(1083) Provare

Do or do not, there is no try.  (Yoda)

Dare torto a Yoda? Follia. 

E comunque, al di là di tutto, se faccio mente locale, ogni volta che ci ho solo provato non ne ho ricavato niente. Neppure un grammo di soddisfazione. 

Non sto parlando di azioni più o meno convinte, ma di scappatoie. Tanto se non va bene non ci perdo nulla, non è una strategia. Non è neppure una filosofia efficace per andare al mercato del pesce. 

Provare tanto per provare non è crederci e farsi in quattro per far andare le cose bene. Provare per provare è un tentativo e basta. Come se mi aspettassi già il fallimento, come se sapessi già come finisce la storia. Si va al risparmio, si calcola il dare e l’avere, ci si tira un po’ indietro perché sì, magari andrà anche bene, ma è probabile che no. 

Non c’è verso: o fai (e sei dentro al 100%) o non fai. Perché se non fai davvero non perdi tempo e non rischi delusioni e sofferenze e fatica e smarronamenti. Se non fai puoi sempre dire che avevi un’idea e che ce l’hai ancora e appena trovi il tempo la farai diventare una figata. E puoi continuare a ripetertelo per sempre, tanto da crederci tu stesso. Puoi fingerti impegnato anziché codardo, puoi farlo, funziona.

O fai o non fai. Ma se fai, allora la sfida non è vincere o perdere, no, troppo semplice. La vera montagna da scalare è quella fatta da sassolini e massi di “che cazzo sto facendo? Dove cazzo penso di andare? Ma perché cazzo mi sono messo in questa maledetta impresa? E adesso cosa cazzo faccio?”, insomma: una montagna di gran cazzi pronti a saltarti addosso appena muovi un passo. 

E se alla fine vinci, vinci contro la montagna franante e sei già contento di essertela cavata e di essere ancora vivo nonostante te stesso.

Perché Yoda non è mica il primo coglione che passa di lì. Se ti sta segnando la via, conviene pensarsela bene e rispondere onestamente a una sola semplice domanda: fai o non fai? 

Ovvero: credi o non credi?

È sempre una questione di fede, dopotutto. Eh.

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(1065) Manufatto

Fare con le mani è una meraviglia che ci appartiene così strettamente, così intimamente, che la diamo per scontata. Se ci fermassimo a riflettere a quando lavoro diamo alle nostre mani, SEMPRE e ININTERROTTAMENTE, e quanto le nostre mani imparino a fare le cose anche più complicate sempre meglio e in automatico (come se si muovessero con un’anima propria connessa ma non necessariamente succube della nostra stessa anima), resteremmo senza parole.

Ogni tanto ci penso e mi stupisco ogni volta.

Allora ricordo una vecchia poesia in friulano che trovai da ragazzina nel bollettino che la parrocchia distribuiva periodicamente in paese. Una poesia scritta da una nonna e si intitolava “Les mes mans” (trad. “Le mie mani”). Raccontava con delle rime delicate il lavoro di ogni giorno di quelle mani che toccavano la terra per far crescere le verdure nell’orto, che pulivano e tagliavano il cibo per cuocerlo in grandi pentole, che trovavano il tempo di rammendare ciò che doveva essere sistemato e di accarezzare i nipoti in cerca di consolazione. Erano mani di donna, di donna abituata a non stare ferma un attimo perché in una casa c’è sempre tanto da fare, di donna cresciuta per rendersi utile e per sostenere tutta una famiglia senza domandarsi se per lei ci fosse anche altro nella vita.

Ricordo che leggevo e rileggevo quella poesia e pensavo alle mani di mia nonna che erano state educate alla stessa vita, ma che avevano qualcosa di ribelle: le unghie lunghe molto resistenti che ogni tanto dipingeva di rosso. Guardavo le mie mani e notavo una certa somiglianza, in certe curve soprattutto. Rivedevo le sue mani alla macchina da cucire, a creare camicie per i clienti e vestitini per me e mia sorella e pensavo che le mani devono essere educate. A fare di più, a fare cose diverse, a fare anche cose matte. Così per divertirsi un po’.

Non sono cambiata, rivedo ancora tutto e ricordo bene quella poesia e mi guardo ogni tanto le mani mentre fanno e disfano e rifanno e trovano modi diversi per non fermarsi. Sono state educate da una tradizione che le ha forgiate e da una ribellione nei geni che le ha liberate. Certo, nel tempo le ho viste cambiare, ma sono proprie mie e io appartengo a loro. Tutto questo mi piace. Mi piace molto.

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(965) Soffio

E in un soffio vedi volare via quel che pensavi di poter trattenere per un po’, non per sempre – perlamordelcielo – soltanto per un po’. Niente da fare. Andato.

E non lo puoi sapere quant’è la frustrazione finché non la vivi. Non c’è modo per trattenere ciò che deve andare. Deve? Vuole, più che altro. È uno scontro di voleri, più o meno espliciti e più o meno consapevoli. 

E anche se trattieni il respiro, anche se fai le mosse giuste, anche se dai il meglio di te, non serve a niente. A niente. E fai presto a dire potevo fare o dovevo fare o potevo dire o dovevo dire o potevo e dovevo non dire e non fare. Perché resti sola con la desolazione che ti si ritorce contro: certo che sei tu la responsabile. Chi altro?

Basta un soffio per prendere tutto quello che sei ora e ridurlo un niente, basta un soffio e anche se lo sai non ci pensi. Ci caschi ogni dannata volta, pensi sempre: stavolta è la volta giusta. Non lo è, forse non è mai la volta giusta per certe persone. Per altre sì, ma questa è un’altra storia.

Quindi ora che un soffio ha spinto lontano da te ciò che volevi tanto e un altro ti ha spinto addosso ogni tua paura centuplicata, che intendi fare?

Forse solo non dire, non fare, non pensare. Per un po’.

E dormire. 

Il più possibile.

‘notte.

 

 

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(951) Priorità

Si fa presto a dire priorità. Al momento la mia sarebbe quella di prendere un aereo e volarmene un po’ in giro, per assorbire dagli occhi e dalle orecchie e dal naso e dal cuore il mondo. Davvero. 

E ora mi trovo a fissare una lista di cose da fare che seguono uno pseudo-ordine dettato dalle priorità. L’ho letto tre volte e ancora non mi capacito. Queste non sono le mie priorità, queste sono le priorità del mondo che mi sta attorno. Le mie si riducono a una sola ed è quella che ho scritto lì sopra. 

Quindi si procede come da manuale, si prende la lista e, una ad una, si spunta tutto ciò che riesco a fare appena sono riuscita a farlo. I pensieri che ci stanno dentro non sono una priorità, sono soltanto un mezzo. E anche qui ci sarebbe di che discutere: i pensieri non dovrebbero essere il focus del mio agire quotidiano? Non dovrebbero essere la materia principe del mio vivere? Temo di averli ridotti a strumenti di lavoro… mi servono per fare qualcosa. Non per Essere, ma per fare. E non ho messo la effe maiuscola apposta.

Nell’Antica Grecia sarei stata una filosofa o una schiava? Temo la seconda. Non è che mi faccia impazzire di gioia questa riflessione. Trovare un appiglio per tirarmi un po’ su il morale potrebbe essere fare una lista di pensieri che mi servono soltanto perché sono pensieri. Nient’altro. Una bella sfida…

Si pensa per pensare meglio, al di là di quello che poi si potrebbe concretizzare, no? Il pensiero ha una sua Dignità a prescindere dal suo esplicitarsi in fatti, no? Sì, credo di sì. Toccherà che ci rifletta meglio. 

Lo metto nella lista: priorità assoluta.

 

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(897) Lattina

Mi sono trovata spesso a dare un calcio alla lattina di turno, magari quella che conteneva riflessioni senza senso. Riflettere su questioni che si possono affrontare, meglio ancora risolvere, ha senso. Riflettere su quelle che devi prendere così come sono, e tanti saluti, è una perdita di tempo. 

Mentre sto lì a inquadrare la situazione per venirne a capo, calcio la mia lattina, forse sperando che qualcosa ne esca. Dopo un po’ mi stanco, tiro un calcio più forte e la faccio allontanare da me. So cosa fare, tirare dritta nonostante l’irrisolvibile. Si sopravvive comunque.

La lattina del “fa-niente” faccio fatica a calciarla. Mi ritorna sempre indietro, un boomerang puntuale e affilato. Non riesco a mantenere quel fa-niente a distanza perché non sono geneticamente programmata per fottermene. Mi rendo conto, davvero mi rendo conto, che le cose si possono prendere in modo più leggero, si possono ridimensionare e maneggiare come se non ti riguardassero. Lo so, dannazione. Eppure non mi riesce. 

La lattina del “dove-vado” la calcio mano a mano che procedo. La direzione la scelgo io e mi son sempre trovata bene con questo metodo basic d’orientamento a breve termine. Sì, funziona solo con tragitti limitati, la lattina che lanci a piena forza si alza da terra ma non è detto che mantenga la direzione. Quindi bisogna calibrare la potenza nel tiro e far conto che la lattina non è tonda e che di Maradona ce n’è soltanto uno.

La lattina del “devo-fare” me la gioco con palleggio rasoterra perché devo temporeggiare per alcune cose e devo accelerare per altre. In poche parole combatto con la santa procrastinazione e con l’ansia di finire il prima possibile quel che devo. Per fare altro, ovviamente. Sì, è uno stress. Sono una che senza stress si annoia, anche questo deve essere messo in conto.

Insomma, le altre lattine lasciano il tempo che trovano. Le spargo un po’ di qua e un po’ di là, senza illudermi che non le incontrerò più, ma con la consapevolezza che calcio dopo calcio qualcuno si stancherà. Magari io, vero, ma magari no. Quindi, fingendo che sia tutto peeeeeeeeeeerfetto, si procede.

Di lattina in lattina. Di calcio in calcio. Di riflessione in riflessione.

Di stress in stress. 

Così.

 

 

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(885) Subire

subire v. tr. [dal lat. subire, der. di ire “andare”, col pref. sub– “sotto”, propr. “andare sotto” e quindi “sopportare”] (io subisco, tu subisci, ecc.). – 1. a. [ricevere una cosa non voluta né gradita, anche assol.: s. un torto] ≈ patire, soffrire. ↓ (fam.) incassare, sopportare, tollerare. b. [accettare senza reagire] ≈ (fam.) digerire, (fam.) mandare giù, (fam.) sorbire, tollerare. 2. [dover far fronte a qualcosa di spiacevole: s. un interrogatorio] ≈ affrontare, sostenere. ↔ evitare, fuggire, rifuggire, schivare.

Già solo leggere il significato del verbo subire mi fa ribollire il sangue. La nostra esistenza è una lista pressocché infinita di cose che dobbiamo mandare giù, con cui dobbiamo avere a che fare nostro malgrado, che non possiamo schivare e non possiamo risolvere. Frustrazione a mille e voglia di spaccare tutto.

Eccoci qui. Tutti d’accordo. Spacchiamo tutto.

Andiamo oltre però. Quando subisci significa che sei convinto, dentro di te, di non essere nel posto giusto. Torto o ragione? Torto. Ti senti dalla parte del torto. Ti pensi in difetto, ti vedi debole, ti credi non degno. Subire è arrendersi. Ti arrendi all’evidenza che tu non puoi o tu non sei o tu non hai o tu non vali/meriti niente. Sbang.

La normale sopportazione, la normale tolleranza, la normale sofferenza, nessuno ce le toglie. Son quelle e basta. Quando si va oltre, però, non va bene più. Ci sono mille modi per non arrivare a quel “oltre” che ti impallina senza scampo, bisogna solo farci attenzione in tempo. Far andare oltre le cose significa subire. Rassegnarsi al non-fare, non-dire, non-pensare, non-agire, non-credere, non-sperare. Morire.

Si muore un po’ dentro. Pezzo per pezzo si spengono le lucine e rimaniamo al buio. Al buio ci si sente ancora più piccoli, vulnerabili, fragili, miserabili. No?

Diventa importante captare i segnali e fermare la valanga prima che il normale si stroppi, direi vitale. Nessuno può farlo al nostro posto. Sappiamo noi quanto è normale quello che stiamo sopportando e quanto è troppo. E quando è troppo, se rimaniamo lì senza dire-fare-pensare-lettera-testamento, manchiamo di coraggio. Non abbiamo scuse. Siamo noi a decidere. Ogni sacrosanto minuto della nostra maledetta/benedetta esistenza. Che ci piaccia oppure no.

Ma forse l’ho già detto. Ho idea che sto andando in loop. Perdono.

 

 

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(700) Frutto

Il risultato della mia attività mentale, spesso, dà un + o un – (raramente un x e di tanto in tanto un : ) questo riduce le possibilità d’azione e mi costringe a valutare fin nel dettaglio la rosa delle scelte a mia disposizione. Non è piacevole, non è comodo, non è facile, eppure un allenamente di questo tipo ti prepara bene non solo a quello che sarà ma anche a quello che è.

Il guadagno che ottengo lo re-investo e dopo decenni sto vedendo dei risultati. Dove voglio andare a parare? Semplice: prima semini e poi raccogli. Concetto di una banalità sconcertante, ma che molti giovani oggi pensano di poter ignorare soltanto perché loro sono già bravi, già pronti per la conquista del mondo. Lo so che quando parlo così posso essere scambiata per una ottuagenaria brontolona (chi ve lo dice che io non lo sia davvero?), ma com’è possibile che il frutto dell’esperienza sul campo sia ritenuto soltanto un dettaglio? Il sapere dei libri è una base fondamentale per affrontare il percorso lavorativo, ma non si ferma tutto lì… è lì che tutto inizia! 

Altri scopi, altre motivazioni, altre ambizioni, altri campi da esplorare. Tanto altro. 

E si prendono di nuovo in mano i libri, sì perché non si finisce mai di imparare, e al contempo si fa. Farefarefarefarefarefarefare… con la testa e con il corpo, si fa senza scuse, senza giustificazioni, senza paraocchi, senza perdere un colpo. Prendi in mano l’orgoglio e lo usi per non farti calpestare non per smettere di imparare. Quello che sai già non basta, non basta mai. Sai solo una parte, una piccola parte, il bello deve ancora venire, fidati. Fidati. 

Gioca d’umiltà. Fidati. Gioca pulito. Fidati. Gioca per ampliare la tua conoscenza e vedrai che vincerai. Non puoi che vincere partendo dai giusti presupposti. Quando guardo certi giovani talenti e li confronto con la me adolescente di un tempo vedo il salto quantico che la nuova generazione ha saputo compiere – suo malgrado, temo – e al contempo il vuoto di significati con il quale si trova a combattere. Una desolazione. Da dove iniziare per arginare il danno e aiutarla a colmare il vuoto? Io credo fortemente nell’ascolto e nella presenza, anche quando sembra impossibile, anche quando sembra una perdita di tempo, anche quando il feedback è mortificante. Col tempo, con la pazienza, con la voglia di essere utile. Secondo me si può. Possiamo raccogliere i frutti della nostra semina, prima o poi (ovvio).

Non tutti i vuoti devono essere colmati, ma alcuni vuoti non possono essere ignorati. Mai.

 

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(694) Alieno

Essere un alieno può significare che provieni da un altro mondo, che appartieni a un altro mondo, ma anche che sei refrattario rispetto a qualcosa o a qualcuno: come al solito la lingua italiana si riempie di colore appena la sfiori. Quante volte al giorno ci succede? Centinaia. A tutti per di più. Siamo tutti goffi alieni che si muovono a tentoni e che fanno finta di avere tutto sotto controllo. Balle.

A me piacerebbe tanto incontrare un alieno capace di affermare non-lo-so quando davvero non sa qualcosa. Mi piacerebbe parlare con un alieno che non si vergogna di ammettere che non-può-fare qualcosa o addirittura che non-sa-fare-qualcosa. Sarebbe liberatorio. Non sarei sola in questo pianeta dove tutti sanno tutto e tutti sanno fare e possono fare tutto.

Io no. Ci sono milioni di cose che non so – anzi, miliardi – e altrettanti milioni di cose che non so fare o che non posso fare, eppure vivo. Forse non me lo merito, ma respiro lo stesso, anche se sono lontana dall’essere come vorrei, anche se la gran parte delle mie aspirazioni son finite in cantina e non c’è nulla di che vantarsi. Sono un Essere Umano finito, ho confini precisi e alcuni limiti che non mi sarà possibile superare neppure in cento vite. Pazienza. Non odio nessuno per questo, non c’è nessuno con cui prendersela, neppure chi può tutto, sa tutto, fa tutto e pure bene. Eh! Beati loro. Io no.

La cosa migliore di tutte? Nessuno si aspetta da me grandi cose. A tutti basta la mia normalità, quando ne hanno abbastanza se ne vanno liberamente, per andare a dimostrare altrove che sanno, che possono, che fanno. Magari ne danno annuncio sui social, perché se non lo racconti a qualcuno la questione perde il luccicore. Dal mio angolo alieno osservo: a volte ammiro e altre mi dissocio con fermezza.

Qui da me l’ordinario ha un sapore buono, che sazia, e quando qualcosa di straordinario accade lo si festeggia. Potrebbe non accadere più.

Noi alieni siamo fatti così. Portate pazienza.

 

 

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(637) Identico

Stasera faccio una cosa diversa: prima scrivo e poi ricavo dal testo il titolo. Si potrebbe pensare che sappia già cosa scrivere, giusto? No, sbagliato. Soltanto che mi sono un po’ stancata delle gabbie che mi sto costruendo da 636 post, ho bisogno di un po’ d’aria senza filtri.

Potrei parlare di come una volta che ti viene confezionato addosso un abito sia un gran casino cambiarselo. Tipo: ti fai vedere in giro con bermuda hawaiane, canotta fantozziana, calzini con sandali alla tedesca e per tutti sarai per sempre quel disadattato che in una giornata di scazzo s’è fatto quattro passi sovrappensiero mentre cercava una buona idea per pagarsi le bollette. Fa niente se di solito vesti in frac e sei un gran signore, tu sei e rimani per tutti un eccentrico e grottesco fannullone finché muori. Stessa cosa anche fosse la situazione inversa. Funziona così.

Ogni volta che qualcuno mi chiede che lavoro fai, partendo da questo presupposto, vado in crisi. Ho fatto la cameriera, la baby-sitter, la donna delle pulizie, la commessa, la centralinista, la segretaria, l’insegnante di scrittura creativa e ora sono responsabile della comunicazione di una manciata di start-up… ho cambiato abito mille volte ed è probabile che lo cambierò ancora, quindi mi chiedo: che lavoro faccio?

Le varianti confondono. La fluidità, contrapposta alla catalogazione, affatica. La malleabilità viene guardata con sospetto. Il cambiamento infastidisce.

Abbiamo i nostri schemi, i nostri scatoloni in cui infilare tutto, mettiamo ogni cosa al suo posto così la teniamo sotto controllo, così non ci salterà addosso per mangiarci le orecchie durante la notte. Mi viene da ridere, ma che amarezza!

Siamo così impegnati a pretendere pulizia dagli altri che nascondiamo la nostra sporcizia sotto lo zerbino che diventa collina e montagna e noi come se niente fosse domandiamo ancora e ancora: cosa fai? Cosa fai? Cosa fai?

E se cambiassimo la domanda in: chi sei?

E no! Comporterebbe la rogna di andarsi a cercare la risposta in chissà quale anfratto dell’anima. Sempre diversa a ogni occasione. Perché non siamo mai una cosa sola e sola soltanto. Conteniamo moltitudini come Walt Whitman ci ha insegnato, e queste moltitudini ci spaventano a morte. Le nostre, poi, sono le più terrificanti di tutte perché in fondo in fondo le conosciamo bene, anche se ce le nascondiamo. Sappiamo che siamo noi ad averle generate e non riusciamo a perdonarcelo. Ma perché?!

E se non ci fosse nulla da perdonare? Eh? 

Lo sguardo che va a pesare sul collo affossa l’idea che abbiamo di noi ed è una violenza inaccettabile da noi stessi perpetrata. Se, invece, è il nostro sguardo a pesare sul collo di qualcun altro meritiamo lo stesso inferno che stiamo causando. Ma proprio uguale uguale.

Identico.

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(579) Benestare

E un giorno smetti. Così di colpo. Non ti riconosci più, ma non ci pensi un attimo. Sai che è arrivato il tempo di smettere e sai che ci hai messo fin troppo a capirlo e a prendere la decisione più sana di tutta la tua vita.

Smettere di chiedere il benestare di chi ti sta attorno per fare quello che senti di dover fare per stare bene, è il primo passo verso la salvezza. Io ho iniziato a diciannove anni e non mi sono più fermata. Per questo sono ancora viva.

Non significa che non sento ragioni e faccio sempre di testa mia – ora che ci penso è così, ma posso spiegare meglio…

Non significa che non ascolto quello che chi mi vuole bene pensa al riguardo e magari i consigli che mi vengono offerti, li ascolto, davvero, li ascolto tutti. Ma faccio di testa mia. Invariabilmente. Senza cedere di una virgola. Faccio quello che la mia testa mi dice. Perché la mia testa ci ha pensato e ripensato, ha valutato, ha soppesato, ha tolto, ha aggiunto, diviso e moltiplicato. Ha fatto un salto in avanti, due di lato (ds e sn) e uno indietro; ha guardato bene, tutto quello che poteva vedere l’ha visto, tutto quello che poteva sentire l’ha sentito, tutto quello che poteva immaginare l’ha immaginato. Quello che non ha visto, sentito, immaginato è comunque lontano da me e neppure se me lo racconti mi convinci. Perché se non lo vivo non lo conosco. Tutto qui.

Ovvio che ci sono cose che non intendo vivere e di cui mi basta una vaga idea – mi serve per tenermi a distanza – ma quelle che penso facciano per me, allora sì. E lo so che potresti non essere d’accordo, che mi vorresti evitare un danno, che ti preoccupi per me. Eppure…

Eppure se io avessi aspettato il benestare di qualcuno per ogni passo che ho saputo fare, se avessi creduto a ogni spauracchio mi si fosse palesato davanti evocato da chi la sapeva più lunga, se avessi pensato che non sapevo e non potevo decidere per me e per la mia vita, io sarei morta dentro. Non avrei vissuto cose meravigliose e anche cose dolorose, non avrei capito quanto ero lì per imparare e quanto invece già conoscevo, non avrei messo alla prova tutte le mie insicurezze e i miei gap – ridicoli e non – e non avrei compreso meglio la voce che mi guida nonostante tutto e nonostante tutti, nonostante me.

Non c’è benestare che tenga. Il permesso me lo do io, per fare e per non fare. Così è. Che piaccia o no, questo non è affar mio.

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(519) Harley-Davidson

Il sogno, e non si scappa.

Ci sono cose che si avverano, anche se non le sogni o non le desideri. Altre cose no (ed è una fortuna). Ci sono cose che sai si potranno avverare se la congiunzione astrale giusta si paleserà come linea del tuo Destino e non devi far altro che aspettare. Ci sono cose che non te ne frega nulla di far accadere, ti basta sognarle – e questo ti fa già felice di per sé. Ci sono cose che nonostante tu le sogni e le risogni ti scappano via finché è troppo tardi anche per continuare a sognarle. Maledizione!

Ogni volta che ci pensi ti viene un nervoso che spaccheresti tutto. Come si può accettare una cattiveria simile? Come?!

Allora smetti di sognare. Smetti perché sai che il veleno che si insinua subdolamente in ogni tua cellula quando sei dentro al tuo sogno ti ucciderà. Non puoi permettertelo. Non puoi più permettertelo. Perché il tempo si mangia gli anni in fretta e ti lascia lì ad arrancare con il fiato sempre più corto. Maledizione!

E al di là del fatto che non pensavi fosse possibile, al di là del fatto che non pensavi potesse fare così male, al di là del fatto che fai fatica a deglutire in certi momenti della tua giornata asfissiante, al di là di tutto – ma proprio di tutto – c’è anche il timore di scomparire. Come i tuoi sogni.

Se loro che erano me, ora non ci sono più. Io senza di loro che erano me come faccio ad esserci ancora?

E inizi a dubitare di esserci, inizi a dubitare di essere proprio tu. 

Poi ti imbatti in un’immagine che ti fa piombare di nuovo dentro il tuo sogno e ti perdi per un po’, soltanto per un po’. Ci sei ancora soltanto per un po’ e sei proprio tu. La stessa.

L’immagine la salvi, la metti in una cartella che porta il tuo nome e un’ammonizione: privato. 

E spegni tutto. Click.

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(410) Divertimento

Rifuggo il divertimento, mi fa proprio schifo. L’idea che devo uscire per divertirmi mi mette addosso una tristezza che piuttosto mi seppellisco sotto il piumone e ci vediamo domani. 

Non ci posso fare niente, è così e basta. Ci ho provato per tutta la mia adolescenza e per tutta la mia giovinezza, ho provato con tutte le mie forze a divertirmi e non posso negare che a volte ci sono anche riuscita. Ma non come tutti i cristiani sanno fare, il mio divertirmi ha connotazioni strambe – quanto lo sono io – e anche segrete. Infatti non è mia intenzione dire di più, né ora né mai, in proposito. Però…

Stasera Mr. Big in concert! Cioé, voglio dire: i Mr. Big con Faster Pussycat live! Il concetto divertimento qui viene superato da tutto quello che si porta addosso questa band e la mia musica rock in generale, ed è tanto, tantissimo. E poi la scoperta di una band irlandese – The Answer – che m’ha fatto andare sulla loro pagina facebook a cliccare like e scrivere due cose… ma quanti anni ho?! Mah!

La riflessione circa l’età che avanza, il corpo che crolla e la testa che se ne va a remengo – lentamente e inesorabilmente – lascia il tempo che trova una volta che sposti il tuo punto di vista e ti vivi quello che vuoi viverti. La questione dell’essere troppo vecchia per fare qualcosa mi ha sempre toccato profondamente, ma quando voglio fare una cosa mica penso alla vecchiaia, penso che la voglio fare e basta. Valutato che poi non me ne sono mai pentita, direi che da oggi si archivia la faccenda e non ci si pensa più.

Rooooooooooooooooock ooooooooooooooooooooooon!!!

 

 

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(341) Vortice

Cose da fare fare fare fare fare fare… cose da vedere vedere vedere vedere… cose da dire dire dire dire dire dire dire dire… o da scrivere scrivere scrivere. Una spirale senza fine che ti fa cadere giù, sempre più giù.

Me ne sono resa conto spesso e ci sono ricascata ogni volta. Non riesco neppure a immaginarmi come si può stare quando non fai niente. Voglio dire proprio niente, neppure un pensiero. Niente di niente. Non lo so.

Ho già ribadito il concetto che la meditazione non è contemplata nel mio database, come non lo è il golf, e ritorno proprio lì. Il vortice è quella cosa che tu lo sai che c’è, sai che ci sei dentro, sai che dovresti uscirne, sai che se non ne esci tu nessun’altro può farlo al posto tuo… tu sai. Eppure cadi giù.

Ora, non è che pretendo di non finirci dentro (spesso ci entro tirata per i capelli da qualcuno), ma vorrei farmi almeno furba di quel tanto che mi eviti di rimanerci troppo a lungo. QB. Ecco, se fosse per me io passerei una giornata a settimana a dormire e basta. Dormire e basta. Un altro paio a fare le cose che voglio fare e basta. Il resto della settimana a lavorare. Non mi sembra di chiedere poi molto, eppure non ce n’è, non è mai successo di farmi un mese del genere.

Mi devo impegnare di più. Tsé.

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(333) Ballerina

Sognavo di fare la ballerina da piccola. Nessuna possibilità, mi è stato detto. Allora, da adolescente mi sono data al sogno di diventare una cantante rock. Anche questo è stato ben calpestato e ridotto in brandelli e da quel momento ho smesso di sognare di essere e ho iniziato a fare.

Ho iniziato a scrivere, ma senza altri scopi se non quello di scrivere. Finché ho pensato che scrivere potesse essere un modo per guadagnarmi da vivere. E sono trascorsi 30 anni da allora, così tanti da farmi venire le vertigini, ma io ora sto scrivendo guadagnandomi il pane e così la mia storia ha trovato un senso.

Negli anni ho continuato a ballare e ho continuato a cantare, non su un palco, ma nel mio privato (più o meno). Il mondo non sente di certo la mancanza di una ballerina mancata e di una rock star illusa, il mondo non ha perso nulla e non me ne farà una colpa – forse me ne è grato.

Il mondo non ha neppure bisogno di una scrittrice in più, me ne rendo conto, ma da qualche parte dovrò pure stare. Ho deciso che resto qui e scrivo.

Fattelo andare bene lo stesso, mondo, prometto che non ti darò fastidio.

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(309) Qui

Una questione di luoghi: qui o lì o là o qua? Io ho sempre preferito il qui. Non penso mai a dove vorrei essere, ma a dove sono. Se dove sono non mi piace m’invento qualcosa che me lo faccia piacere. Forse perché non è facile raggiungere i posti che vorrei e se ci penso troppo mi avvilisco.

Volente o nolente ho dovuto imparare che com’è il qui dipende solo da noi. Se lo viviamo decentemente possiamo sistemarcelo anche bene. Se lo viviamo lamentandoci e imprecando diventa un inferno.

Forse sono fortunata perché non ho mai troppa energia per imprecare e lamentarmi, la uso tutta per fare fare fare fare. E pensare. Penso tanto, forse troppo, ma è un’attività impegnativa che dà assuefazione.

Detto questo, se avessi davanti a me un adolescente malcontento glielo direi chiaro e tondo: prendi il tuo qui e rendilo irripetibile.

A pensarci bene lo direi a chiunque, sempre.

 

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(297) Lesinare

Non sono una che risparmia, più che altro non sono una persona che si risparmia e questo in nessuna delle cose che fa. Non va bene, me ne sono resa conto negli ultimi tempi che proprio non va bene.

Bisognerebbe farsi accorti e risparmiare un po’: in energia, in buonafede, in passione, in entusiasmo, in generosità. Non tanto, ma un po’ sì.

Il punto è che non lo so fare, nessuno me lo ha insegnato, e le lezioni ricevute non sono riuscite a farmi cambiare atteggiamento, sono soltanto riuscite a mortificare il mio scialacquarmi per un breve periodo. Sono una che impara con una lentezza esasperante.

La questione, però, ha anche il suo bel rovescio della medaglia: non vivo di rimpianti. Investendo tutto quello di cui sono capace, non posso rimproverarmi di non aver fatto abbastanza, detto abbastanza, dato abbastanza. Anche se non è stato sufficiente, era tutto quello che potevo fare, dire, dare. Aggrapparmi a questo, probabilmente, significa ostacolare il cambiamento – tipico di un toro cazzuto come sono io – e forse entra in ballo la paura di snaturarmi.

Rimango dell’idea, comunque, che lesinare su certe cose della vita me la renderebbe meno faticosa. Eppure insisto e persisto. Mah.

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(296) Programmi

I programmi sono fatti per essere disattesi, lo sanno tutti, ma io non mi rassegno. Sia mai!  Quindi ecco qui un breve tutorial per programmare un bel piano:

  1. Fai una bella lista di tutto quello che vorresti fare
  2. Appiccicala in qualche modo sul pannello dietro al monitor (così mentre lavori ci puoi dare una sbirciatina e tenere sotto controllo l’andamento dei lavori)
  3. Spunta ogni voce che hai saputo portare a termine

A questo punto ti arriverà una telefonata per un lavoro urgente, sarai costretta ad accettarlo quindi la spunta rallenterà notevolmente il suo procedere. Appena pensi di poter ricominciare ti arriverà un altro impegno che non potrai rifiutare e da lì a valanga una lista impressionante di urgenze.

Cosa fare in questi casi? Per non rovinarti le giornate struggendoti per i programmi andati a monte, la cosa più saggia è strappare in mille pezzi il foglio/programma e non pensarci più.

Amen

 

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(292) Artificiale

artificiale agg. [dal lat. artificialis, der. di artificium «artificio»]. – 1. a. Fatto, ottenuto con arte, in contrapp. a ciò che è per natura (…)  2. Meno com., artificioso, non spontaneo: parlava con voce a., assume spesso pose a., e sim. ◆ Avv. artificialménte, con mezzi artificiali.

Non sempre ciò che è artificiale è scadente o inferiore a ciò che è naturale. Una reazione artificiale, in una situazione di tensione, potrebbe essere molto più saggia o addirittura salvifica rispetto a una naturale. Al di là di questo, mi piace tanto il significato sul quale poggia tutto: fatto, ottenuto con arte.

Mi fa pensare a tutto quanto l’Essere Umano sa fare con arte e a quanto sia importante questo saper fare con arte per l’Umanità intera.

Vero è che fa anche tanto per distruggere il buono del suo fare con arte, e c’è arte anche quando fai per distruggere a pensarci bene. La cosa peggiore del diventare vecchi è rendersi conto che bene e male vanno a braccetto così spesso da confondersi l’uno con l’altro. Basta un po’ di più di qua o di là e già il risultato è ribaltato e tu non sai più da che parte stare.

Ma ci sono certi pensieri che a percorrerli tutti ti viene il magone. Ritorno all’origine di questo sproloquio allora: fare con arte. Perché non basta fare, senza cuore, senza senso, senza ambizione, senza intento, non basta. Bisogna fare con arte, che significa sentimento, dedizione, cura, intenzione bella.

Così voglio fare, il più a lungo possibile.

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(279) Boomerang

Che le cose brutte fatte agli altri ritornino al mittente (e poi son cavoli amari), questo lo so fin da piccola. Me l’ha detto mia nonna e io a mia nonna ho sempre creduto ciecamente. Bon, si cresce così, con crudi e sani insegnamenti che una volta tatuati nella memoria non te li togli più. Un imprinting sacro.

Mi sono, però, sempre domandata perché per le cose belle fatte agli altri non funzionasse allo stesso modo. Se è una legge fisica allora va al di là del giudizio morale bene/male o giusto/sbagliato: fai una cosa agli altri e questa cosa – prima o poi – ritorna al mittente. Stop.

Se è fisica è fisica, se è legge è legge, e la legge è uguale per tutti – ci hanno detto e lo hanno anche scritto – invece no, non è così.

Fai del bene e dimentica, ecco un altro insegnamento della nonna. Ma come? Mi devo aspettare che il boomerang mi colpisca in testa se faccio una cavolata, ma non se faccio una cosa bella? Ma nonna! Non è giusto!

Risposta: non c’è niente di giusto a questo mondo.

Eh, e se lo dice la nonna, io le credo. La nonna, su queste cose, la sapeva lunga anche se neppure a lei questa legge fisica farlocca piaceva e forse proprio per questo non andava in chiesa ad ascoltare il prete predicare.

Certe cose ti rimangono tatuate nel cuore oltre che nella mente e scoprire quanto le assomiglio – ora donna fatta – mi riempie di orgoglio. Comunque, non vorrei risultare pedante, ma vi avverto: occhio al boomerang!

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(187) Attesa

Attendere il momento giusto. Per quanto io odi ammetterlo, sembra che la mia esistenza si possa sintentizzare in questo concetto: attesa. E se volessi proprio dirla tutta, potrei anche ammettere che non è un modo scellerato di far passare il tempo per quanto riguarda me. Nel frattempo, infatti, io faccio.

Rimane seccante, però. Il momento giusto ha tempi giurassici, dentro di me succede tutto molto in fretta e aspettare che la vita soddisfi ciò che la mente ha già processato è sfinente. Ti senti sempre in ritardo, sempre un passo indietro.

L’attesa riempita di mille cose è l’unico metodo utile da adottare se voglio sopravvivere alla frustrazione della dilatazione spazio-temporale che mi affligge. E che sia chiaro che ci sono attese per cui proprio non ne vale la pena, appena te ne accorgi dovresti toglierle dalla lista. D’altro canto, essere parcheggiati in lista d’attesa non è cosa bella per nessuno.

 

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(181) Staccare

Io suono così, sempre. Unplugged. Non c’è niente da fare, inutile farmi fare scintille e assoli alla Hendrix, non sono equipaggiata.

Mi posso al massimo mettere lì davanti a te, come se fossimo già amici, e farti ascoltare quello che so fare senza fronzoli, senza menate. Potrebbe non piacerti, ma se so fare questo mica puoi pretendere che mi trasformi in Lady Gaga.

Lo dico perché quando Lady Gaga va in unplugged è più brava di quando fa scintille e balletti ridicoli. Molto più brava. Io ancora non lo sono così brava, ma voglio esserlo. Anzi di più.

Quindi stacco la spina e mi risistemo nel mio ambiente. No, non canto. Mica sono Lady Gaga.

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