(763) Scalinata

Anche senza pretendere di essere Wanda Osiris (ma quanto sono vecchia per ricordarmi questa signora?!) le scalinate mi sono sempre risultate un po’ ostiche. Sia a scenderle che a salirle. Per scenderle devo sperare che i miei occhi non si incrocino facendomi vedere doppio, per salirle devo augurarmi che le mie ginocchia non vogliano abbandonarmi proprio in quel mentre. In poche parole: detesto le scale. 

Un paio d’anni fa son volata come si fa al Cirque du Soleil e ancora mi porto addosso le conseguenze (no, non ho sbattuto la testa ma quasi). Tanto per andare sul concreto e convincervi della mia posizione: le scalinate mi son nemiche.

Per assurdo, però, mi piace guardarle. Soprattutto dal basso, perché salire sarà anche più faticoso, ma scendere non porta proprio benissimo (a mio modesto avviso). Questo discorso a dir poco idiota lo sto facendo per motivi che mi sono oscuri, ma non sempre so di pensare quello che sto pensando, a meno che non mi metta a scriverlo. Averlo scritto fa la differenza.

Forse tutto m’è partito dal fatto che oggi ho potuto condividere con i miei colleghi la magia dello storytelling e che questa sia arrivata dritta a loro senza bisogno di spiegazioni. Mi sono sentita come se avessi fatto la scalinata in salita – cercando di mantenere ritmo e concentrazione – e poi una discesa a piedi veloci e occhi fermi finché non sono arrivata in fondo. Una bella sensazione. Mai provata prima. Speravo arrivasse questo momento, è arrivato e… bene.

Bene perché mordere sempre il freno mi ha quasi spaccato la mandibola. Bene perché parlare a metà è peggio che non parlare affatto. Bene perché c’è solitudine nella scrittura, ma fino a un certo punto. Bene perché sono decenni che faccio scale in salita e che poi scivolo giù senza quasi toccare un gradino frantumandomi l’amor proprio. Bene, davvero bene.

Forse sono solo una patetica donnetta, ma tanto vale esserlo fino in fondo. L’ho già detto che le cose a metà fanno più danno che giovamento, no?

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(541) Topico

Arriva il momento in cui sei chiamato all’azione: il momento topico. Raramente il momento dura un momento, molto più spesso si tratta di giorni o settimane o mesi o anni, ma sempre di periodo topico si tratta. Te lo senti dentro, nelle ossa scricchiolanti, nel sangue reumatico, nelle sinapsi stressate, che non puoi far finta di nulla. 

Un tempo pensavo – che patetica ingenua! – che quel topic-moment si potesse verificare un paio di volte nella vita (se eri fortunato, se eri sfigato qualche volta in più), mai avrei immaginato – patetica ingenua dell’ostrega! – che fosse stato per me programmato un dannatissimo loop capace di accompagnarmi forever

No, non starò qui a lamentarmi perché non serve a nulla, ma faccio solo presente che ancora non me ne so capacitare. Voglio dire: ma siamo matti?! Quanti momenti topici un cuore può sopportare? Eh? Quanti? No, non voglio sentire la risposta, era una domanda retorica santiddddio!

Dovrebbe esserci un limite dettato da Madre Natura o da Dio in persona. Qualcosa che somigliasse a un salvavita del cavolo, appena raggiungi il limite… tac, scatta e te la sfanghi. Perché se non ti uccide il fattore topico, ti uccide l’ansia. Quella non ti passa. Non è che si prende una vacanza solo perché ci tiene alla tua salute, no. L’ansia rimane lì. Anzi, l’ansia è lì per sopravvivere a te stessa. Il suo compito preciso e di osservarti mentre ti disintegri e ridere di te. L’ansia, capito?

Ok, chiarito questo concetto, credo, temo, prevedo con assoluta certezza che sto per entrare nell’ennesimo momento topico. Non so dire quanto durerà, so solo che l’ansia è già qui, mi sta guardando sorniona e vincerà. Sì, lei vincerà perché lei vince sempre.

Addio.

 

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