(878) Genio

Non sono nata genio, ma lo so riconoscere quando lo incontro. Anche per questo ci vuole un certo genio, concedetemelo.

Mi va a genio, generalmente, chi mi guarda negli occhi riconoscendomi come essere pensante – no non è cosa ovvia – e sa ascoltare anche quando dico cose noiose (succede raramente, ma succede) (detto con una certa ironia, ovviamente).

Mi vanno a genio i libri che mi fanno scoprire il mondo – no non lo fanno tutti – e quelli che mi fanno scoprire piccoli pezzettini di me che ancora non avevo focalizzato per bene.

Mi va a genio chi sorride per darti il benvenuto, chi ti offre da bere solo per poter trascorrere del tempo con te e nient’altro. 

Mi vanno a genio le mug perché non sono tutte uguali, anche se tutte nascono con la stessa funzione. Caffè, tè, me? (cit. Una donna in carriera – film)

Mi vanno a genio le noci brasiliane, i frutti rossi, le candele e gli incensi, lo smalto per unghie, il chinotto, le mappe mentali, gli abbracci sinceri, le corse in bicicletta nella mia pianura/campagna natìa, il mare…

Mi piacciono le persone geniali, ma solo quelle che non sanno di esserlo. L’umiltà colma certi vuoti d’anima delle menti troppo illuminate. Perché anche essere troppo illuminati non è che sia proprio il massimo (secondo me, e non parlo per invidia). Mi piacciono di più, però, le persone di cuore. Quelle superano il genio perché hanno capito cosa significa amare.

In tutto questo vorrei che ci fosse un senso, ma non sono giorni sensati questi per me, sono giorni scoperti, dove gli appigli scivolano via e il rotolare mi fa cadere la testa. Vorrei essere più forte. Più saggia. Anzi, geniale. Magari riuscirei a risolvere questa vita-rebus che mi supplica di essere risolta.

Eh. Mica è cattiveria. Sono soltanto limitata. Maledizione.

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(674) Umiltà

Di certo una dote, rara. Eppure mi sto domandando da qualche tempo quante facce può avere l’umiltà e se mi piacciono tutte. Siamo soliti pensare che ciò che non è umile è falsamente umile, e non a torto, ma la reale umiltà credo non abbia solo un modo per esprimersi e una sola faccia da mostrare.

Beninteso, non voglio dire che l’umiltà sebbene multifaccia e multiforma sia da dividersi in vera e falsa o buona e cattiva, dico soltanto che non penso che l’umiltà sia soltanto dimostrata dal prostrarsi, dalla mancanza di orgoglio, dal prendere le distanze rispetto alle proprie sicurezze personali. Non lo penso.

In realtà, mi imbarazza chi si prostra e chi si mette totalmente da parte perché non si pensa degno di considerazione. Sento dal profondo delle viscere che non va bene, che nessuno dovrebbe, che la dignità intatta e l’umiltà possono e devono abbracciarsi per completare l’uomo e la donna. Non si possono scindere senza causare uno scempio.

Non nutro la modestia, mi risuonerebbe dentro come una campana sbeccata. Non nutro l’arroganza, mi schiaccerebbe a terra piena di vergogna. Non nutro la superiorità come sentimento, mi ridurrebbe in cenere prima del tempo. Mi piace, però, valutare per bene i miei limiti e le mie forze, mi piace guardare le persone negli occhi – fossero il Papa o un neonato – considerandomi alla pari come Essere Umano. Mi piace riconoscere i meriti, i pregi, le capacità, i talenti, le genialità dei miei simili e imparare da tutti. Mi piacerebbe anche che le mie qualità fossero riconosciute senza doverle ostentare, perché ostentare è una di quelle cose che mi mette fortemente a disagio e lo evito più che posso.

Questa è la mia faccia dell’umiltà, non quella che i Santi potrebbero vantare, ma la mia personale modalità per pormi nei confronti del mondo con la presenza di cui sono capace – né più né meno. Basta test, basta chiedere il permesso e basta chiedere scusa. Ho una faccia soltanto e questa contiene versioni molto personali di pregi e di difetti. Come tutti, semplicemente come tutti.

 

 

 

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(512) Misericordia

Per rendere meglio l’idea avrei dovuto metterci un punto esclamativo finale: Misericordia! Ecco, così è perfetto.

Oggi mi sono dedicata a un pensiero (tra le mille cose a cui devo pensare trovo pure il tempo di evadere inseguendo un pensiero assurdo, lo so, me ne rendo conto) che ha i suoi bei perché (ne sono certa) anche se magari al momento mi sfuggono per buona parte, ovvero: l’imprecazione – origini, usi, abusi, colori e buongusto. Sì, tutto questo in un solo pensiero, piuttosto affollato lo so ma una cosa tira l’altra e alla fine lasciare fuori qualcuno è cattiva educazione per cui tutti dentro e avanti.

Per farmi capire devo proprio iniziare dalle origini: perché scatta l’imprecazione? Perché qualcosa o qualcuno ti urta il nervo scoperto. A me scatta ogni tre secondi, implicita o esplicita che sia, tre secondi è la cadenza di una giornata lavorativa normale. C’è chi fa di meglio, chi di peggio, non è questione di essere Illuminati o meno – non soltanto – il come ti gestisci l’imprecazione dipende anche dalla capacità di tenere calmi i nervi. Certi giorni ce la si fa, altri no, semplice. 

Passiamo al concetto successivo: usi. L’imprecazione la uso per dare sfogo all’irritazione, che non è fastidio, è fastidio sublimato all’ennesima potenza. Quando proprio ti manca la motivazione per morderti la lingua, perché ormai si è proprio andati oltre, ecco… l’imprecazione ti permette di soddisfare quel gap tra il dire e il pugno che ti potrebbe partire se non dici.

Andiamo avanti: abusi. L’abuso di imprecazioni – purtroppo – ne dimezza la portata e l’effetto. Purtroppo. Non è che più ne dici e più risolvi, no. Più ne dici e più chi ti ascolta si abitua, c’è una sorta di assuefazione che fa andare tutto in malora. Con questa consapevolezza, le mie imprecazioni sono per lo più intime, sussurrate tra me e me, per la maggior parte delle volte.

I colori di un’imprecazione, ecco questo dettaglio è importante: se usi le imprecazioni più terra-terra, quelle che usano tutti, ti fai un torto e lo fai anche al Signore-delle-Imprecazioni che ovunque impera (ma con pudore e umiltà). Bisognerebbe regalarsi una nuova imprecazione al giorno, una cosa di fantasia, un guizzo di creatività, un’impennata geniale capace di elevare l’imprecazione a piccola opera d’arte (i romani sono dei Maestri in questo).

La cosa da cui non si può prescindere, invece, è proprio il buongusto. Cioé, non ci possiamo permettere di eccedere con il veleno, con il sarcasmo, con la cattiveria. No, non sarebbe più un’imprecazione, cambierebbe di sostanza. Per non parlare della bestemmia che è l’antimprecazione per eccellenza, quando passi alle bestemmie hai già perso.

Quindi, tirando le somme, ammetto che ultimamente mi sono adagiata su uno standard piuttosto triste, per nulla adatto alla mia professione creativa e dovrò impegnarmi prossimamente per rendere più colorite e più fantasiose le mie imprecazioni. Una cosa, però, mi piacerebbe: vorrei che i motivi per imprecare si riducessero a un paio al giorno. Sono sicura che due imprecazioni al giorno le posso gestire bene, rimarrebbero terapeutiche ed efficaci. So che dipende da me, so che mi devo irritare di meno, eppure faccio fatica a gestire le faccende che mi girano attorno. E poi come si fa a rimanere calmi davanti a certe cose?

Misericordia!

 

  

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(478) Dolcetto

Ce la metto tutta a scovare l’aspetto consolante negli eventi bastardi. Ce la metto talmente tanto tutta da risultare patetica a me stessa. E non è affatto consolante. Nella mia stravagante forma mentis non è prevista la sconfitta totale. Francamente, non riesco a valutare una qualsiasi sconfitta come intera, completa, la considero sempre sconfitta per massimo il 97%. Sospetto il perché, però mi sembra una conclusione semplicistica e sono portata a pensare che non stia tutto lì.

Entra in ballo il concetto di umiltà, virtù della quale probabilmente sono sprovvista ma che ho in grande considerazione. Forse, quel 3% che ripara le mie sconfitte dall’essere complete è proprio il mio dolcetto. Lì ci metto quello che mi può tirar su un po’ il morale: il fatto che comunque ci ho provato, che comunque ho imparato qualcosa in più, che comunque se dovessi affrontare di nuovo la stessa situazione me la caverei meglio. Cose così, cose che mentre le pensi ti fanno sentire meno fallita, cose che ti racconti perché non vuoi infierire, hai compassione di te stessa e facendo un paio di conti non fai torto a nessuno se ti crogioli due minuti in quel benedetto 3% che ti concedi come premio di consolazione.

E non voglio dilungarmi sul fatto che nessuno mai ti offre un dolcetto quando crolli sconfitto, ti viene data una pacca sulla spalla che sa di pietà più che di comprensione, pertanto il dolcetto che riservi per te può essere il serbatoio segreto di energia a cui attingere quando tutto sembra finito.

Certo, se apri il dolcetto non trovi mai il biglietto della fortuna che ti fa fare la svolta, ma anche se disfatta mica sei così idiota da pensare il contrario. So con sicurezza che nessuna sconfitta se assorbita come totale, completa, intera, può portarti a un pensiero positivo, è sempre devastazione. E visto che di devastazione si può anche morire, scelgo una punta di arroganza zuccherina per ogni sconfitta che mi piomba addosso. Di meglio non so fare, purtroppo.

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(456) Locomotiva

C’è chi nasce locomotrice e chi nasce per andare a rimorchio. Non credo si possa passare da una natura all’altra senza soffrirne, non credo che la si possa cambiare al volo quando ti rendi conto che non ti fa comodo: è una condizione senza via d’uscita.

Chi traina non ha scampo, deve trainare. Sempre. Chi s’aggancia per essere trainato, non ha altra scelta se non quella di farsi trainare. Se pensi di non voler essere trainato e provi a trainare è a tuo rischio e pericolo. Trainare significa pensiero solido su cui poggiare il passo e progettazione del percorso, significa costruire il senso e segnare le tappe con criterio, significa sapere da dove partire e sapere dove si vuole arrivare. Prendi con te la vita di altri, la responsabilità non si può dismettere come un abito che non ti veste più, la motivazione non te la può passare chi ti deve seguire, la determinazione non deve avere cedimenti perché frutto di pensiero-dedizione-azione ben strutturati.

Un locomotore ha in sé le caratteristiche che lo evidenzieranno in ogni situazione, spicca tra la folla, la gente si sposta al suo passaggio e volentieri si aggrappa alle falde del suo lungo cappotto per farsi un viaggio che non si sarebbe mai immaginata di poter fare da sola. E se qualcuno tra i tanti inizia a pensare che sì, anche lui può essere locomotore, allora bisognerebbe domandarsi se andare a rimorchio sia stata – fino a quel momento – una pratica di comodo o se, invece, sia una condizione di nascita. Nella seconda ipotesi non ci sarà nulla di buono nel percorrere la spinta della presunzione per spacciarsi altro da ciò che si è.

Quindi se pensi di essere nato per andare a rimorchio e ci stai male, valuta la tua natura e se sei nato locomotiva allora datti da fare. Se la responsabilità, la dedizione, il pensiero e la creazione sono per te un peso di cui puoi fare a meno, allora non sei locomotiva e, credimi,  non c’è nulla di male in questo. Vivi a rimorchio in modo dignitoso e smettila di lamentarti che le locomotive son tutte uguali: scegli quella che fa per te e collabora nel viaggio senza opporre stupida resistenza.

L’umiltà è dote sia per chi traina che per chi viene trainato, in questo siamo tutti uguali.

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(327) Appunti

Sono quella cosa che faccio in automatico. Non è che qualcuno me lo abbia insegnato, sono proprio io che a un certo punto ho iniziato a farlo (a scuola, ovviamente) e non mi sono più fermata. Trovo che sia un’attività indispensabile per agevolare il mio cervello nel suo barcamenarsi quotidiano.

Non ho un gran cervello, diciamo che ha misure standard, insomma è quello che è e non l’ho visto crescere tanto negli ultimi 40 anni, giusto quel che bastava per adeguarsi all’età. Significa che, conoscendone i limiti, ho dovuto inventarmi qualcosa per rendergli il lavoro meno pesante. Prendendo appunti… giustappunto!

(ho sempre desiderato usare giustappunto in un mio scritto e ora l’ho fatto: bellissimo!)

Ritornando al topic del post, riflettevo sul fatto che un’attività privata, silenziosa e, per certi versi, poco divertente come questa, mi ha permesso di gestire una traballante emotività e un poco brillante Q.I. in modo decente, quel che basta per farmi sopravvivere e non è poco. Posso affermare serenamente che non mi è andata male, anche se non ho ancora imparato a vivere alla grande (e mi piacerebbe, ma ci vuole troppa energia e temo di non averne a sufficienza).

Il mio vivere umilmente – non lo dico per vantarmi, ma per focalizzare meglio la riflessione – non è dovuto a una scelta illuminata bensì a una mancanza di mezzi (intellettivi e fisici), eppure scartare le mancanze per creare onorevoli sostituti ha origine proprio nel mio geniale diletto del prendere appunti.

Su di me, sugli altri, su quello che vedo, su quello che non riesco a vedere… la lista può continuare all’infinito perché seppure il mio mondo sia nettamente delimitato da confini e orizzonti troppo vicini, la possibilità di prendere appunti su tutto il resto non vede, e non ha, fine. Me ne sorprendo pure io, ma è così.

Questo mi fa stare bene. Lo dico senza un grammo di umilità: ben fatto Babs!

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(257) Neutro

Fino a qualche tempo fa, tutto ciò che si presentava come neutro mi metteva a disagio, anzi, mi faceva arrabbiare. Neutro non era una condizione che ritenevo dignitosa, neppure per un sapone.

Come si cambia per non morire, canta la Fiorella nostrana. Eh!

Da un po’, e non so dire neppure da quanto, tutto ciò che si dichiara essere neutro mi mette addosso un senso di delicata cura, qualcosa che va a colmare un bisogno evidentemente forte che mi è nato: quello di non essere attaccata da un lato o l’altro dello schieramento.

Ho scoperto che non sempre so da che parte stare. Ci sono questioni talmente complicate che mantenere una posizione neutra per me significa ammettere con umiltà che non ho capito abbastanza per decidere se stare da una parte o dall’altra. Mi dichiaro insufficiente, inadeguata, non all’altezza, questo per non millantare una preparazione che non ho.

Dire “non lo so” una volta per me equivaleva a dichiarare una manchevolezza che mi feriva. Ora mi suona come una ammissione di finitezza, magari non definitiva, ma pur sempre in essere e di cui tenere conto.

Neutro è quel colore che ti permette di osservare le cose finché non ne capisci il senso. Solo dopo puoi onestamente prendere una posizione e dire o agire di conseguenza. Perché le cose sono spazi immensi da esplorare, specialmente in relazione agli Esseri Viventi, ora lo so. Almeno questo lo so.

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