(1089) Appollaiata

In questi giorni me ne resto sul mio, sorniona, e osservo tutto. Sono tranquilla, sono consapevole e sono determinata. Non so quanto durerà, ma godermi questo momento è tutto. Avere un piano aiuta.

Ci sono dei momenti nella vita dove hai la divina visione panoramica di dove sei stata, dove sei e dove stai andando. Tutto insieme. Dall’alto. Credo sia uno di quei momenti benedetti dove ti si aprono le porte della percezione e puoi essere per qualche istante intoccabile. Invincibile.

Stare appollaiata quassù mi permette di essere invisibile. Pochi alzano la testa per guardare chi sta in alto, solitamente si è abituati ad abbassare la testa per non inciampare in qualche brutta cosa che è stata sparsa sulla nostra strada. Non so perché non abbiamo un paio d’occhi in più, Madre Natura non ci ha pensato, ma avrebbe dovuto. Forse ci ha pensato ma non l’ha fatto per non implementare la nostra possibilità di distruggere tutto ciò che vediamo. Scelta condivisibile, ma a me avere un paio d’occhi in più piacerebbe.

Certo, abbiamo il terzo occhio – che è sempre meglio di niente – eppure rimane per lo più inutilizzabile perché obnubilato dal maledetto Velo di Maya (grazieArthur Schopenhauer), che anche lei se si facesse i cazzi suoi e se lo ripigliasse indietro non farebbe una brutta cosa. Avrebbe di certo la mia gratitudine.

Fatto sta che sto quassù e quassù non si sta affatto male. Mi ci potrei abituare e magari scendere soltanto per fare provvista e sgranchirmi le gambe. Una sorta di Baronessa Rampante (grazie Italo Calvino) contemporanea. Mah.

Ci sono cose che non serve dire, altre che non si dovrebbero dire, altre ancora che è meglio non si dicano. Ci sono cose che devono essere dette, ma al momento giusto. Indovinare quel momento non è facile. Ci si può arrivare facendo attenzione e tenendo presente che la cosa giusta al momento giusto non crea danno a nessuno e non crea sofferenza a nessuno. Un dovere morale che se rispettato ti solleva da ogni responsabilità.

Quassù tutto mi è chiaro. Appena scendo non è detto che io riesca a mantenere la rotta. Se faccio casini ritorno quassù. Promesso.

 

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(1066) Anomalie

Quelle cose, spesso dettagli, che non tornano. Non tornano per un sacco di motivi, non tornano e basta. E vorresti fare le domande giuste per avere finalmente le risposte che ti risolverebbero dubbi e malesseri, ma senti che non puoi, che andresti a toccare delicati meccanismi che a sfiorarli soltanto si innescano disastri.

I disastri spaventano.

Anomalie come se piovesse, ovunque. Domande che non si fermano dentro la testa e che se qualcuno presta attenzione ai tuoi occhi le legge anche, prima di girarsi dall’altra parte. 

I disastri spaventano.

E le occasioni non mancano e, a voler ben vedere, le occasioni si possono anche creare appositamente, perché se uno vuole una cosa non trova scuse, non trova giustificazioni, non trova nascondigli fanciulleschi per poi addossare la responsabilità agli altri. Si fa così se si vuole essere adulti: si guarda negli occhi e ci si espone. Ogni anomalia, molto probabilmente, nasconde un piccolo guasto del meccanismo o uno scollamento del reale a favore di uno stordimento che sfugge e che non fa bene, a nessuno. 

Ma i disastri spaventano, specialmente quelli che sai che non puoi controllare. Quindi si ingoiano le domande, si ingoiano i dubbi e si ingoia il malessere. E il malessere ingrassa. Si deposita sulle gambe per renderle pesanti al passo e sulla pancia per renderci goffi e sgraziati. 

Ogni tanto arriva quel giorno che rende tutto particolarmente leggero e dove le cose scivolano come se non dovessero essere causa di nulla di che. Quel giorno tra le parole si formano le domande e si ricevono anche le risposte e non succede nulla, si va oltre. Il disastro è silenzioso. 

Perché il disastro peggiore è quello a metà, quello che in sé non ha violenza esplicita, quello che non chiarisce tutto, che non toglie i dubbi e un disastro silente non fa che aumentare il malessere. E si ingrassa (perché quella è la prassi e non si scappa).

I disastri spaventano e per una buona ragione. E non c’è cura dimagrante che tenga. Fuck.

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(790) Vicolo

Non tutti i vicoli sono ciechi. Non tutti i vicoli ciechi lo sono sul serio. In tutti i vicoli ciechi, comunque, si può fare inversione di marcia per uscirne. 

I vicoli servono a collegare una strada principale con una secondaria, o due secondarie, o due principali, insomma… sono un collegamento. Sono una scorciatoia, spesso. Tagli passando da lì per arrivare là. Seguendo questa logica posso affermare serenamente che non ho fatto altro che passare da un vicolo all’altro senza mai arrivare alla strada principale, a volte sono incappata in una secondaria, ma non è durata mai troppo. Che ridere.

Devo dire che per certi versi i vicoli fanno meno paura, anche se in certi momenti sanno essere bui e minacciosi e ti tremano le gambe ad attraversarli. Te ne accorgi, però, sempre quando ti ci trovi dentro, in mezzo, e via di bestemmie. Ho quasi l’impressione che a forza di conoscere l’ambiente io mi sia un attimo adagiata. Insomma, so come ci si muove tra i vicoli e rimanerci dentro non mi sembra così male. Forse mi sbaglio. Forse me la sto raccontando perché è l’unico modo per ignorare la paura di ritrovarmi allo scoperto, alla luce.

Forse.

Certo che dovrei smetterla di pensare. Anziché alleggerirmi le cose sembra che ogni volta che m’immergo nelle mie miserie queste siano le uniche a contare davvero qualcosa. Il buio di questo vicolo non mi fa bene. Per niente.

 

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(772) Affidarsi

Quando ti affidi a qualcuno cedi il tuo potere, la tua libertà, la tua vita. Non ti appartiene più nulla, la persona a cui ti stai abbandonando può fare di te tutto quello che vuole, come e quando vuole. In poche parole: sei finito.

Qualcuno che ti ama non ti chiederebbe mai di consegnarti e diventare un niente da manovrare e di cui – per forza di cose – doversi occupare. Alla fine dei conti si troverebbe con un fardello doppio da trasportare da una parte all’altra della sua esistenza, che sarebbe anch’essa una prigione esattamente come e quanto la condizione che impone alla persona che dice di amare.

Follia.

Un bimbo si affida perché non può fare altro. Ancora peggiore di un mostro è chi se ne approfitta o ne abusa. Eppure, chi si consegna volontariamente decide di regredire, di delegare all’altro la salvaguardia della propria integrità, di retrocedere davanti alla responsabilità di essere adulto. E c’è chi lo chiama amore.

Follia.

Stare in piedi sulle proprie gambe, stare saldi anche se in precario equilibrio, essere interi e a volte a pezzi ma intatti dentro – dove la dignità non viene scalfita neppure per sbaglio – chiedere il vero e offrire il vero senza dubbi né concessioni: questo significa amare. Amare se stessi per amare la persona che abbiamo scelto di accompagnare, che no, non ci appartiene ma ci può sostenere e ci può curare senza per questo pretendere nulla ma ha il diritto di aspettarsi che altrettanto le sia dato.

Come un trick ben riuscito, a bici volteggiante e rotelle in aria, ritornare a terra per continuare la corsa e accorgersi che soltanto se liberi, se interi, se saldi, saremo in grado di riconoscere l’amore. Quello vero. Oppure niente.

Oppure niente.

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(733) Volare

Forse ho dimenticato come si fa. Dico forse perché mentre ci penso mi distraggo, come se qualcosa mi portasse via per non farmene accorgere. Mi disturba non essere in grado di misurare quel che di me ho perso. Mi lascia troppe domande aperte e mi sento gelare.

Volare mi riusciva piuttosto bene, riuscivo a staccarmi dal mio stato materiale per immaginare quello che avrebbe potuto essere e che – forse – speravo che sarebbe stato. Temo che il fatto che non si sia mai avverato nulla di quello che immaginavo giochi un ruolo determinante nel mio stato attuale di impossibilità a librarmi in volo. Non ci riesco, rimango ancorata alla terra, a quello che c’è e a quello che sta per accadere. Mi si strozza in gola il respiro e mi sembra che sia questo l’unico respiro disponibile per me ora.

Ora? Sì, ora che sono grande. Ora che al massimo posso invecchiare, ma non posso più crescere ed espandermi. Ora che devo ritirare un po’ le armi, giocare più d’astuzia che di impeto passionale. Ora che riflettere è diventato l’imperativo e comprendere si rende bussola indispensabile per segnarmi il cammino.

Non ho troppa voglia di fare conti e calcoli per capire che landa desolata io stia sorvolando mentre il motore in avaria mi sta imponendo un atterraggio di fortuna. Eh, sì. Fortuna che me ne sono accorta in tempo, fortuna che son ancora qui a raccontarla, fortuna che ho ancora braccia e gambe per proseguire, fortuna che gli occhi mi si sono asciugati e che il bisogno di orizzonti azzurri non è più un’ossessione ma soltanto una nostalgia, una delle tante. Anche se la nostalgia annebbia la percezione del valore delle cose presenti, chi riesce più a farne a meno?

Volare, per quanto ormai mi è possibile, è un volare breve a bassa quota. Temo non sia più un vero volare, ma soltanto il ricordo di quel che ero solita fare senza chiedere il permesso a nessuno, senza inventare giustificazioni. Non dico che stavo meglio prima di ora, eppure sapere che mi sono dimenticata di come si può raggiungere il cielo con il cuore brillante mi rende triste. Sarà che è tardi, sarà che sono stanca, sarà che manco in questo momento d’immaginazione. Chi lo sa.

Chi lo sa.

Buonanotte.

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(630) Occupazione

Occupare non è un verbo che mi piace, ma avere un’occupazione mi piace. Mi piace pensare che avere un’occupazione – inteso come avere qualcosa che ti occupi il tempo per sollevarti dai pensieri – sia un grande privilegio. Avere niente da fare tutto il giorno sarebbe per me la galera. Durerei due giorni due, poi mi butterei dalla Rupe Tarpea.

Ho impegnato ogni giorno della mia vita tentando di occupare le mie giornate in modo che mi fossero di giovamento. Per questo ho fatto parecchi lavori diversi da ragazza, appena quell’occupazione diventava noiosa routine mi davo da fare per trovarmi un’altra situazione. Continuavo a scrivere, è vero, ed era la cosa migliore che potessi fare. Quindi mi sono tatuata nel cuore le parole di Italo Calvino:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Così ho fatto. Inseguendo il bene, attraversando l’Inferno di tutti.

Quello a cui pensavo stasera è che avere qualcosa che ti occupi la mente, qualcosa che ti doni gioia, per poi magari metterlo in atto e renderlo concreto, è un diritto di tutti. Chi lo scansa pensando che il fare-niente, il pensare-a-niente, sia la grande libertà, la liberazione da tutti i mali, si sta ingannando. E non lo so perché tanti si vogliono rifugiare in questo inganno, non so se sia per paura o per pigrizia, so soltanto che si tolgono il sale della vita. Stai sognando il niente, mentre potresti sognare di fare tutto. Tutto. Fare tutte quelle cose che la vita ti offre affinché tu possa superare ostacoli e limiti superabili, per stare bene. Soltanto per stare bene. Stare meglio.

Fare niente, non suona brutto? Il niente chiama il niente, è un dato di fatto. Il niente non ti riempie, non ti soddisfa, non ti fa arrivare prima al Nirvana. Il niente ti annienta. E mi domando: come puoi pretendere che persone che affrontano l’ignoto perché hanno fame di vita, una volta superato ogni limite possano resistere nel niente assoluto in attesa che qualcuno decida per loro? Tu lo faresti? Quel tipo di persone nel niente non ci stanno. Lo hanno dimostrato affrontando l’Inferno più atroce, non c’è bisogno di chiedere loro alcuna ulteriore prova. Si sono guadagnati la vita, definitivamente.

Oltre le apparenze, quella loro fame vale molto più del niente anelato da chi ha tanto, fin troppo. Molto di più di chi sogna quel niente lamentandosi di quel troppo che ha.

Occupare la tua mente, le tue mani, le tue gambe con i desideri che alimentano la tua vita: non pensi che debba essere e che sia una benedizione dal Cielo? Io sì.

 

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(424) Bersaglio

Non è bello essere il bersaglio, chi ci è passato lo sa. Lo dovrebbero sapere tutti com’è, così a nessuno verrebbe in mente di scegliersi un bersaglio per sfogare i propri istinti bestiali. Il colpire per fare male, per far morire  – fosse anche solamente l’amor proprio. La crudeltà, la fogna dei sentimenti.

Si fa leva sulla propria presunta forza, come se questa fosse una certezza, ma si sa che di certo a ‘sto mondo c’è ben poco. La supponenza di non essere nel bisogno e per questo essere superiore, come se il bisogno fosse una conseguenza di una mancanza di capacità o intelligenza, ma si sa che come la fortuna non c’è niente di più cieco del bisogno.

Possiamo anche far finta di nulla, pensarci invincibili, ripeterci che il nostro bersaglio se la sia meritata e che prima o poi doveva pur capitare che ci fosse qualcuno capace di fargliela vedere. Possiamo, ma si sa che certe coperte son troppo corte e che il sangue è difficile da lavare via.

Essere un bersaglio ti fa correre come una lepre, anche se le gambe ti tremano, anche se il cuore ti scoppia. E ti fa pregare, anche se non hai mai creduto in nessun Dio. Essere un bersaglio ti fa tirare fuori la tua fame di vita, ti scopre la forza che mai avresti sospettato di avere, ti acuisce i sensi e ti fa pensare in fretta. Soluzioni che arrivano e ti sembrano la salvezza, e anche se non lo sono a quel punto va bene lo stesso, sempre meglio che niente.

Essere un bersaglio, se sopravvivi, ti rende più duro e pronto a quel che sarà. Ti giuri che non capiterà di nuovo e sei pronto a tutto pur di mantenere la promessa. Chi gioca a tiro a segno non si aspetta una reazione. E fa male.

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(356) Punte

Vivere in punta di piedi, non è un bel vivere. Hai paura di fare troppo rumore, paura di rompere qualcosa, paura che qualcuno potrebbe notarti e infastidirsi per la tua presenza. Paura che qualcuno potrebbe accorgersi che sei di troppo, che lì non sei desiderata.

Significa non respirare bene, restare sempre un po’ a metà. Significa mettersi da parte quando capti che qualcuno se n’è accorto, che ci sei e che occupi uno spazio intendo. Significa sentirsi dire che sei ingombrante, che hai manie di protagonismo, che sei in cerca di lusinghe e di clamori, anche quando vorresti che ti si aprisse una voragine sotto i piedi per inghiottirti.

Però. Vivere in punta di piedi ti permette di sollevarti un po’, quel tanto che basta da cogliere il vento nuovo che profuma diverso. Vivere in punta di piedi ti fa resistere al risucchio della forza di gravità, la terra non la calpesti, ti posi più leggera che puoi e non lasci tracce indelebili. Vivere in punta di piedi ti rende silenziosa, nel silenzio puoi ascoltare, puoi imparare, puoi crescere.

Le punte su cui traballo sono ormai consumate. Mi fanno male le dita, le gambe non reggono più il peso. Credo sia tempo di poggiare i piedi a terra, dalle punte ai talloni, e sperare che la terra sopporti i miei chili di troppo. Non so come andrà, so che è stata una scuola dura, quella del vivere in punta di piedi, e che sono abbastanza stanca e adulta da appendere le paure al chiodo. E che la musica continui!

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(114) Altalena

Non mi sono mai piaciute le altalene. Certo, puoi andare in alto se ti spingi per bene, ma non ti muovi veramente, rimani nello stesso punto per sempre (finché scendi, ovviamente).

Mi è sempre piaciuto invece andare veloce: con la bicicletta, con i pattini, anche correndo (finché le mie gambe hanno deciso che ne avevano abbastanza e me la stanno ancora facendo pagare).

Nei primi anni da patentata avevo una Abarth A 112, di ottava mano (credo), che andava come un fulmine e ho rischiato parecchio in più di un’occasione. Non lo dico per vantarmi, ma ero giovane e incosciente. Ora guido con più cautela, mi diverto di meno, ma tengo di più alla mia pelle e a quella degli altri (si chiama: crescere).

Dico tutto questo non so bene il perché, pensavo fosse una questione di altalena (dei sentimenti), ma se sto andando fuori tema è evidente che mi premeva dire altro. Non ho capito ancora cosa sia questo “altro”. Non sempre quando mi metto qui a scrivere so dove sto andando a parare. Diversamente da quando mi metto a raccontare una storia, lì so dall’inizio dove voglio andare a parare.

Concluderò affermando che: andare su e giù in altalena non mi piace neppure adesso, preferisco spostarmi nello spazio. Se succede velocemente, spesso è meglio. Non tutti i viaggi meritano lentezza. 

Ora, se non vi dispiace, fatemi scendere dall’altalena che ho la nausea.

Grazie.

 

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