(972) Sfidare

… la Sorte. Si dice così, no? Più che altro sfidiamo noi stessi, chi ci crede alla Sorte? 

Già alzandoci dal letto al mattino ci mettiamo in gioco, sfidando noi stessi ad arrivare a fine giornata interi. Chi e cosa incontreremo durante le ore seguenti non è così importante, la cosa che conta è che abbiamo intenzione di arrivarci a sera e arrivarci intatti. Con questo stato d’animo affrontiamo quel che arriva e che il cielo ci aiuti!

Tirarsi indietro, alzarsi e passivamente andare incontro alla Sorte ci fa sentire deboli e sconfitti, anche se non lo siamo. In realtà non lo siamo. Forse pensarci così ci aiuta a sopportare meglio i colpi? Non lo so, sentirci vittime inermi non è un bel sentire e a fine giornata non è che sei granché soddisfatto di essere sopravvissuto, lo dai per scontato: non hai reagito, non hai agito, non hai deciso, non hai fatto nient’altro che trascinarti e renderti invisibile così che la Sorte non si accanisse contro di te.

Non è che se alzi la testa sfidi la Sorte chiedendole di darti i colpi ancora più forte tanto tu non crolli. Sfidi le tue paure, i tuoi mostri, più che altro. “Nun te temo” (alla romana) lo dici alla parte di te che vorrebbe scomparire per non dover affrontare tutto quello che comunque accadrà appena sbuchi fuori e ti interfacci con il mondo. Accadrà comunque. Anche se non vuoi. Nonostante te.

Come andrà? Lo sapremo soltanto a sera fatta, quando tireremo le somme. E essere arrivati a fine giornata può essere una vera vittoria se sfidando ogni atomo oscuro che ci portiamo dentro siamo riusciti a sorridere, a dare un abbraccio a chi se lo meritava, a metterci la passione che abbiamo in un progetto, a combinare in generale qualcosa di bello. 

Le sfide ci servono per dimostrarci che ci siamo e che contiamo. Perché essere vivi non è cosa da poco e un applauso, ogni tanto, ce lo meritiamo. 

Clap clap clap.

 

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(443) Applauso

Certe volte mi farei un applauso. No, non sono ancora arrivata a farmelo davvero – il clap-clap di mani, intendo – ma nella mia testa certe volte l’applauso è scoppiato, lo ammetto. In un paio di occasioni una vera standing ovation, e di notevole durata. 

Quando dico esattamente quello che penso, con chiarezza fulminante, senza paura delle conseguenze. Quando si avvera una previsione fatta sulla base del mio “sentire” di pancia. Quando vedo del bene dove si fa fatica e alla fine il bene si palesa. Quando non faccio calcoli, non faccio pensieri, mi butto e basta e l’esperienza mi rende migliore. Quando non mando a quel paese chi se lo merita, e non perché io sia buona, ma perché non m’importa di far valere il mio ego ferito. Quando – nonostante me ne renda conto – tengo botta e vado fino in fondo per prendermi la fregatura che avevo intuito, perché solo così poi posso buttarmela alle spalle. Quando dico no, anche se vorrei dire sì. Quando dico sì, anche se non sarà facile né comodo né indolore, ma so che è giusto dirlo e non mi tiro indietro. Quando vado oltre la mia pigrizia, lo scazzo, e faccio – semplicemente faccio.

L’applauso serve a darmi coraggio, serve come anticipo d’energia per le batoste che ancora mi aspettano, serve a dirmi “brava, ci sei” perché non mi sento mai brava e penso sempre che esserci sia più una croce che una delizia.

Non è che dopo l’applauso mi senta Wonder Woman, intendiamoci, ma mi fa stringere i denti ancora per un po’ e di po’ in po’ la vita mi si compie tra le mani, illuminandosi sotto i miei passi come le piastrelle del video Billie Jean di Michael Jackson. Con il clap-clap tengo il ritmo, e mi piace perché so che la musica non dura per sempre e le canzoni troppo lunghe non piacciono a nessuno. Almeno non a me.

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