(989) Tragitto

Ci sono variabili e varianti da considerare, sempre. Ogni volta che qualcuno ti racconta la sua storia, individuare tra le righe l’origine della partenza del suo tragitto è indispensabile per comprendere le regole e le dinamiche di quel viaggio. È una cosa sottile sottile, delicata delicata, ma è necessaria. Se non lo fai rischi di fare danni, magari a chi non lo merita affatto.

Diamo per scontato che tutti noi percorriamo sentieri poco illuminati più che autostrade con lampioni equidistanti che ti accompagnano chilometro dopo chilometro. Diamo per scontato che si viaggia sempre di notte, non sappiamo chi siamo, ci conosciamo giusto quel pezzettino che di noi abbiamo già sperimentato vivendo fin lì, ma quel che abbiamo davanti lo ignoriamo bellamente. Diamo anche per scontato che certe cose te le scegli e altre ti vengono imposte, senza cattiveria perlamordelcielo ma la crudeltà in certi casi è inaudita.

Quindi, dicevo, il tragitto ha variabili e varianti, che o le intercetti e le guardi per bene o non capirai mai niente. Mai niente. 

Il mio primo dubbio: è proprio indispensabile che tutti capiscano tutto? 

Il mio secondo dubbio: è auspicabile?

Il mio terzo dubbio: è sano?

Credo di no. Credo proprio di no.

La cosa che però, ancora e ancora e ancora, mi riporta a casa è che questi tragitti se compresi davvero ti offrono talmente tante riflessioni e piccole-infinitesimali illuminazioni che sarebbe un peccato perdersele. 

Al momento sono ferma qui, la stazione è deserta, il bosco attorno filtra la luce di una luna piena che è più morbida di qualsiasi sole in qualsiasi stagione si possa immaginare. Il silenzio è apparente, ci sono voci sussurrate che ancora non so comprendere, ma ho tempo.

Credo ci sia ancora un po’ di tempo per me per riuscire a comprenderle.

Spero.

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(766) Uomini

Perché parlare non basta, sono i fatti che dimostrano chi sei. Quando il dubbio su chi sia il migliore neppure ti sfiora, la gentilezza si spande soffice e uniforme senza squilli di trombe. Non ci sono sguardi stonati, non ci sono imposizioni. Nessun sottomesso e nessun padrone. Che a scriverlo sembra fantascienza, vero?

Non nasci per servire qualcuno, neppure l’uomo che hai scelto di accompagnare. E se tu accompagni lui, lui accompagna te.

L’ascolto segue binari fluidi, forse ritmi diversi e tonalità che fanno da contrasto, ma non è guerra, potrebbe piuttosto essere un concerto strampalato. Che quando si è in due a suonare, anche fosse la stessa canzone, qualche nota dallo spartito può scappare e se ritorna la si risuona meglio, più sicura, basta volere un’altra occasione.

Quando si sbaglia si chiede scusa, non perché la pensiamo diversamente però. Non ci si scusa per ciò in cui si crede, si spera, si sogna.

Gli uomini, quelli che vorresti incontrare, sono quelli che sanno chiedere pronti a ricevere risposte che non si aspettano eppure accettano perché nient’altro saprebbero fare se non comprendere. Sono quelli che non si fanno intrattenere  per non pensare, sanno condividere per approfondire quel che serve e capire meglio quello che non conoscono. Senza paura, senza inganno.

Noi donne amiamo volentieri anche gli uomini che dicono di non voler essere amati perché raramente ci fermiamo alla superficie. Le cose dette volano via nell’istante in cui si aprono al suono, i fatti si posano – per rimanere – sulle Persone e sulle Cose e sulla Vita e sulla Morte. Anche sull’Amore.

Soprattutto sull’Amore.

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(740) Felicità

La comprensione è una buona sorgente di felicità. (Daniel Pennac)

Non credo di poter essere più d’accordo con Pennac di quello che già sono. Un modo fantastico di definire il piacere di avvicinarsi a qualcosa o a qualcuno con l’intenzione di conoscere e di comprendere. Non c’è bisogno di fare altro, solo comprendere.

Non dobbiamo trovare soluzioni se non ne siamo in grado. Non dobbiamo offrire la parola giusta se non ne siamo capaci. Non dobbiamo inventarci chissà quale fantasioso gioco di prestigio se le carte ci cadrebbero rovinosamente dalle mani. Dobbiamo soltanto essere disposti a metterci in una posizione dove le informazioni e le emozioni che riceviamo si possano posare per farsi comprendere.

La nostra mente ce lo impone: non siamo tranquilli finché non capiamo, vero? Il nostro corpo non si muove se non capisce cosa deve fare, giusto?

Quando siamo presenti e la comprensione si compie tutto fila liscio, non c’è bisogno di preoccuparsi, non c’è bisogno di inventarsi nulla, si va e si fa. Semplicemente. La domanda, però, rimane: perché non ci fermiamo a comprendere anziché partire in quarta e incasinare tutto? Perché non ci mettiamo nelle condizioni di comprendere invece di scagliarsi contro tutto quello che ci risulta incomprensibile al primo colpo? Perché pensiamo che il mondo debba essere comprensibile a tutti e in qualsiasi momento nonostante la sua disarmante complessità?

Che pretese abbiamo nei confronti del nostro prossimo, se non riusciamo a comprendere neppure noi stessi?

Pennac, aiutaci tu!

 

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(665) Lucidità

Faccio fatica a mantenere il controllo. Ormai è un dato di fatto. Faccio fatica. Non significa che l’ho perso il controllo, significa che faccio fatica. Fatica. Fatica. Fatica. 

La fatica uccide la lucidità. Quindi in realtà ho perso la lucidità. Eccoci al punto.

Essere lucidi è essere veloci, agili, vigili. Una gran condizione per affrontare qualsiasi cosa il mondo ti butti addosso. Lascia stare l’intelligenza e la sensibilità, perché spesso sono proprio loro a minare la lucidità di pensiero. Un giorno un amico mi ha detto: “Sei talmente intelligente da risultare stupida”. Sbang. Estremizzare l’intelligenza non ti rende migliore, evidentemente. La sto ancora digerendo ‘sta cosa, comunque. Vabbé, piano piano, ho i miei tempi.

La sensibilità, che è propria di chiunque al mondo respiri (mondo vegetale compreso), riduce drasticamente la capacità di discernere, di comprendere, di tenere le briglie di una realtà che cambia e si stravolge a seconda dell’angolazione da cui la guardi. E siamo tutti in balìa degli eventi – volevo aggiungere un’ulteriore banalità, così da rendere evidente la mia stupidità (no, non l’ho ancora digerita).

Ritornando alla faccenda del controllo, ormai me ne sono fatta una ragione: tutto quello che riesco a maneggiare con padronanza si può contare sulle dita di una mano, una mano di tre dita – tipo Ben-nemico-del-mal (ndr. che tutti noi quarantenni conosciamo bene) – e mi rifiuto di trasformare questo limite in un cruccio. Va bene, me ne posso fare una ragione, non controllo un cavolo fritto da una vita e non cambierà mai, neppure con l’avanzare della vecchiaia. Amen. 

Ciò non toglie che la lucidità me la voglio riprendere, non so ancora come, ma voglio proprio riprendermela tutta. Al più presto. Grazie.

 

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(664) Acquerello

Stendo il colore a veli, ecco cosa faccio. Una cosa delicata e come tale deve essere trattata. Non è così però che viene accolta. Non c’è cura in chi osserva questo mio fare, sembra che sia cosa da nulla, ma velare la realtà con i colori è il mio modo per rendere tutto più bello. Anche quando il bello si fatica a trovarlo. Questo faccio. Cosa da nulla, mi ripetono, ma io continuo a farlo perché un altro modo di vivere non l’ho ancora trovato – molto probabilmente. Il modo di vivere degli altri non mi convince, preferisco il mio. Mi auguro che funzioni per tutti così, deve funzionare così per tutti perché tutti possano abbracciare quella sottile libertà che è scelta e che è colore.

Certo che in sere come queste vengo annullata dall’idea di inutilità che è sempre lì in agguato, ma sono decisa a continuare. Stendo un velo di colore e provo a rendere concreta quella sfumatura che sfugge al controllo. Se riesco a riportarla sulla carta così come l’ho sentita forse ho ancora una speranza.

Comprendere troppo gli intrecci umani non è sempre una buona cosa, comprendere non è sempre una buona cosa. Solo che girarsi dall’altra parte non mi è possibile. Non mi è proprio possibile.

Tolgo le asprezze, spennello ombreggiature, l’acqua aiuta a non marcare troppo i contorni, toglie alcuni ostacoli. Non posso smettere di farlo, non posso smettere di comprendere, posso farlo meglio. Posso solo cercare di farlo meglio. La stanchezza, l’amarezza, l’arrabbiatura, tirano calci che mi fanno vacillare eppure intingo il pennello nel colore che sento amico con gocce che l’aiutano a scivolare sul foglio e sia quel che sia.

Dormirò il mio sonno, anche stanotte, senza timore.

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(579) Benestare

E un giorno smetti. Così di colpo. Non ti riconosci più, ma non ci pensi un attimo. Sai che è arrivato il tempo di smettere e sai che ci hai messo fin troppo a capirlo e a prendere la decisione più sana di tutta la tua vita.

Smettere di chiedere il benestare di chi ti sta attorno per fare quello che senti di dover fare per stare bene, è il primo passo verso la salvezza. Io ho iniziato a diciannove anni e non mi sono più fermata. Per questo sono ancora viva.

Non significa che non sento ragioni e faccio sempre di testa mia – ora che ci penso è così, ma posso spiegare meglio…

Non significa che non ascolto quello che chi mi vuole bene pensa al riguardo e magari i consigli che mi vengono offerti, li ascolto, davvero, li ascolto tutti. Ma faccio di testa mia. Invariabilmente. Senza cedere di una virgola. Faccio quello che la mia testa mi dice. Perché la mia testa ci ha pensato e ripensato, ha valutato, ha soppesato, ha tolto, ha aggiunto, diviso e moltiplicato. Ha fatto un salto in avanti, due di lato (ds e sn) e uno indietro; ha guardato bene, tutto quello che poteva vedere l’ha visto, tutto quello che poteva sentire l’ha sentito, tutto quello che poteva immaginare l’ha immaginato. Quello che non ha visto, sentito, immaginato è comunque lontano da me e neppure se me lo racconti mi convinci. Perché se non lo vivo non lo conosco. Tutto qui.

Ovvio che ci sono cose che non intendo vivere e di cui mi basta una vaga idea – mi serve per tenermi a distanza – ma quelle che penso facciano per me, allora sì. E lo so che potresti non essere d’accordo, che mi vorresti evitare un danno, che ti preoccupi per me. Eppure…

Eppure se io avessi aspettato il benestare di qualcuno per ogni passo che ho saputo fare, se avessi creduto a ogni spauracchio mi si fosse palesato davanti evocato da chi la sapeva più lunga, se avessi pensato che non sapevo e non potevo decidere per me e per la mia vita, io sarei morta dentro. Non avrei vissuto cose meravigliose e anche cose dolorose, non avrei capito quanto ero lì per imparare e quanto invece già conoscevo, non avrei messo alla prova tutte le mie insicurezze e i miei gap – ridicoli e non – e non avrei compreso meglio la voce che mi guida nonostante tutto e nonostante tutti, nonostante me.

Non c’è benestare che tenga. Il permesso me lo do io, per fare e per non fare. Così è. Che piaccia o no, questo non è affar mio.

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(269) Assurdità

Importante recuperare il significato di assurdità, apre nuovi orizzonti:

assurdità s. f. [dal lat. tardo absurdĭtas -atis]. – 1. [l’essere assurdo] ≈ illogicità, incoerenza, incongruenza, incredibilità, irrazionalità, paradossalità, sconclusionatezza, stramberia. ↑ follia, pazzia. 2. [cosa, affermazione assurda] ≈ assurdo, (fam.) bestialità, controsenso, follia, idiozia, nonsenso, paradosso, sciocchezza, stramberia, stupidaggine.

La cosa più interessante è che ormai non ci facciamo più caso. Siamo talmente bombardati da cose assurde che ci sembrano quasi intelligenti. Potrei fare una lista impressionante di assurdità che ci vengono ripetute, e che noi ripetiamo come lobotomizzati, soltanto perché lo si dice, lo dicono, e dev’essere così. Ma è assurdo! Ah… davvero? Non lo so, se lo dicono, se si dice, se è così non può essere assurdo, ci dev’essere almeno qualcosa di intelligente anche se non è così evidente… no?

NO!

Una cosa assurda rimane assurda anche se tutto il mondo pensa che non lo sia. Il buonsenso che abbiamo preso a martellate per secoli non ha neppure più la forza di alzare la testa per ricordarci che esiste, lo abbiamo detronizzato e lui s’è arreso. E così l’assurdo ha preso il controllo, le bestialità si sono allargate, e noi non ci facciamo più caso o se lo facciamo dura al massimo due secondi e poi passiamo oltre.

Quello che ancora non abbiamo realizzato, sarebbe ora di farlo ma non è che certe cose accadono con una randellata in testa – sfortunatamente, è che assurdità + assurdità = assurdità (n)  e questo è sempre sinonimo di disastro. So che si fa fatica ad ammettere di stare pensando delle assurdità, ma riprendiamo il controllo sant’Iddio! Adesso! Subito!

Quando qualcuno sta dicendo una bestialità (o la sta facendo) è nostro dovere bloccarci e farglielo presente: quello che stai dicendo è assurdo. Punto e basta. Non serve discutere, spiegare per far comprendere, non serve, ma dirlo potrebbe essere utile. Senza neppure incazzarti, soltanto lo dici: sei assurdo. Stop.

Io lo faccio. Non ho molti amici, ma almeno non sono circondata da folli imbecilli privi di buonsenso. Amen.

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(176) Occhi

Sono astigmatica, e manco poco, perciò vedo tutto sfocato come se fossi dentro il sogno di una favola. Non mi dispiace vedere così, l’ho scoperto a 17 anni e prima di allora le cose non erano diverse dal dopo. Quindi pace.

Certo, se mi metto gli occhiali e il difetto mi si corregge vedo meglio, tutto più nitido, addirittura brillante. Alle volte tanta brillantezza mi dà fastidio. Sono abituata alla mia confortante opacità ovattata e calibro l’uso degli occhiali dosando la brillantezza nella mia giornata con una certa attenzione.

Leggere mi obbliga a mettermi gli occhiali e io leggo molto, per cui gran parte della mia giornata gli occhiali mi colpiscono di brillantezza. Se voglio prendermi una pausa e farmi un caffè, però, mi tolgo gli occhiali. Stacco dalla brillantezza e mi rifugio dietro al mio velo.

Insomma: gestisco i miei occhi come meglio credo. Come tutti, immagino.

Da qui può partire la mia riflessione serale: decido io cosa i miei occhi devono vedere, che io ne sia consapevole o meno. No, non si tratta solo degli occhi, si tratta anche di comprensione, di ascolto, di attenzione, di coraggio (o mancanza di coraggio), di voglia di verità (più che si può, ben sapendo che più in là di una certa percentuale non si va).

Oggi i miei occhi hanno visto tutto quello che potevo vedere. Anche ieri, anche l’altro ieri, anche il giorno prima. Tutto quello che posso vedere i miei occhi lo afferrano. Mi domando quanto sia l’ammontare di ciò che non posso ancora vedere. Mi domando se sia meglio non poter vedere tutto. Mi domando se il vedere di più aiuterebbe i miei occhi e il mio cuore.

Forse no.

Benedetto astigmatismo!

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(1) Silenzio

Preferisco il silenzio. Non lo pratico abbastanza, ma dovrei. Funziono meglio quando sto in silenzio, quando non ho l’illusione di essere capita. Lasciamo stare l’essere compresa, quella è faccenda utopica, ma l’essere capita quando uso le parole è cosa che do (spesso e stupidamente) per scontato.

Tempo fa mi arrabbiavo (ma sono tutti stupidi!), poi ho creduto di capire (ma sono io la stupida!) e ora raccolgo tutto nel silenzio, in sospensione di giudizio. Rimane il dato di fatto: l’incomunicabilità non riguarda il resto del mondo. Riguarda me, riguarda tutti.

Ora do per scontato che le parole abbiano più vite contemporanee, più livelli d’esistenza, più facce e diverse intensità. Se guardo la cosa da questo punto di vista, sorrido.

Quante possibilità mi si aprono davanti. Quante!

b__

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