(1019) Disposizione

Disporre le cose con cura è un’attività che mi dà parecchia soddisfazione. Le cose messe lì così, a casaccio, mi mettono a disagio. Non è tanto una ricerca di perfezione (come erroneamente si potrebbe pensare) è una soddisfazione dell’occhio (mio) che guarda. Mi sento bene quando quello che guardo ha una certa logica nel suo apparire, una certa forma, una certa pulizia, una certa luce, una certa eleganza.

Non posso uscire di casa indossando colori a caso. Non posso mangiare con il cibo buttato sul piatto come viene. Non posso lavorare su una scrivania dove le cose siano state disposte malamente.

Potrebbe essere una malattia sotto mentite spoglie, me ne rendo conto, ma non mi faccio venire un attacco di panico se qualcosa di inguardabile mi colpisce l’occhio (e ne vedo di cose ammassate senza criterio), anzi non faccio una piega. Tutto quello a cui bado per non contravvenire alla mia benedetta regola della buona-disposizione è metterci del pensiero ogni volta che scelgo il da farsi.

Questo è il motivo per cui nel mio guardaroba ci sono pochi colori (il nero vince su tutti), ho una logica a cui mi attengo. Con un certo rigore e con assoluta continuità. Curare quotidianamente un equilibrio che posa su questa logica è il meglio che posso fare. Il resto mi sfugge, il resto è Caos, il resto è quel che deve essere. Ma per stare sul filo e non cadere giù, la buona-disposizione è la soluzione che adotto quotidianamente. E funziona.

Stop.

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(952) Ospitalità

Dare accoglienza è uno dei grandi piaceri dell’incontro tra gli Esseri Umani. Noi  contemporanei ce lo siamo dimenticato. Sono cresciuta in una famiglia dove all’ospite veniva riservato il cibo migliore, i sorrisi migliori, e il tempo che lui stesso decideva bastasse. Ti mettevi a disposizione di qualcuno che poteva fregarsene di quanto risultava inopportuno o invadente, tu facevi comunque il tuo dovere. Se l’ospite ne approfittava, non riceveva più alcun invito. Ognuno a casa sua.

Questo imprinting è difficile da bypassare, ma non mi dispiace. Parla di totale rispetto dell’altro, in quanto persona ospitata, senza condizioni. Una cosa proprio generosa, una cosa senza senso per i criteri odierni. Ripeto: non mi dispiace affatto di aver imparato a tenere questa posizione, credo sia una grande lezione.

Ho anche imparato, sempre grazie alla mia famiglia, a come ci si deve comportare a casa degli altri: non toccare niente, non parlare ad alta voce, non occupare troppo spazio e non restare per troppo tempo. Il giusto. Seguendo ancora oggi queste semplici regole mi sento a posto con me stessa. Il rispetto non è una parola di concetto, ma di fatti. Piena di piccoli fatti che costruiscono e danno sostanza al concetto.

Sono stata fortunata a crescere in una famiglia che mi ha saputo guidare in questa visione dell’altro-che-non-sono-io. Molto fortunata.

Riflettendo su questo è ovvio che altre culture, altre usanze, altre tradizioni, altre teste possono seguire altre vie –  chi più pudiche, chi più sfacciate – e queste differenze possono causare tensioni e fraintendimenti con conseguenze spiacevoli. Possono. Eppure, se mi rifaccio al mio benedetto imprinting, lo posso comprendere e lo posso maneggiare senza per questo pensare che io sono nella ragione e gli altri – quelli diversi da me – nel torto. Perché il mio spazio me lo curo e me lo proteggo senza fare drammi, per piccoli spostamenti. Perché sono un Essere Vivente e in quanto tale sono in perenne movimento, perché la vita si muove dentro di me e con me (a volte anche contro il mio volere, ma sono una pigra, ormai è risaputo).

In poche parole: benvenuti a voi, chiunque voi siate… ma non sbattete la porta, parlate a volume normale e siate discreti, così che io vi possa accogliere sempre con enorme piacere. 

 

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(944) Bacchette

Sì, quelle che usano gli orientali per mangiare. Un’arte di cui bisognerebbe appropriarsi perché porta in sé un sacco di cose buone. La lentezza, per esempio, e giusta quantità, concetti che con le nostre forchette si vanno a perdere sistematicamente. Quindi, ribadisco, noi occidentali dovremmo allenarci a usare le bacchette.

All’inizio c’è la curiosità: come diavolo le devo impugnare?

Questo ti impegna per un po’ perché devi trovare il tuo modo comodo ed efficace per tenerle in mano e farne qualcosa di utile. Tipo mangiare.

Poi c’è il dubbio: come diavolo devo afferrare il cibo senza farlo scappare via?

Qui si tratta proprio di training alla Karate Kid (dai la cera/togli la cera) perché se non provi non puoi capire quanto il cibo che vuoi ingurgitare sia in realtà refrattario alla tua intenzione. Alla prima distrazione sparisce.

Se riesci a venirne a capo (non importa in quanto tempo, non perderti d’animo su!), allora arriva la soddisfazione di riuscire a farti entrare in bocca senza usare le mani dei medi/piccoli pezzi di cibo, e per la fatica disumana che hai fatto ti prendi tutto il tempo che serve per masticarli e sentirne il sapore.

Bingo: il concetto di lentezza è finalmente tuo.

Non te ne sei neppure reso conto, nel frattempo, che se prendi pezzi troppo grandi devi tagliarli coi denti e perdi concentrazione e il resto ti sfugge e che se raccogli un chicco di riso o di mais per volta ti ritrovi solo al tavolo perché la gente c’ha una sua vita e non la vuole sprecare guardando te che ti nutri. Non te ne sei reso conto, ma dentro di te cade, come una pietra fondante, la consapevolezza che se non raccogli il pezzo della giusta dimensione e nella quantità giusta sarai travolto da conseguenze snervanti che ti faranno diventare una brutta brutta brutta persona.

Bingobis: ora sai che il troppo e il troppo poco non vanno bene e che la ricerca della giusta quantità è lo scopo della vita. Di qualsiasi vita.

Le bacchette sono Maestre in questo: insegnano mentre sei impegnato a nutrirti e quindi non sei più concentrato su quello che pensi ma su quello che fai per sopravvivere. Se qualcuno ha nascosto tutte le forchette che c’erano in giro. Ovviamente.

 

 

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(669) Cibo

Credo sia l’argomento più delicato che si possa toccare – escluso il tema delle religioni – con chiunque. Ognuno ha la sua teoria e ognuno ha la sua pratica, ognuno si sente punto sul vivo quando un commento anche innocuo sfiora l’argomento e ognuno ha prove certe e insindacabili che si può morire di un certo alimento o dell’altro, tutti esperti, tutti scienziati. Tutti.

Io no. Ho provato una volta sola in vita mia a seguire una dieta, poteva funzionare, certo, ma non ha portato risultati duraturi e soddisfacenti, ma mi ha fatto odiare i ceci (ndr. è una lunga storia). Il punto è che più uno mi impone di evitare certi alimenti e più vengo presa dall’ossessione per quesgli stessi – che magari prima non avevo mai considerato. Psicologicamente parlando sono da manuale, nei fatti mangio quello che mi pare.

E non mangio fino a scoppiare, no. E non mangio come un uccellino, no. Mangio le quantità di cibo che mi sento di mangiare in quel momento, mangio se ne ho voglia e se non ne ho voglia salto il pranzo o la cena. Sempre la colazione, fare colazione per me è la morte. Puoi ripetermi allo sfinimento che la prima colazione è il momento topico della giornata, non me ne frega niente. Al mattino non ho voglia di mangiare nulla, e non mangio nulla finché il mio stomaco non mi fa capire che ha bisogno di essere riempito.

Non sono vegana, né vegetariana, né fruttariana, né crudista, né mangio carne ad oltranza oppure pesce… sono una banalissima onnivora. Onnivora, ma con gusti ben precisi. Soltanto certa carne, soltanto certi tipi di pesce, la frutta quasi tutta, i formaggi molti ma non tutti, la verdura sì ma non tutta e non sempre, evito gli insetti e animali troppo esotici o quelli che proprio non me la sento di mangiare perché preferirei averli come compagnia. Dipende dalla stagione, dipende dall’umore, dipende da come sto fisicamente, dipende da quello che c’è e da quello che non c’è, dipende. D-I-P-E-N-D-E.

Non tutti i giorni ho voglia di mangiare le stesse cose, non tutti i giorni mangio le stesse cose o le stesse quantità o le stesse varietà di alimenti. Il mio quotidiano non è regolato come se fossi arruolata nei marines o come se fossi una modella, sono una persona normale e come tale mi gestisco: a seconda di come mi gira.

Non faccio abuso di cibo, né di alcool, né di cioccolato, né di caffè. Quando esagero mi rimetto in riga senza bisogno di farmi pesare da qualcuno che mi vuole magra, che mi vuole far perdere un tot di chili alla settimana – cascasse il mondo – e se così non avviene mi si rimprovera del fallimento del programma alimentare deciso con bilancini e strategie nutrizioniste. Io non ho intenzione di piegarmi a nessun regime, neppure quello alimentare, serve dirlo?

Il Dalai Lama ha affermato che qualsiasi cibo gli venga offerto lui ringrazia e mangia. Non tutti hanno la fortuna di poter mangiare tutti i giorni, sarebbe un disprezzo per chi non può. Sono d’accordo. Nient’altro da aggiungere.

Il cibo è sostegno ed è piacere. Giù le mani dal mio cibo. E non sto scherzando.

 

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(401) Tavolata

Un tempo sognavo una tavola grande, molto grande, dove far accomodare tutti gli amici e tutti quelli che avrei voluto diventassero miei amici. Casa nostra era così, porte aperte per accogliere, sempre. 

In quel tempo avrei servito a tutti cibo e bevande per poter guardare ognuno negli occhi in cerca di un contatto sincero. A fine serata sarei stata affamata, ma felice per tutta quella umanità assorbita.

Quel tempo è passato, adesso la tavola non la vorrei così grande, così piena di umanità, penso che non riuscirei a trattenere tanti occhi nei miei tutti insieme. Forse è la stanchezza o forse la mia umanità sta pesando più di quel che dovrebbe.

In questo mio tempo cerco ancora gli occhi di chi mi sta di fronte, ma senza indagare. L’incontro si è trasformato in qualcosa di molto più delicato, meno invasivo e meno irruente. Non amo stare in mezzo a troppe persone, preferisco scostarmi un po’ per non farmi fagocitare. Ho acquisito un nuovo senso dello spazio, non temo più le vertigini della solitudine.

Tutto il tempo, nel mio presente, è un muovermi lenta, chissà perché. So solo che va bene così e non me ne frega niente se ai più sono diventata straniera. Indosso meglio il mio nome, ora. Senza scuse né giustificazioni.

 

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(300) Profumo

Ogni tanto mi ricompare sotto il naso, come se non fossero passati 35 anni, il profumo che usava la mia nonna. Un misto di borotalco e di rosa. Altre volte il profumo del cibo che mi cucinava e ne posso sentire ancora il sapore.

Ogni tanto rieccolo il profumo del Mare del Nord e quello delle Highlands e quello del Tay River, e chiudo gli occhi e sono di nuovo in Scozia, di nuovo immersa in quella terra che mi faceva stare bene.

Ogni tanto vengo colpita con un pugno allo stomaco dal profumo di qualcuno che ho perso e che mi manca.

Il profumo delle persone e delle cose mi rimane nella carne e non c’è verso di farlo andare via. Non si può cancellare come fai con i segni della matita su un foglio, sono disegni radicati per sempre.

E certe volte fanno bene, altre fanno male. Certe volte bene e altre male. Bene e male, mescolati con nostalgia e struggimento. Alla fine della storia, credo di essere fatta di profumi più che di parole, e con questo ho detto tutto – almeno per oggi.

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