestione del tacere non è cosa di poco conto. Un maldestro calcolo dei tempi e dei modi può rovinarti la vita. All’opposto, saper maneggiare ad hoc la capacità di dosare il tacere può salvarti la vita. Quindi?

Ho una voglia maledetta di fottermene e di dire quello che penso, in questo ultimo periodo. Fanculo alle conseguenze, il tacere a prescindere – per paura delle conseguenze – può anche farti andare in pappa il cervello (per non parlare dell’amor proprio). Quindi?

Dovrei farlo, dovrei semplicemente dire alle persone interessate quello che penso di loro e del loro atteggiamento, dovrei sbattermi del politically correct e dell’educazione a ogni costo e dovrei semplicemente far presente le mie ragioni. Niente insulti, soltanto le mie ragioni – che garantisco sono piuttosto ragionevoli – e poi andarmene. Capiti quel che capiti, mi tolgo dalle balle e via. Quindi?

Quindi che ne so! Sono un’artista dello stare al proprio posto, evitare discussioni e via di questo passo. Anni e anni e anni di training. Ora vado a scoprire che questo diavolo di autocontrollo non mi ha reso che frustrazioni e furibonde incazzature con me stessa… a che pro? 

La questione delle conseguenze è bastarda perché, in realtà, non è che preventivare le conseguenze sia una scienza esatta, tutt’altro! Ti fa immaginare come potrebbe andare a finire e basta. Ti fa riflettere, ti fa valutare meglio la portata delle tue azioni, tutto qui. Le conseguenze che mi fanno chiudere la bocca sono quelle che provocano sofferenza, perché odio essere causa di mortificazione o delusione o che ne so io. Però ci sono situazioni che ti impongono di parlare, di asserire, di far presente con forza che il tuo pensiero è diverso e che la vedi in altro modo e che non ti sta bene così. 

Non mi sta bene così, non funziona con me. 

Ecco, questo potrebbe essere l’unico appiglio per incentivare in me un cambiamento di assetto senza scompigliare troppo la mia indole pacifica. A che pro? Perché tacere può sbriciolarti l’Anima oltre che il fegato. Taci quando hai torto, taci quando non hai opinioni al riguardo, taci quando ti uscirebbero soltanto cattiverie gratuite, taci quando non sei sicura di affermare il vero, taci quando quello che vuoi dire potrebbe scatenare l’inferno senza creare utilità a nessuno (magari parli in un secondo momento), taci se sei furiosa e hai pensieri confusi che uscirebbero male e verrebbero fraintesi. Ecco, questi sono buoni motivi. Ma non tacere quando qualcuno ti calpesta, quando vedi la verità umiliata, quando le bugie prendono il sopravvento, quando quello che vivi ti fa urlare “basta!”, quando qualcuno te lo impone perché pensa che tu non abbia nulla di interessante da dire. Tacere solo perché la tua coscienza te lo impone, non per altro.

Questo funziona per me. Così mi sta bene.

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(776) Lobotomia

Se ti parlo e non mi vuoi ascoltare due meravigliose opzioni si aprono davanti a te: o me lo dici, che quello che ti sto dicendo non ti interessa (e io magari cambio argomento), o me lo dici, che ti sto sulle palle e che a prescindere qualsiasi cosa io ti dica tu non mi staresti comunque ad ascoltare (e io senza problemi smetto del tutto di parlarti). Fantastico vero? Devi solo dirmelo e io ti accontento. Non sto lì a discutere, a convincerti, a pregarti di prestare attenzione alle mie parole. No. Ti assecondo, senza rancore, e tutto si risolve felicemente.

Se ti parlo e non mi stai ascoltando io, comunque, smetterò di parlarti. Non sempre me ne accorgo entro i primi tre minuti, ma ho velocizzato enormemente la mia intuitività e la mia conseguente reazione, quindi… non ti preoccupare, la pianto di tediarti e non ci riprovo più. Senza rancore? Sì, senza. Infastidita, ma non rancorosamente pronta alla vendetta. Ah, smetto anche di ascoltarti, ovviamente, perché il senso di Giustizia insito della mia natura mi impone un “occhio per occhio e dente per dente” – un tantino biblico seppur efficace, me ne rendo conto, ma son fatta così.

Se quando la gente in generale ti parla e tu non ascolti, però, tesoro mio hai un bel problema. Grosso problema. E qui, mi dispiace dirtelo, ma neppure così tanto, le opzioni si ridimensionano drasticamente: o impari ad ascoltare o impari ad accettare le conseguenze della tua carenza immonda. Sì, perché sei così pieno di te stesso che la sporcizia ti ha intasato le orecchie, e pure il cuore, e prima o poi te ne renderai conto di quanto questo ti può costare.

Se scrivo tutto questo è perché, occupandomi 24h/7 di comunicazione, mi sono resa conta di quanto il mio limite al saper comunicare sia esponenzialmente aumentato negli ultimi decenni. O prima pensavo di comunicare e invece fallivo inconsapevolmente, oppure cercando di comunicare sempre meglio ho raggiunto un livello tale di tortuosità indotta da rendermi incomprensibile al mondo. Presente il detto “è talmente intelligente da essere stupida”? No, ecco, comunque il senso è quello. No, non sto millantando un’intelligenza superiore, ma una pignoleria superiore alla media per quanto riguarda il mio modo di esprimermi sì. Ci tengo proprio, ci faccio caso, mi ci impunto. Ebbene, la notizia del giorno è: NON SERVE A NIENTE.

Non serve a niente se chi riceve la comunicazione non ascolta. Il tuo 50% di responsabilità nel veicolare al meglio il messaggio si frantuma miseramente contro il 100% dello scazzo del tuo interlocutore. Amen, fattene una ragione e dichiarati sconfitta.

Però, tu lobotomizzato che mi stai davanti e vuoi parlare con me, sappi che non mi prendo più sul groppone il peso della pochezza dei tuoi neuroni. Non me ne frega proprio niente. Amen, fattene una ragione e togliti di mezzo.

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(766) Uomini

Perché parlare non basta, sono i fatti che dimostrano chi sei. Quando il dubbio su chi sia il migliore neppure ti sfiora, la gentilezza si spande soffice e uniforme senza squilli di trombe. Non ci sono sguardi stonati, non ci sono imposizioni. Nessun sottomesso e nessun padrone. Che a scriverlo sembra fantascienza, vero?

Non nasci per servire qualcuno, neppure l’uomo che hai scelto di accompagnare. E se tu accompagni lui, lui accompagna te.

L’ascolto segue binari fluidi, forse ritmi diversi e tonalità che fanno da contrasto, ma non è guerra, potrebbe piuttosto essere un concerto strampalato. Che quando si è in due a suonare, anche fosse la stessa canzone, qualche nota dallo spartito può scappare e se ritorna la si risuona meglio, più sicura, basta volere un’altra occasione.

Quando si sbaglia si chiede scusa, non perché la pensiamo diversamente però. Non ci si scusa per ciò in cui si crede, si spera, si sogna.

Gli uomini, quelli che vorresti incontrare, sono quelli che sanno chiedere pronti a ricevere risposte che non si aspettano eppure accettano perché nient’altro saprebbero fare se non comprendere. Sono quelli che non si fanno intrattenere  per non pensare, sanno condividere per approfondire quel che serve e capire meglio quello che non conoscono. Senza paura, senza inganno.

Noi donne amiamo volentieri anche gli uomini che dicono di non voler essere amati perché raramente ci fermiamo alla superficie. Le cose dette volano via nell’istante in cui si aprono al suono, i fatti si posano – per rimanere – sulle Persone e sulle Cose e sulla Vita e sulla Morte. Anche sull’Amore.

Soprattutto sull’Amore.

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(755) Intermittenza

Andiamo a intermittenza. Andiamo a intermittenza e ci stupiamo che gli altri non stiano ai nostri luce/buio come vorremmo. E che devi fa’ della tua vita se non star dietro al mio umore? Cosa? Lo shampoo?

E finché è l’umore va ancora bene, pensiamo a cosa succede quando ad andare a intermittenza sono i nostri sentimenti. Ti amo/non ti amo, ti odio/non ti odio, ti voglio/non ti voglio, ti penso/non ti penso… delirio costante.

Se ce lo tenessimo per noi non sarebbe poi un gran difetto, ma onorandone il culto lo imponiamo a chi ci sta accanto. Lo facciamo andare su e giù come uno yo-yo, lo facciamo girare e pirlare come se fosse un burattino, lo facciamo parlare o lo zittiamo come se il suo esserci dipendesse da noi. Aguzzini spudorati, ecco cosa siamo.

Eppure pretendiamo sicurezza, solidità, coerenza, fedeltà, da chi abbiamo vicino. Se mi ami ora mi amerai per sempre. Anche se ti prendessi a calci in culo, ormai hai promesso e son cazzi tuoi. Belle cose, davvero. Facciamo della scostanza la nostra religione e calpestiamo il diritto a cambiare idea, cambiare il proprio sentire, cambiare opinione, cambiare pelle – se serve e certe volte serve proprio – di chi ci sta attorno. Tutti traditori, ma noi no.

Accendi e spegni la luce facendomi girare nella stanza e sbatto contro tutto e mi sto facendo male, ma tu accendi e spegni la luce finché mi scoppiano gli occhi e non riesco a vedere più niente. Chiamala crudeltà mentale, tesoro, non amore.

Se qualcuno avesse il coraggi di dirlo, se qualcuno avesse il coraggio di staccarsi dall’interruttore nel sentirsi rivolgere queste parole, forse – dico forse – le cose potrebbero migliorare. Voglio essere ottimista, stasera, voglio accendere la luce.

 

 

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(754) Tunnel

Stai parlando e a un certo punto ti accorgi che hai preso un tunnel. Una strada che non ti permette distrazioni, né di paesaggio né di umanità sparsa. e che ti obbliga a focalizzarti su quello che stai facendo, ovvero: parlando.

Quindi sei costretto ad ascoltarti. Ascolti il suono dei pensieri, che anticipano l’emissione vocale, e ti rendi conto della densità di ciò che stai comunicando.

Se ti stai davvero ascoltando e ti accorgi che la comunicazione ti sta sfuggendo di mano, dovresti chiudere la bocca. Prendere un bel respiro. Resettare i pensieri. Capire cosa è il caso di dire. Dirlo. In questa sequenza precisa o diventa un casino ancora peggiore. Il tunnel non ti permette vie di fuga, o procedi o procedi. Fare inversione è da pazzi, mettere la retro è da pazzi, fermarsi è da pazzi.

Ritornare ai propri pensieri per salvare il salvabile è l’unica via possibile. Se non lo fai son cazzi tuoi. Ecco perché quando chi mi sta di fronte prende il tunnel io aspetto. Aspetto di vedere come va a finire. Sono davvero interessata, mi metto proprio tutta intera a guardare quel che accadrà. Non resto mai delusa. Nel senso che succede sempre qualcosa che mi fa capire meglio certe dinamiche bastarde della comunicazione. Imparo sempre. 

I miei tunnel sono spesso illuminati da una luce fioca, rallento per non andare a sbattere, ma di solito procedo senza intoppi. O non li vedo proprio o li salto. Non so neppure io come faccio, ma lo faccio. Succede anche che mentre focalizzo l’attenzione sui miei pensieri, la voce mi si impiglia o che il respiro mi manchi all’improvviso. Questo perché dappertutto non riesco a esserci e qualche cosa mi scappa sempre. Se mi accorgo che sto deragliando, che i pensieri vanno da una parte e il suono dall’altra inizio a preoccuparmi. Mi zittisco e cerco di riprendere il filo del discorso. Una cosa ho imparato a fare, e a farla bene: se mi sto sbagliando lo dichiaro.

“Scusa, non ho capito”

“Scusa, non volevo dire questo”

“Scusa, ho ascoltato soltanto una parte del tuo discorso e penso di avere frainteso”

Ecco, queste frasi aiutano me a fermarmi e a chi mi sta parlando a capire dove mi sono fermata. Sono sempre nel mio tunnel, ma mi sono dovuta fermare. So che non si dovrebbe fare, ma sono pronta per rimettere la prima e ripartire. Nella giusta direzione, con la giusta velocità e la giusta concentrazione.

Quando non mi riesce mi sento malissimo. Proprio malissimo.

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(731) Funghi

Il mondo dei funghi viene stimato essere popolato da oltre 3.000.000 di specie diverse. Impressionante vero? L’altra cosa impressionante è che soltanto digitando su google la parola “funghi” si aprirà una pagina con almeno altrettanti link a siti/blog/ecc. che si occupano appunto di funghi. Un universo fungino di cui si ignora l’esistenza se non ci si mette d’impegno a indagare. E lo si indaga se proviamo interesse o meno per l’argomento. Così per i funghi, così per tutto.

Per tutto. Proprio tutto tutto tutto tutto.

Persino gli spilli hanno il loro universo spillifero che contiene milioni di informazioni per lo più ignorate dai comuni mortali. Un vero peccato perché chissà quante cose ci potrebbero insegnare gli spilli – ora che ci penso me lo segno e vado ad approfondire la questione più tardi.

Questa banale riflessione parte da un dato di fatto: tutto ciò che non conosciamo non è che non esiste. Esiste, solo che noi non ne sappiamo nulla. Non ci passa neppure per la testa che ci potrebbero essere universi paralleli e perpendicolari a noi sconosciuti che varrebbe la pena conoscere. Pensiamo che tutto quello che stiamo vivendo sia tutto quello che c’è. Ci piacerebbe fosse così e ce la raccontiamo per non farci prendere da un coccolone. Se capita che esce fuori qualcosa che prima per noi non c’era ci sorprendiamo. Quasi ci scandalizziamo (come osa?!?). Siamo per lo meno infastiditi, ma non dalla nostra esplicita ignoranza – sia mai – bensì dal fatto stesso che quella cosa c’è e in qualche modo bisogna farci i conti. Ora che ci è comparsa dinnanzi dobbiamo decidere se negarla, se continuare a ignorarla, se indagarla e/o se farne la nostra ragione d’essere da qui alla fine dei nostri giorni. Un bel dilemma.

Credo che – considerato tutto – dovremmo pretendere il giusto da noi stessi e partire con un minimo di discernimento, per esempio: a meno che l’universo degli spilli non diventi indispensabile per la mia vita e/o per la vita di chi mi sta attorno è pur plausibile che io non lo conosca fin nelle viscere. Un’infarinatura generale può essere sufficiente. Però, se a un tratto questo spilloso universo diventasse vitale sarebbe mio dovere impararmelo a memoria per trovare il modo di salvare il mondo. 

Ecco, più o meno questo criterio dovrebbe domare il caos in cui siamo immersi. Ci metterei una bella chiusa, ora, tanto per gradire: se non sai di cosa stai parlando stai zitto. Se non sai di cosa si sta parlando stai zitto e ascolta. Se non sai di cosa stanno parlando, stai zitto, ascolta, fatti un’idea, studia una soluzione e poi con educazione parla e condividi. E chi non fa così è un troglodita. Amen.

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(544) Intervista

Sono stata intervistata e per me non è la normalità, di solito le interviste le faccio io. Grazie all’ascolto e alla capacità di gestire la situazione dei miei intervistatori è stata un’esperienza molto piacevole. Non ricordo esattamente cos’ho detto, perché non c’era nulla di preparato, ma lo saprò appena la riascolterò in radio.

Ho smesso di preoccuparmi, per questo. Forse sono una sconsiderata, per questo. Nonostante ciò faccio affidamento soltanto su una cosa: la mia incapacità a fingermi chi non sono. Questo mi mette al riparo da qualsiasi strafalcione io possa dire.

Nel tempo le cose escono, quelle vere e quelle non vere. Non voglio preoccuparmi di quel che sarà, quindi se resto fedele alla mia piccola verità non corro rischi inutili. C’è una grande apprensione nel cuore di chi non sa affermare la propria piccola verità e si affida al proprio talento narrativo gonfiando la portata del racconto. Le cose poi sfuggono di mano e la valanga ti travolge. Preferisco evitarlo.

Io scrivo storie, racconto storie, ma non mi racconto storie. Sono limitata, finisco presto. Quello che sono fa capo a quello che faccio e quello che faccio non è memorabile, non è magnifico, è soltanto onorevole. Ecco perché chi la racconta troppo grossa mi fa dubitare. Ecco perché chi si proclama umile mi fa scattare come una molla dall’altra parte della stanza. Ecco perché non faccio leva sull’opinione che ho di me per presentarmi agli altri, soltanto sulla realtà che ho potuto/saputo costruirmi e che per me può parlare senza menzogna.

Questa è soltanto una riflessione di fine giornata, non vuole di certo essere una esternazione egoica per prendermi un applauso. Anche perché finché non sono io ad applaudire me stessa nessun altro applauso potrebbe convincermi di essere la persona che vorrei essere. Che tipo di persona vorrei essere? Semplice: una che vive senza paura di essere o non essere, avere o non avere. E resta sempre questo il problema, aveva ragione Shakespeare.

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(506) Ambizione

E a un certo punto ti devi arrendere. I tuoi propositi, le tue aspirazioni non funzionano, all’ennesima prova devi mollare. Ti metti l’anima in pace e ti adegui, come fanno tutti. Perché non sei più intelligente degli altri, non sei il fenomeno che la vede più lunga di tutti, no. Ti devi rassegnare all’evidenza.

Non è la prima volta che l’evidenza ti sbatte in faccia la verità, non è la prima e non sarà neppure l’ultima perché, finché non lo avrai capito, l’evidenza rimane quella. Lei non sbaglia, tu sì.

Ecco, io continuo a ripetermi queste perle di saggezza e, nonostante le apparenze, io continuo a considerarle perle di saggezza condivisibili per logica e onesta analisi della situazione… non c’è falla nel discorso, fila tutto liscio, da A si passa a B e da B a C e… davvero, apprezzo tutto, proprio tutto.

Ma.

Non posso modificare le mie ambizioni, i miei desideri, i miei intenti, i miei propositi, me stessa. Non posso svegliarmi la mattina e essere altro, anche se qualsiasi altro io scegliessi di essere avrebbe più ragione e più merito di me. Non posso farlo, ci ho provato e riprovato, ma non posso farlo.

Non.

Posso.

Farlo.

Non c’è ombra di saggezza in questo, non c’è buonsenso, non c’è logica, non c’è nient’altro che ego molesto. Lo so. Ma non cambia nulla.

Rimango qui, calciando grumi di scoramento, tra domande retoriche e scuse claudicanti, rimango qui. Solida e scricchiolante. Solida e arrabbiata. Solida e stupidamente stoica. Senza neppure un perché, solo basandomi sul fatto che se fosse stato scritto da qualche parte che dovevo essere altro da quello che sono lo sarei stata. Non ho altro modo per esserci.

Purtroppo, in tutto questo, l’esserci ha per me significato sublime. E non ci sono sconti, non ci sono ripieghi, non ci sono censure al sublime. E se ancora non fosse chiaro, non è mia ambizione essere sublime, bensì guardare al sublime e niente di meno. E non c’è niente e nessuno che mi può oscurare o infangare la visione, il sublime sa trattenere il mio sguardo e mi impone perenne attenzione.

Posso smettere di parlare, ma smettere di essere ancora no. No, finché ce n’è.

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(475) Vetro

Non ho mai pensato che il mio corpo fosse delicato. L’ho sempre trattato con poco garbo perché è sempre stato solido, tutt’altro che esile, e mi pareva che questa sua apparenza fosse sinonimo di forza. 

Anche quando ho ricevuto lezioni cosmiche consistenti e me lo sono visto piegato dal dolore e davvero spaccato, ho sempre dato per scontato che fosse passeggero e che tempo qualche ora si sarebbe ripreso perché il mio è un corpo forte.

Improvvisamente, negli ultimi mesi mi sono accorta che non è così, che non lo è mai stato, che ho frainteso tutto.

Nonostante l’apparenza il mio corpo non è così possente, registra ogni cosa con una sensibilità assurda. Mi parla continuamente per mettermi in allerta, mi strilla giorno e notte che devo – una volta per tutte – mettermi in testa che non posso spingermi oltre. Non posso spingermi oltre i suoi limiti e i suoi limiti non sono lontani, sono qui. Proprio qui.

A volte vorrei essere di vetro così da guardarmi dentro e scoprire cosa succede, perché potrei capirmi meglio e capire meglio lui che da troppi anni mi sopporta e ancora non mi ha mollata. Accidenti che idiota che sono!

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(403) Laringite

Male di stagione? Eccomi pronta! E non sto a dire quanto mi girano le palle, che non sto bene e tutto è più pesante e che non posso mangiare, bere, dormire… insomma: laringite. Non è il colera, non è il caso di farla tanto lunga, lo so, ma ne farei volentieri senza. Grazie.

Questa premessa non è soltanto uno sfogo isterico (anche se potrebbe sembrarlo), è un modo per approfondire il pensiero (che ci vuole poco partendo dal basso) e arrivare all’illuminazione che in questi giorni di sofferenza mi ha aperto una via percorribile. Procederò con ordine: gola in fiamme = fatica e dolore anche solo a respirare, figuriamoci a parlare. Ergo: se non vuoi soffrire inutilmente stai zitta. Silenzio = Soluzione.

Il processo è disarmante nella sua banalità, ma se lo sperimenti su te stesso porta a risultati non così ovvi. Dovendo star zitta per la gran parte del tempo ho notato cose interessanti sia su di me che su chi mi sta attorno. Parto da me: parlare stanca, il silenzio dà sollievo. Io parlo troppo, senza se e senza ma. Farei meglio a parlare di meno, e questo farò d’ora in poi. Passando agli altri: chi mi conosce si aspetta che io parli, se non lo faccio si fermano e mi guardano come mi vedessero per la prima volta. Ho ricevuto più sguardi interrogativi in questi giorni che in tutta la mia vita. Non vorrei appesantire troppo la cosa, ma è possibile (direi anche probabile) che il mio parlare tanto vada a indebolire la mia comunicazione. Non è detto che sia proprio una risultanza matematicamente precisa, però sospetto che il punto sia proprio questo: sono esausta e un bel po’ di silenzio (direi qualche tonnellata al giorno) potrebbe essere il modo per arrivare ad una sorta di equilibrio.

Conto molto sul fatto che adesso la cosa mi risulta talmente chiara da non scordarla per un bel pezzo. O almeno fino alla prossima laringite. Amen.

 

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(306) Commento

Tutti hanno sempre qualcosa da dire. Sempre e ovunque. Sul web e nella realtà quotidiana, tutti lì sempre a commentare qualsiasi cosa. Anche se non se ne sa niente di preciso, anche se non ci riguarda, anche se quello che vogliamo dire può offendere e ferire qualcuno.

Chissenefrega, io lo dico, è un mio diritto, questa è ancora una democrazia o no?

Ecco: per te che la pensi così vorrei rispondere NO. Perché non voglio leggere o ascoltare i tuoi commenti, assorbire il tuo veleno, cibarmi dei tuoi nonsense e pensare a quanto tu sia idiota. No, stai zitto. Zitto. La democrazia è un’altra cosa: è costruzione e non distruzione.

Al di là di questo, mi sono trovata mille volte provocata (in positivo e in negativo) da post su facebook o altrove dove mi scappava proprio di dire la mia. Eppure, ho saputo frenare l’impulso, rifletterci meglio per qualche secondo, prendermi un paio di bei respiri profondi e… rinunciarci.

Perché? Perché, in fin dei conti, del mio commento il mondo non se ne fa nulla. A chi potrebbe fregare di quello che penso degli spaghetti aglio-olio-peperoncino? O dell’accoppiamento delle ranocchie brasiliane dalla pancia nera?

Lo so io: N-E-S-S-U-N-O. Ed è sacrosanto che sia così. Chiudere la bocca per evitare di sparare idiozie o cose del tutto inutili e pure fastidiose è difficile, ma è necessario. Vitale!

Quello che poi resta di noi è soltanto l’opinione volatile di un istante, perché cambiamo spesso idea e perché la coerenza non sappiamo neppure dove sta di casa, è un dato di fatto. Quindi, in alto il pudore e teniamo il becco chiuso (almeno quando non sappiamo di cosa diavolo si stia parlando).

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(305) Albero

Nel mio paese d’origine, piena campagna friulana, c’era una collinetta chiamata: Il Castelletto. Non c’era un castello là sopra, ma una bellissima compagnia d’alberi. Alti e con mille sfumature di verde. Se ti arrampicavi e raggiungevi i primi rami già potevi goderti la vista dei campi di mais e di frumento che si perdevano a distanza.

In mezzo alla collinetta c’era un tavolo di pietra con tre panchine attorno, sempre di pietra, e noi ci mettevamo lì da ragazzini per chiacchierare dei fatti nostri e poi rubare pannocchiette tenere da abbrustolire. Buonissime.

Gli alberi ci proteggevano, ci ascoltavano, ci facevano compagnia con il fruscio delle foglie e lo scricchiolio degli insetti che ospitava. Uccelli e qualche riccio e topi, ovviamente.

Una mia amica li sapeva riconoscere, catalogati per genere e forma delle foglie, la invidiavo moltissimo perché io non riuscivo a memorizzare tutti quei dettagli, dopo un paio di minuti di spiegazione già la mia testa era partita per la tangente immaginando quanta terra avrei visto se fossi stata capace di arrampicarmi fino in cima al più grande di tutti.

Oggi ho un albero tutto mio, è un melograno. Non lo faccio potare da un bel po’, non mi piace l’idea che qualcuno lo possa ferire, ma probabilmente sbaglio punto di vista. Comunque, fa tanti melograni ogni anno (che mangio solo io perché sono asprissimi) e a ogni stagione lo fotografo perché mi sorprende sempre constatare la sua impressionante capacità di mutare veste e restare sempre bellissimo.

Vorrei potessero parlare, gli alberi, sono sicura avrebbero storie pazzesche da raccontare.

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(255) Zitta

Ogni tanto me ne sto zitta. Cerco di dimenticare un po’ il suono della mia voce. Uso molto la voce e quando si stanca se ne va.

La seconda volta che se ne è andata era pieno inverno scozzese, non era affatto facile lavorare afona, ma mi sono rimessa al suo volere. Ero sorpresa, non usciva un suono dalla mia bocca per la prima volta dopo anni e non ero costretta a ribattere, non ero obbligata a interloquire, potevo evitare di dire la mia – una volta tanto. Una pausa benedetta.

La prima volta che è successo mi erano state tolte le tonsille. Una settimana di bigliettini su cui appoggiavo le parole con l’inchiostro blu, nero, rosso o viola – assecondando l’umore. Dapprima irritata, poi compiaciuta: nessuno si aspettava nulla da me, potevo pensare e basta.

Dare modo alla mia voce di riprendersi il sacrosanto diritto al silenzio è un dovere che mi sono negata per troppo tempo. Spesso sono stata zittita malamente da qualcuno, ma ha funzionato soltanto per il tempo dello stupore. La reazione ha sovrastato ogni aspettativa. Se resto parlo, e posso dire troppo, se me ne vado ti consegno il mio silenzio imposto e quello urla a più non posso.

Ecco, ogni tanto me ne sto zitta. Non tutto il giorno e non per sempre, ma mi prendo lunghe ore per lasciare libera la mia voce di viversi silente. È quando la sento in affanno, furiosa o confusa. Le lascio il tempo di riprendersi, d’altro canto è lei il mio sostegno.

E, zitta zitta, osservo e ascolto. Osservo e ascolto. Qualche volta scrivo. Anzi, spesso scrivo.

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(204) Ehmmm…

Perplessità. Ci sono volte in cui ho bisogno di tempo per farmi un’idea e quindi rimando la chiacchiera. Ci sta, è una cosa che ho imparato con gli anni e l’esperienza: se non hai le idee chiare (anche se non necessariamente definitive) stai zitta. Cosa ben diversa quando il pensiero è nitido, tagliente, impietoso e decido di evitare di aprire bocca per non farlo uscire. Solitamente scatta nel mio interlocutore un violento istinto kamikaze che lo spinge a provocarmi finché sbotto e ciao. La catastrofe mi si palesa davanti e l’inevitabile accade. E accade sempre.

Da dove nasce quindi la mia perplessità? Da un semplice dato di fatto: appurato che potrei essere ribattezzata Cassandra visto il numero infinito di volte in cui ho detto una cosa sensata (se non addirittura intelligente) senza essere minimamente presa in considerazione se non dopo che la conseguenza si sia resa evidente (nove volte su dieci era prevedibile, niente di trascendentale), mi chiedo perché io continui a crollare quando riconosco l’arrivo della provocazione anziché girarmi e andarmene?

Lo ignoro bellamente.

Dev’esserci qualcosa che mi scatta dentro e che mi inibisce la comunicazione sinaptica, immobilizzandomi gli arti e al contempo sciogliendo la capacità dialettica per far uscire quei pensieri, esattamente quelli che producono la catastrofe anche se soltanto io ne conosco la portata – che va ben oltre quel che si vede.

Partendo da questa lecita perplessità, la domanda nasce spontanea: perché non appellarsi a quel soprascritto Lo ignoro bellamente e forzare un cambio di dinamica che si basi sul vuoto – di conoscenza – anziché sul pieno?

Ehmmm… perché sono Cassandra e alla Ruota del Saṃsāra gliene frega un cavolo di farmi vivere tranquilla. Ecco.

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(201) Divieto

Non si può. Non si può dire, non si può fare, non si può pensare, non si può capire, non si può immaginare, non si può partire, non si può restare, non si può benedire né maledire, non si può bestemmiare né pregare, non si può parlare, non si può ascoltare, non si può odiare, non si può amare, non si può.

A voler ben vedere possiamo mettere veti a tutto e ancora non basterebbe, l’Essere Umano troverebbe comunque il modo per dire, per fare, per pensare, per capire, per immaginare, per partire e per restare, per benedire e maledire, per pregare e bestemmiare, per ascoltare e parlare, per odiare e amare, per vivere.

E se un divieto ci deve essere allora deve essere motivato da una questione di vita o di morte reale, non dai capricci di un egotico irrazionale con ambizioni folli in cui la distruzione diventa il dio a cui votarsi.

Noi Esseri Umani possiamo tutto, non dovremmo perché non siamo abbastanza intelligenti per autogestirci, ma in realtà possiamo tutto.

Questa è sempre stata e sempre sarà la nostra rovina.

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(170) Ascolto

Se parlo non posso ascoltarti. Se mentre parli penso ad altro non ti sto ascoltando. Se non ti ascolto non so cosa mi stai dicendo. Se ti ascolto solo parzialmente, perché so già dove stai andando a parare, potrei sbagliarmi.

L’ascolto va al di là delle parole, si aggancia al significato che le parole accompagnano al silenzio. Ci sono le pause e le intonazioni. Ci sono gli accenti e le titubanze. Ci sono le parole che si ripetono e diventano ossessioni e ci sono concetti che a dirli in poche parole perdono sostanza trovandosi monchi.

Potrei scrivere dieci pagine sull’ascolto e averne ancora altre dieci che s’impongono alla tastiera e ancora non sarebbe abbastanza.

Una cosa non posso insegnare, a nessuno: ad ascoltare. Non posso impedirti di parlare sopra alle mie parole. Non posso importi di concentrarti su quello che sto dicendo, mentre ti sto parlando. Non posso farti arrivare quello che tu non sei pronto a ricevere o a cogliere. Non posso obbligarti ad attendere i miei tempi prima di trarre le tue conclusioni.

Una cosa sola posso: smettere di parlarti. Quando mi succede, quando succede che smetto, non c’è ritorno. E non mi dispiace affatto.

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(161) Opposizione

Non la prendo mai troppo sul personale. Se qualcuno mi si oppone, d’istinto penso che non sia un mio problema. Nel senso che ci arrivo sempre un po’ dopo a capire che sono io il problema – quando lo sono, intendo. Non penso che il mondo ce l’abbia con me, non penso di poter essere un disturbo per il mondo come non penso di essere per il mondo una gioia.

Voglio dire: niente di personale.

L’opposizione, però, mi incuriosisce. Scatta in me la voglia di saperne di più. Chi sei? Cosa stai pensando? Perché decidi di farti muro, qui davanti a me, e speri che io ci sbatta la testa? Perché sei arrabbiato?

Divento noiosa. Divento ficcanaso. Divento invadente.

Anche se non lo esplicito, inizio a pensarci e perdo mordente. Non mi va più di scagliarmi a difendere la mia posizione, come facevo da ragazza. Ora incasso meglio. Mi prendo quel che mi devo prendere, cerco di ascoltare con attenzione le risposte silenziose dietro al colpo e poi lascio sedimentare.

Non è un blocco, è un motivo per una riflessione più approfondita che riguarda soltanto me.

Le opposizioni dei ragazzi sono solo scogli in cui le onde vanno a sbattere. A volte, questi scogli, vorrebbero frantumarsi e farsi onde perché essere scoglio non dev’essere troppo divertene. Questa è soltanto una teoria, molto personale, sulla questione. Sta di fatto che chi fa opposizione intelligente e mirata ti fa dono della sua attenzione. Se non altro per avere la meglio.

Catturare l’attenzione di qualcuno non è cosa da sottovalutare. Un’opposizione non è cosa da sottovalutare. Costa a chi la fa e anche a chi la subisce. Un gioco equo, vince chi argomenta meglio.

La Retorica questa sconosciuta!

RETORICA  re·tò·ri·ca/   sostantivo femminile
  1. 1. L’eloquenza come disciplina del parlare o dello scrivere, fondamento di gran parte dell’educazione letteraria dall’antichità classica fino a un’età molto recente ( la r. greca, romana, bizantina ; maestro di r. ).

 

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(23) Voce

Riconduce a te, svela al mondo chi sei. Nella voce ci sono le tue origini, i posti in cui hai vissuto, la gente con cui sei venuto in contatto. Ci sono movimenti fluidi o sgraziati di pensieri. Cadenze difficili da smantellare, toni difficili da confondere. Nella voce ci sono i tuoi colori.

Ho usato molto la mia voce, in modo sconsiderato per lo più. La usavo perché ce l’avevo e anche se non mi soffermavo sui dettagli (come veniva percepita, per esempio) la usavo perché volevo farmi ascoltare.

Bambina introversa, ragazzina con troppe cose da dire.

La voce va usata. Certo, va usata bene, va usata con criterio. Direi addirittura “con maestria”, sì. Non va bene lasciarla a riposo, non va bene far finta che non ci sia, non va bene buttarla fuori per offendere, ferire.

La nostra voce è la chiave per aprire le porte all’incontro o per crearci un nemico. È sensibile agli sbalzi di temperatura, è sensibile agli sbalzi d’umore, è sensibile agli sbalzi emotivi. Ci insegna a farci caso: freddo/caldo, giososo/incazzato, commosso/insofferente.

Se ami la voce ti si fa gentile. Se odi diventa tagliente.

Puoi darle forza riempiendoti i polmoni, puoi sollevarla piano con un soffio impercettibile. Lei può rassicurare tanto da far passare la paura. Lei può affermare la tua posizione per indurre al rispetto. Lei può far nascere un sorriso per rendere le parole meno dure.

Certo, può anche minacciare, mortificare, sobillare, inveire, ferire a morte. Sta a noi scegliere come usarla, ma puoi scegliere se ne sei consapevole. Pertanto, l’educazione alla voce credo sia una delle arti più importanti da coltivare.

La tua voce, se l’ascolti, accorcia le distanze tra te e l’immagine che hai di te. Ti rende più vero anche agli occhi di te stesso. Devi solo ascoltarti.

b__

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