(1088) Pennarelli

Non li conto perché altrimenti dovrei prendere atto che sono malata. Tratto sottile, medio o grosso e di ogni marca e per ogni gusto. Perché mi piacciono tutti e ognuno dev’essere usato nel giusto contesto: una mappa mentale o un riassunto lavori in corso o un disegno.

I miei preferiti stanno davanti ai miei occhi, sulla scrivania, contenuti in un portapenne che potrebbe anche scoppiare, ma ancora non lo fa. Abbraccia tutte le gradazioni del viola, del rosso, del blu e del grigio. Ce ne sono alcuni neri (un must) ed evidenziatori come se piovesse. 

I pennarelli non sono penne, sono più liberi. Loro possono spingersi dove le penne non potrebbero mai. Loro tratteggiano, delineano e riempiono. Possono anche ombreggiare – se ci sai fare – e possono coprire ciò che hai erroneamente scritto. Insomma, possono mimetizzare certi sbagli e non è cosa da tutti, ammettiamolo. Quelli con punta sottile scrivono meglio di una qualsiasi penna, e poi non voglio neppure parlare dei mitologici Tombow… quelli sono stati creati da Dio in persona.

Purtroppo ho smesso da tempo di disegnare, anche se mi piacerebbe ricominciare e mettermici d’impegno, così li uso per fare cose basic (anche banali), più che altro per il gusto di usarli. Sì, non sono poi così normale come appaio.

Ho una fissa smisurata per i colori pastello, non considero i gialli e i marroni e non mi sento per niente in colpa per questo. Non amo indossare troppi colori (ne conto tre o quattro tra i miei prediletti), ma le lettere mi piace renderle vive e sgargianti per ricordarmele meglio. Le cose importanti, davvero importanti, devono essere scritte rigorosamente in viola.  È ovvio.

Ok, non ho più niente da dichiarare al riguardo. Ora voglio il mio avvocato. O mi taccerò per sempre.

 

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(1019) Disposizione

Disporre le cose con cura è un’attività che mi dà parecchia soddisfazione. Le cose messe lì così, a casaccio, mi mettono a disagio. Non è tanto una ricerca di perfezione (come erroneamente si potrebbe pensare) è una soddisfazione dell’occhio (mio) che guarda. Mi sento bene quando quello che guardo ha una certa logica nel suo apparire, una certa forma, una certa pulizia, una certa luce, una certa eleganza.

Non posso uscire di casa indossando colori a caso. Non posso mangiare con il cibo buttato sul piatto come viene. Non posso lavorare su una scrivania dove le cose siano state disposte malamente.

Potrebbe essere una malattia sotto mentite spoglie, me ne rendo conto, ma non mi faccio venire un attacco di panico se qualcosa di inguardabile mi colpisce l’occhio (e ne vedo di cose ammassate senza criterio), anzi non faccio una piega. Tutto quello a cui bado per non contravvenire alla mia benedetta regola della buona-disposizione è metterci del pensiero ogni volta che scelgo il da farsi.

Questo è il motivo per cui nel mio guardaroba ci sono pochi colori (il nero vince su tutti), ho una logica a cui mi attengo. Con un certo rigore e con assoluta continuità. Curare quotidianamente un equilibrio che posa su questa logica è il meglio che posso fare. Il resto mi sfugge, il resto è Caos, il resto è quel che deve essere. Ma per stare sul filo e non cadere giù, la buona-disposizione è la soluzione che adotto quotidianamente. E funziona.

Stop.

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(1010) Stile

Questione di stile. E non sto parlando di uno stile che sia migliore dell’altro, sto solo facendo presente l’ovvio: ognuno di noi ha il suo. O dovrebbe averlo. 

Ognuno di noi è portatore sano, o meno sano, di un mondo che si è creato col tempo: scegliendo quello che gli pare. Va da sé, ognuno di noi ha il suo modo originale di esplicitare quell’agglomerato di cose che ha inglobato nella sua personalità con gli anni e la ricerca. 

Ai miei tempi se non amavi Bukowski eri un po’raccio. Mi sono letta tutto Bukowski annoiandomi un bel po’ nel frattempo, per decidere che con tutto il rispetto che provavo nei confronti di questo autore/poeta, il mio mondo era un altro. Ovvio che certe sue frasi fan bene ai neuroni e al cuore, ma quel suo universo, con la sua malattia, è ben lontano dal mio, e dalla mia malattia. Stessa cosa per Kubrick. Stessa cosa per il Cubismo. Mondi che sfioro volentieri, ma nei quali faccio fatica a immergermi. Non risuonano con il mio. 

Il mio stile è fatto di tonalità accoglienti, anche se amo i colori sgargianti che trovo in natura. Per esempio: un verde acido su una maglietta o su dei pantaloni… ecco, non lo contemplo neppure. Il mio sguardo non accoglie, rifugge.

Il mio stile è fatto di suoni grintosi e di melodia. No, non frequento i rave

Il mio stile è fatto di parole legate ai concetti e immagini che raccontano senza dover dire niente e oggetti anche inutili ma tanto belli. E dettagli, milionate di dettagli che vanno a migliorare la sostanza.

Detto questo: essere criticati per lo stile che ci portiamo appresso è d’obbligo. E a dirla tutta, se da ragazzina me ne facevo vanto, se da ragazza alzavo le spalle, se da giovane donna alzavo il sopracciglio, ora resto impassibile. 

Francamente non me ne potrebbe fregare di meno. Non baratto il mio stile per il tuo. Fattene una ragione e ignorami. 

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(932) Ricucire

Evidentemente viviamo di strappi. Partiamo tutti belli compatti, niente ci potrebbe distruggere – il nostro pensiero nasce libero e splendente ancora prima di uscire dalla mamma – ma non è così. Appena ci confrontiamo con il mondo iniziamo a subire piccoli strappi. Piccoli, quasi invisibili, ma la nostra trama si indebolisce per forza di cose.

Mano a mano che ce ne accorgiamo, ci costringiamo a prendere ago e filo e ricucirci… un pezzettino per volta, con pazienza. Se non lo fai ti disintegri, pertanto impari a farlo. Impari a farlo sempre meglio. Impari a farlo di default, perché sai che gli strappi sono all’ordine del giorno. 

Ci stanchiamo più a ricucire i nostri strappi che a cercare di schivarli, ma per quanto tu faccia è stramaledettamente difficile evitarli. Siamo Esseri sensibili al tempo, agli umori, ai dispiaceri, ai problemi, alle perdite, alle mancanze, alle frustrazioni, alle umiliazioni, ai sogni infranti e via dicendo. Tutto è, potenzialmente parlando, foriero di strappi. Anche se non ci facciamo caso, anche se ci siamo abituati, anche se siamo diventati dei sarti provetti. Non fa niente, è così che si vive. Di strappi e ricuciture.

A me dispiace, voglio dire che preferirei passare il mio tempo a sfoderare colori meravigliosi come fanno i pavoni piuttosto che rammendare orli e rattoppare buchi e sistemare quello che ogni giorno cede in me. Solo che se lascio andare a ramengo tutto non è che si sistema da sola la faccenda, anzi. Una smagliatura al collant e addio collant se lo lasci fare, tanto per intenderci.

Però mi dispiace. Speravo di riuscire a proteggermi meglio.

Epic fail.

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(830) Màndala

L’Universo, il cosmo, le connessioni tra le forze cosmiche e le divinità: questo sono i Màndala. Un modo per proiettarti nello spazio, non per trovare risposte alle tue domande (lecite), ma per catturare luce (colori) e forme che possano tradurre tutto l’infinito che incontri. Non per capirlo, solo per fissarlo (spesso non per sempre) in una dimensione che puoi ammirare con gli occhi e con il cuore. Non è che ci vuole pazienza, ci vuole amore.

Credo che se riuscissimo a guardarci come se fossimo emanazioni (e lo siamo) di un Universo di luce per posarci l’un l’altro su un piano e guardarci, non per capirci ma per osservare le forme e le connessioni di cui siamo portatori, andrebbe meglio. Tutto andrebbe meglio.

Non si tratta di combinare i colori che scegliamo, ma di riportare esattamente le geometrie colorate che i nostri occhi stanno fotografando. Ovviamente bisognerebbe proiettarsi in uno spazio al di sopra della mente, dove il pensiero perde il suo intrigante appeal per vagare innocente tra una stella e l’altra senza pretese.

Sostanzialmente impossibile, ne convengo, ma affascinante come possibilità, vero? Si scoprirebbero subito quelli privi di luce, quelli che si sono fatti ingoiare dal buio. Ce ne sono tanti sparsi ovunque, che sorridono e che amabilmente ti raccontano di quanto sono felici, ma sono spenti dentro. E non lo dico per giudicare, ma perché a saperlo si potrebbe fare qualcosa, si potrebbe creare una sorta di canale benefico per riempire qualche vuoto e far rispuntare in loro l’amore che manca. Continuare a fingere, tutta una vita, è ben faticoso e si potrebbe far fatica per chiedere aiuto anziché spargere veleno per spegnere la luce degli altri, no?

Vabbé, era solo una riflessione, non certo una soluzione a tutti i problemi del mondo. Però, pensarmi un Màndala con una certa forma e una certa luce che si frammenta in colori che non riesco neppure a immaginare mi piace. Mi proietta in uno spazio accogliente, dove sgranchirmi gli arti doloranti e vagare senza pensieri. Non lo so, ma potrebbe essere interessante vivere un po’ di più dove la luce e i colori fanno vibrare la vita.

Così, tanto per dire.

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(821) Famiglia

Dovrebbe essere il nostro rifugio, il luogo prediletto, dove poter essere noi stessi sicuri di essere accolti in ogni momento e accettati in ogni circostanza. Dovrebbe, ma non tutti sono così fortunati. Io lo sono.

In famiglia si impara a relazionarsi con la gerarchia, con le regole, fondamentali passi per inserirsi in società. In famiglia si impara a dosare il linguaggio, a mitigare il nostro comportamento, a chiedere scusa e ad accettare le scuse di chi ci ha ferito (più o meno volontariamente). In famiglia si impara la compassione, si assorbono valori come il rispetto e persino la stima. Si fa i conti con la nostra capacità di comprendere gli altri e noi stessi, di capire le situazioni, di risolvere i problemi e chiedere aiuto, oltre che dare aiuto.

In famiglia si impara a stare ognuno al proprio posto, specialmente a tavola, a sistemare le proprie cose in modo che non diano fastidio agli altri, a pulire quello che altri hanno sporcato come gli altri puliscono quello che noi sporchiamo. In famiglia si impara che a un certo punto puoi anche urlare e far valere le tue ragioni quando pensi che ti si sta facendo un torto. Non rischi l’amore di nessuno, non rischi botte né umiliazioni. Al massimo qualche broncio per qualche settimana. quando particolarmente pesante ci sta pure la punizione a tempo determinato.

In famiglia impari a ridere assieme agli altri e non alle spalle di qualcuno o a spese di qualcuno. In famiglia impari ad ascoltare e a tenere la bocca chiusa quando i grandi parlano. A volte devi dire signorsì, altre devi metterti in tasca l’orgoglio, la pigrizia, l’indolenza. Così si fa quando si vive insieme, ci si vuole bene, ci si guarda le spalle gli uni con gli altri. Si fanno tanti errori, vero, ma mai così definitivi da ritrovarsi soli.

In famiglia ci sono sorrisi e abbracci, anche non detti, e ci sono spesso perché l’amore è fatto di questo. In famiglia va così, non è sempre uguale, ci sono alti e bassi e giorni proprio storti. In famiglia si vive così, un po’ si programma e un po’ si improvvisa, e si sbattono le porte, si rompono le palle e le si riattacca per quieto vivere. In famiglia c’è sempre un mondo, composto da tanti mondi, che si trasforma cambiando colori oltre che stagioni.

Le famiglie sono così. Quando non sono così iniziano i guai.

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(769) Posta

Non scrivo più lettere, scrivo post. E non è la stessa cosa. Non indirizzo più i miei pensieri a una persona fisica conosciuta, di cui posso immaginare le espressioni del viso mentre scorre le righe che la mia penna ha lasciato sui fogli. Ora lancio nella rete pensieri che rivolgo a me stessa, senza immaginare alcun volto e alcun nome. Non può essere sana ‘sta cosa, mi dico, ma lo faccio perché non credo che ci sia qualcuno in attesa di ricevere una mia lettera, come un tempo c’era. Anzi c’erano.

Scrivevo 60 lettere al mese e le spedivo ai miei corrispondenti sparsi in tutta Italia. Facevo parte di un nutrito gruppo di Fanziners e ancora internet non era roba di tutti, non era di certo roba mia. Ci scrivevamo conoscendoci sempre un po’ di più e poi ci incontravamo per vivere insieme pezzetti d’esperienze da ricordare. Un periodo pieno di meraviglia e buoni sentimenti, indimenticabile.

Compiuti i trent’anni ho fatto un paio di scatoloni belli grandi, ho buttato dentro tutte le lettere che tenevo gelosamente da parte. Alcune le ho aperte e le ho rilette con commozione. Di alcune non ricordavo nulla, di altre ricordavo ogni riga. Quando sono riuscita a dire addio a tutte ho fatto un bel falò. Dovevo.

Ho bruciato anche tutti i miei diari di scuola, quelli che avevano ricevuto più che i compiti da fare per il giorno dopo centinaia di foto dei miei idoli del tempo, con decorazioni originali in colori sgargianti (usavo i colori sulle pagine più che sui vestiti proprio come ora). Mentre bruciavano scoppiettando davo l’addio alla mia adolescenza matta, augurandomi che non mi abbandonasse mai del tutto.

Riti di passaggio, dicono che fanno bene. In effetti male non fanno (accontentiamoci va là).

Ritornando alle lettere che non scrivo più, penso che potrei ricominciare qualora mi innamorassi. M’è venuta così ‘sta cosa, proprio ora, non me l’aspettavo neppure io, ma se faccio mente locale l’unica ragione sensata per ricominciare a scrivere lettere a un viso conosciuto da immaginare mentre legge le mie righe è proprio questa: innamorarmi.

[sto ridendo, è bene che lo sappiate, sfidare l’impossibile è piuttosto divertente]

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(512) Misericordia

Per rendere meglio l’idea avrei dovuto metterci un punto esclamativo finale: Misericordia! Ecco, così è perfetto.

Oggi mi sono dedicata a un pensiero (tra le mille cose a cui devo pensare trovo pure il tempo di evadere inseguendo un pensiero assurdo, lo so, me ne rendo conto) che ha i suoi bei perché (ne sono certa) anche se magari al momento mi sfuggono per buona parte, ovvero: l’imprecazione – origini, usi, abusi, colori e buongusto. Sì, tutto questo in un solo pensiero, piuttosto affollato lo so ma una cosa tira l’altra e alla fine lasciare fuori qualcuno è cattiva educazione per cui tutti dentro e avanti.

Per farmi capire devo proprio iniziare dalle origini: perché scatta l’imprecazione? Perché qualcosa o qualcuno ti urta il nervo scoperto. A me scatta ogni tre secondi, implicita o esplicita che sia, tre secondi è la cadenza di una giornata lavorativa normale. C’è chi fa di meglio, chi di peggio, non è questione di essere Illuminati o meno – non soltanto – il come ti gestisci l’imprecazione dipende anche dalla capacità di tenere calmi i nervi. Certi giorni ce la si fa, altri no, semplice. 

Passiamo al concetto successivo: usi. L’imprecazione la uso per dare sfogo all’irritazione, che non è fastidio, è fastidio sublimato all’ennesima potenza. Quando proprio ti manca la motivazione per morderti la lingua, perché ormai si è proprio andati oltre, ecco… l’imprecazione ti permette di soddisfare quel gap tra il dire e il pugno che ti potrebbe partire se non dici.

Andiamo avanti: abusi. L’abuso di imprecazioni – purtroppo – ne dimezza la portata e l’effetto. Purtroppo. Non è che più ne dici e più risolvi, no. Più ne dici e più chi ti ascolta si abitua, c’è una sorta di assuefazione che fa andare tutto in malora. Con questa consapevolezza, le mie imprecazioni sono per lo più intime, sussurrate tra me e me, per la maggior parte delle volte.

I colori di un’imprecazione, ecco questo dettaglio è importante: se usi le imprecazioni più terra-terra, quelle che usano tutti, ti fai un torto e lo fai anche al Signore-delle-Imprecazioni che ovunque impera (ma con pudore e umiltà). Bisognerebbe regalarsi una nuova imprecazione al giorno, una cosa di fantasia, un guizzo di creatività, un’impennata geniale capace di elevare l’imprecazione a piccola opera d’arte (i romani sono dei Maestri in questo).

La cosa da cui non si può prescindere, invece, è proprio il buongusto. Cioé, non ci possiamo permettere di eccedere con il veleno, con il sarcasmo, con la cattiveria. No, non sarebbe più un’imprecazione, cambierebbe di sostanza. Per non parlare della bestemmia che è l’antimprecazione per eccellenza, quando passi alle bestemmie hai già perso.

Quindi, tirando le somme, ammetto che ultimamente mi sono adagiata su uno standard piuttosto triste, per nulla adatto alla mia professione creativa e dovrò impegnarmi prossimamente per rendere più colorite e più fantasiose le mie imprecazioni. Una cosa, però, mi piacerebbe: vorrei che i motivi per imprecare si riducessero a un paio al giorno. Sono sicura che due imprecazioni al giorno le posso gestire bene, rimarrebbero terapeutiche ed efficaci. So che dipende da me, so che mi devo irritare di meno, eppure faccio fatica a gestire le faccende che mi girano attorno. E poi come si fa a rimanere calmi davanti a certe cose?

Misericordia!

 

  

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(494) Xografia

Ho trovato sul dizionario questo termine e mi ci sono innamorata. Non ho ben chiara la tecnica fotografica della xografia, ma me ne sono fatta un’idea del tutto personale – forse è per questo che l’ho raccolta e portata qui.

Ci sono certe parole che proprio ti chiedono di entrare. Sembrano stare lì da secoli solo per te, ti stanno aspettando. Non ti obbligano a scoprirle, ma a riempirle. Solitamente amo le altre, quelle che mi impongono una scoperta, ma queste qui che ti suonano vuote diventano irresistibili se quello che fai è scrivere. Ti devi inventare immagini apposta se non hai appigli.

Ci sono immagini nella mia mente che potrebbero assomigliare a magnifiche xografie.  Molto probabilmente, diventerebbero ridicole qualora le trasformassi in realtà e proprio per questo posso tenermele dentro, al sicuro, per sempre. Nessun obbligo di sorta, le alimento con il sogno senza provare l’urgenza di concretizzarle. Che sollievo!

Credo che quello che immaginiamo possiamo crearlo, magari non tutto subito e non tutto facilmente, ma possiamo farlo se lo immaginiamo con tutte le nostre forze. Spesso le forze ci mancano, però. Spesso ci vengono tolte da chi ci sta attorno e dal posto in cui viviamo. In realtà, mancano soprattutto dentro di noi e quel po’ che c’è può venire facilmente portato via dal primo che passa. Partire dal presupposto che possiamo immaginare e realizzare quello che immaginiamo può essere pericoloso se non supportato da una visione integrale della faccenda: ci devi mettere del tuo. Altrimenti è soltanto un sogno e i sogni sono desideri troppo delicati per sopportare la pressione terrena – li devi alimentare con ancora più attenzione o si sciupano e si polverizzano inesorabilmente. Ma mi sembra di averlo già scritto… probabilmente sono al secondo giro degli stessi pensieri, considerato che questo è il post 494, e via di loop!

Oggi ho riportato a galla il mio sogno più grande. Non lo scriverò altrimenti diventa pesante e perde i suoi colori, ma mi sono ricordata di questo sogno, questa immagine di me e mi sono stupita ci fosse ancora e così vivo. Una strepitosa xografia che neppure gli ultimi vent’anni hanno saputo spazzare via. Lo trovo incredibile e rassicurante. Non so perché io me lo sia ricordata proprio oggi e proprio ora, forse è solo un caso, ma ne sono felice.

Basta poco per ritrovarsi, a volte.

 

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(488) Mimetismo

Ho trascorso lunghissimi anni mimetizzata nell’ambiente in cui ero immersa. Ho cambiato centinaia di lavori, ho affrontato situazioni che mi parevano – e forse lo erano – assurde, ho incontrato gente, stretto mani, sorriso quando non volevo sorridere, fatto finta che quello che c’era mi andava bene mentre avrei voluto urlare e spaccare tutto.

Si chiama sopravvivenza. Chi l’ha praticata conosce bene i motivi, conosce bene le paure, conosce bene i pericoli, conosce bene le conseguenze. Non ci si mimetizza per mentire, ma per non essere visti. Ci si nasconde non perché abbiamo qualcosa da nascondere, ma per non attirare l’attenzione. Sappiamo che possiamo essere colpiti, sappiamo che saremo colpiti perché non siamo uguali agli altri. Né peggio, né meglio. Solo diversi per pensieri, bisogni, ambizioni.

L’Arte del Mimetismo mette in gioco la capacità di osservazione e di analisi, si acquistano colori che son nati per essere cambiati, a ogni passaggio. Mentre li indossi, quei colori, provi se davvero fanno per te – nel qual caso te li terresti volentieri – o se invece non sono i tuoi. Se non li indossi come puoi giudicare? Se passi oltre, per scelta, significa che ne devi provare altri, ancora non sei arrivato a destinazione. Così via, finché non trovi casa. Non c’è doppiezza in questo, c’è coraggio.

Il mio mimetizzarmi è durato sempre pochissimo, ma davvero pochissimo: a volte pochi mesi, a volte tre/quattro anni al massimo. Indossavo i colori, cercavo di capire se in quell’ambiente avrei potuto vivere e crescere e appena mi si palesava l’evidenza andavo oltre. Altri colori, altra esperienza. Con coraggio, sì, e con il bisogno di essere autentica con me stessa. Nonostante tutto.

Chi si mimetizza in malafede, per avvelenare, per depredare, per distruggere l’ambiente che lo accoglie, non pratica l’Arte del Mimetismo, è semplicemente un bastardo e tale resterà con ogni colore che deciderà di indossare. Anche fosse il colore giusto per lui.

 

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(447) Nymphaea

Ci sono molte cose che mi passano davanti o accanto e che io ignoro, proprio non le guardo. Non che non me ne accorga del loro passaggio, ma non le guardo perché ho altro da fare. Solitamente non è per mancanza di genuino interessa, infatti ho scoperto che se ho tempo libero mi interessa proprio tutto. Incredibile quanto io possa essere interessata alle cose, anche quelle più inutili, tanto che mi devo impedire certe volte di avere tempo da perdere.

Vabbé, tra le tante cose che non mi fermo volutamente a osservare ci sono altre che invece attraggono la mia attenzione fino a fagocitarmi. Passano ore come fossero secondi mentre cerco di riaffermarmi al mondo uscendo dal tunnel.

Una di quelle cose che mi attraggono sono i fiori, tutti. Li trovo tutti splendidi, soprattutto perché ce ne sono talmente tante di specie da perdere la testa. Proprio oggi mi sono imbattuta in una foto di ninfee che ho trovato strepitosa e da lì ho pensato che non ne sapevo nulla di ninfee e che magari digitando la parola su Google qualcosa sarebbe uscita. Sbang!

Mi sono resa conto di quante specie di ninfee esistono, tutte diverse, tutte con un’Anima ben definita e tutte tutte tutte splendide. Stessa cosa mi successe in una serra di orchidee tempo fa, o nel roseto di un monastero quando avevo meno di trent’anni e… e tante altre volte. Ricordo la passiflora che fioriva arrampicata nel muro della casa della mia nonna, ricordo i colori, il profumo e le vespe che ci ronzavano attorno e che una volta mi hanno punto sul dorso sella mano.

Mia nonna aveva un gran pollice verde, anche mia madre lo ha, piacerebbe averlo anche a me. Per la cronaca: la mia piccola bonsai, Gala, si è ripresa alla grande, ma non sono affatto sicura sia per merito mio, credo piuttosto per la vicinanza di tutte le piante che le stanno attorno – e per la vitamina, ovvio. 

La vitamina fa bene a tutti.

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(445) Rosa

Quando scoprii – anni fa – l’importanza dei venti per il nostro pianeta ne rimasi affascinata. Mi domandai perché a scuola nessuno me lo avesse detto, o per lo meno perché nessuno lo ritenesse abbastanza vitale da farcelo tatuare in fronte. Sono un’ingenua, lo ammetto.

Mi capita spesso mentre scopro gli abissi della mia ignoranza, di cui continuo a vergognarmi ma che con gioia cerco di colmare di tanto in tanto, di pensare: “Adesso la mia vita non sarà più la stessa”.  Spesso è così, altre volte me lo dimentico dopo due secondi – ma senza cattiveria, solo perché sono piuttosto rimbambita.

I venti sollevano e mitigano e trasportano e alzano/abbassano e profumano o puzzano – e mille altri verbi che si agitano anche in contemporanea – in poche parole i venti vivono e ci permettono di vivere. Sono la combinazione di tutti i movimenti che ci potremmo immaginare calcolando quanto il nostro pianeta si sa muovere e si muove, e sempre in dosi diverse. C’è da perderci la testa a misurarli e credo che sia per questo che l’uomo abbia deciso di farsene un’idea un po’ più statica – quel tanto che gli permettesse di capirci qualcosa – disegnando una rosa: la Rosa dei Venti.

La Rosa è il fiore Regina, ha centinaia di colori e varianti, ha petali vellutati e profumi tenui o intensi ed è sempre bellissima. Che la Rosa abbia bisogno dei Venti lo si potrebbe anche intuire, ma che anche i Venti abbiano bisogno della Rosa questo mi piace. Non lo so perché, ma mi piace. Non è la verità dei fatti, è una trasposizione romantica del pensiero umano che in qualche modo trova nel mondo il bene che lo riempie e gli rende la vita possibile.

Ho divagato, forse, ma non m’importa perché ho seguito un pensiero che mi concilierà il sonno e mi farà stare bene.

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(427) Mancanza

La velocità d’abituarsi al lusso (fosse anche un piccolo lusso) è immensamente più alta rispetto a quella d’abituarsi ad una mancanza (anche piccola). Sembra ovvio, ma può non esserlo nella pratica, soprattutto quando è il nostro benessere a crescere e assieme a lui la nostra noncuranza.

Una cosa, però, ho imparato in questi miei anni ed è qualcosa che mi ha messo fortemente in crisi, ovvero: quando per lungo tempo vivi con una mancanza, quando l’hai addomesticata, quando le hai tolto potere, quando l’hai tradotta in un semplice e piccolo vuoto… a quel punto capisci che puoi farne a meno.

Se puoi farne a meno, ed è un dato di fatto visto che sei sopravvissuta, allora significa che forse quella mancanza non pregiudica la tua esistenza (e questo è un bene), ma piuttosto pregiudica la tua felicità (e questo è anche un bene, perché la felicità è sempre un bene) e se reputi che quella felicità sia giusta per te allora sarebbe bene che tu la recuperassi.

Dato per scontato che ogni Essere Vivente ha il diritto sacrosanto alla felicità, allora bisogna anche valutare che la felicità può assumere diverse forme e un numero smisurato di colori. Ci sono felicità sane e felicità meno sane, altre proprio avariate, e la cosa che dovremmo fare – quella più intelligente – sarebbe prenderci cura della nostra idea di felicità.

Cos’è che ci rende felici? Perché? Già rispondere a queste due domande potrebbe risolverci la vita.

La pienezza della felicità non tiene conto delle mancanze, ma delle presenze. Ecco cosa voglio ricordarmi ogni giorno finché avrò respiro: le presenze, non le mancanze.

Ce la farò?

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(254) Bianco

Uno dei miei colori preferiti, il bianco, specialmente d’estate. Il nero? Sempre, assolutamente sempre e da sempre. Il blu è un altro dei miei prediletti. E poi c’è il viola, che chi mi conosce sa che è una fissazione. Non indosso mai il giallo né il verde, sono belli ma non su di me.

Bianco è il mio modo di affrontare la giornata, ci scrivo sopra. Bianco è il mio modo di relazionarmi con gli altri, ci faccio scrivere sopra da loro. Bianco è il mio modo di guardare il mondo, i colori ce li mette lui.

Credo abbia a che fare con la luce, anche troppa, e con la voglia di chiarezza. Ne sono sicura, un tocco di bianco può cambiare la vita. Ed è l’unico colore che non devi usare con parsimonia. Abbondare non nuoce, al massimo rischiara.

Quando un pensiero mi si colora di bianco si disperde. Diventa innocuo. I pensieri innocui sono i migliori, garantisco.

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(199) Luminescenza

luminescènza s. f. [der. del lat. lumenmĭnis «lume»]. – In fisica, processo di emissione della luce, e in generale di onde elettromagnetiche, in cui il fenomeno consegue a transizioni elettroniche tra stati energetici diversi di un sistema atomico o molecolare.

Quando scelgo le cose mi baso su questo principio fisico: l’emissione della luce. Non bado ai dettagli, ma alla luce che l’idea, la situazione, le persone fanno arrivare fino a me. Che poi la veda solo io è cosa da discutere, non credo sia così, ma che io me ne accorga e non tutti lo fanno questo è un dato di fatto.

Molto spesso neppure i fautori di tale emissione se ne rendono conto, allora  il mio compito è di mettermi lì accanto a loro e far notare, onda dopo onda, quello che loro stessi stanno creando.

Se a un primo momento vengo guardata come una povera pazza, non escludo di esserlo tra l’altro, con il passare dei minuti, trovando le parole giuste, i loro occhi iniziano ad acquistare sensibilità. Forse non percepiscono ancora la luminescenza che ricevo io, ma cominciano a focalizzare la propria attenzione su quel movimento impercettibile di onde che possono fare la differenza.

Credo che in poche parole sia questo il mio compito, captare la luminescenza per avvicinarla agli occhi di chi ne è fautore inconsapevole perché… perché… forse perché manca di amore nei confronti di se stesso, o forse perché nessuno glielo ha mai detto che la sua luce è importante.

Sì, non faccio altro che questo, tutto il tempo. E mi piace. Moltissimo.

La luminescenza poi prende forma e nuovi colori e vedo accadere meraviglie. Sarò anche pazza, ma questa cosa della luminescenza me la tengo cara finché posso.

 

 

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(183) Immersione

Una cosa che mi viene bene, immergermi. Prendo le misure e vado. Sotto, in profondità. Quando sono là sotto perdo il contatto con tutto il resto, quello che lascio in superficie, e là sotto non sento mancanze, non sento lontananza,  là sotto mi basto.

Il tempo dell’immersione non è lunghissimo, ma non per mio volere, soltanto perché qui in superficie ci sono cose da fare e io le devo fare.

Non pratico soltanto un tipo di immersione, ma tutte. Proprio tutte. Immaginane una e io già l’ho provata. Anche se non l’ho sperimentata con il corpo, la mia mente l’ha già percorsa quella via. Si tratta di allenamento, ma l’ho già detto: è una cosa che mi viene dannatamente bene.

Solo una piccola parte di queste immersioni diventa concreta, scritta e quindi consegnata alla realtà della superficie. Credo sia giusto così.

Un dato di fatto è che là sotto ci sono colori pazzeschi e il silenzio è pieno di suoni che parlano di tutto quello che in superficie si frantumerebbe perché delicato, perché pulito, perché troppo vivo.

E così è.

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(89) Colori

Qualche sostenitore del Vivere a Colori in giro? No, era tanto per chiedere.

I colori nella mia vita ci sono, me li curo, li noto in ogni cosa, ringrazio il cielo per questo e per le altre cose che ho, ma non disdegno neppure il bianco/nero. “La famiglia Addams” a colori farebbe schifo. Ecco: io per Morticia ho un debole. Cosa significa? Perché lo sto scrivendo qui?

Semplice: perché pensare che io possa trasformarmi in un arcobaleno di gioia e sorrisi è perlomeno fuori luogo. Nessuno che mi conosca soltanto un po’ potrebbe azzardare un’ipotesi simile. Sono fatta così. Sono malinconica, riflessiva, introversa (sì, lo sono, so fingermi estroversa quando devo, sappiatelo), amo il nero (e anche il bianco), ma soprattutto il viola. Questo è il quadro pressocché completo. Il resto sono dettagli.

I colori per me, però, sono fondamentali. Li scopro e riscopro dentro alla mia testa, dietro agli occhi, che viaggiano nella gola e vanno giù fino allo stomaco e poi risalgono. Altro che arcobaleno!

Non è che vado a sbandierare in giro il fatto che sono piena di colori, me li tengo per me, me li vivo, me li gestisco e amen. Do per scontato che mica sono la sola ad averli dentro e che la maggior parte di chi li ha dentro non ha voglia di farli uscire così alla cavolo, solo per far felice il mondo.

Il mondo spegne i tuoi colori, il più delle volte, lo sapevi?

Io lo so, l’ho sperimentato più volte e mi sono adeguata a vivere in uno stato di silente coloritura interiore. Guarda che è bellissimo, non si soffre mica. Tu dentro puoi avere tutti i colori che vuoi, rimarranno sempre brillanti e vivaci se non li dai in pasto al mondo. Giuro.

Ecco, in poche righe ho esplicitato il mio credo, quello che mi ha accompagnato fino a qui per 30 anni. Ecco, ora lo dico ma senza crederci troppo. Lo dico perché quando una decide di mettere in atto una trasformazione deve per forza mettere in gioco l’artiglieria pesante, non può nascondersi dietro un divano. Quindi lo dico: forse, e dico forse, è arrivato il momento di far uscire un po’ di colori…

Solo perché altrimenti implodo.

È mera questione di sopravvivenza.

Stop.

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