(897) Lattina

Mi sono trovata spesso a dare un calcio alla lattina di turno, magari quella che conteneva riflessioni senza senso. Riflettere su questioni che si possono affrontare, meglio ancora risolvere, ha senso. Riflettere su quelle che devi prendere così come sono, e tanti saluti, è una perdita di tempo. 

Mentre sto lì a inquadrare la situazione per venirne a capo, calcio la mia lattina, forse sperando che qualcosa ne esca. Dopo un po’ mi stanco, tiro un calcio più forte e la faccio allontanare da me. So cosa fare, tirare dritta nonostante l’irrisolvibile. Si sopravvive comunque.

La lattina del “fa-niente” faccio fatica a calciarla. Mi ritorna sempre indietro, un boomerang puntuale e affilato. Non riesco a mantenere quel fa-niente a distanza perché non sono geneticamente programmata per fottermene. Mi rendo conto, davvero mi rendo conto, che le cose si possono prendere in modo più leggero, si possono ridimensionare e maneggiare come se non ti riguardassero. Lo so, dannazione. Eppure non mi riesce. 

La lattina del “dove-vado” la calcio mano a mano che procedo. La direzione la scelgo io e mi son sempre trovata bene con questo metodo basic d’orientamento a breve termine. Sì, funziona solo con tragitti limitati, la lattina che lanci a piena forza si alza da terra ma non è detto che mantenga la direzione. Quindi bisogna calibrare la potenza nel tiro e far conto che la lattina non è tonda e che di Maradona ce n’è soltanto uno.

La lattina del “devo-fare” me la gioco con palleggio rasoterra perché devo temporeggiare per alcune cose e devo accelerare per altre. In poche parole combatto con la santa procrastinazione e con l’ansia di finire il prima possibile quel che devo. Per fare altro, ovviamente. Sì, è uno stress. Sono una che senza stress si annoia, anche questo deve essere messo in conto.

Insomma, le altre lattine lasciano il tempo che trovano. Le spargo un po’ di qua e un po’ di là, senza illudermi che non le incontrerò più, ma con la consapevolezza che calcio dopo calcio qualcuno si stancherà. Magari io, vero, ma magari no. Quindi, fingendo che sia tutto peeeeeeeeeeerfetto, si procede.

Di lattina in lattina. Di calcio in calcio. Di riflessione in riflessione.

Di stress in stress. 

Così.

 

 

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(739) Scappare

Scappare dai pensieri che non servono a niente, quelli che anche se sono giusti, anche se sono sacrosanti, sono ormai il passato e sono ormai solo zavorra. Non si mettono pezze a quel che è stato, non si riempiono le buche e non si cuciono gli strappi, ormai tutto è dato e tutto è fatto. Amen.

Scappare non significa che puoi dimenticartene, che sei un’altra te e che non sei ancora sofferente o incazzata. Significa soltanto concentrarsi su quello che stai facendo e su chi sei adesso. Perché quei pensieri boicottano il tuo ora e lo faranno per sempre se tu glielo permetti.

Scappare è uno scarto di lato, è un calcio che tiri per allontanare la palla avvelenata da te. Scappare non significa che chiudi gli occhi e tutto si cancella, non è un atto codardo per far finta di nulla, è proprio l’azione che ti salva la vita perché non c’è più niente per cui combattere.

Non si può rimurginare per sempre, ci si stanca anche. Quindi lasciamo stare chi insiste che dobbiamo andare fino in fondo e analizzare ogni dettaglio per accettarlo e per digerirlo. Fatelo voi. Non ho niente da digerire, è già andato tutto giù, voglio solo allontanarlo da me perché è dannoso per la mia salute. Non ho più conti in sospeso, ho solo il mio adesso e lo voglio leggero, lo voglio pulito, lo voglio addirittura splendente. Vi disturba? Spero abbiate cose ben più importanti da fare, magari scappare dalla vostra zavorra – che non sarebbe male, senza dovervi preoccupare di come mi gestisco i pensieri.

No, non ce l’ho con voi, sto solo dicendo quello che anche voi state pensando: basta con le menate, andiamo avanti. Vero? Allora rimettiamoci in movimento, qualsiasi sia stato il nostro ieri ormai non ci appartiene più. Il presente è ancora nostro, però, vediamo di ricordarcelo.

 

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(635) Calcio

Ci sono stati giorni in cui il calcio lo subivo allegramente, piaceva a tutti quelli che mi stavano attorno (ero bambina) e mi sembrava che piacesse anche a me. Magari anche mi piaceva perché ascoltando i commenti deliranti di mio padre e dei suoi amici, piano piano, iniziai a capire le cose principali: fallo, punizione, fuori gioco, calcio d’angolo, rimessa in gioco, arbitro cornuto… cose così.

Verso i vent’anni mi accorsi che non me ne poteva fregare di meno di quel gioco sopravvalutato e smisi di seguirlo. Senza ripensamenti.

Una volta che capisci che lo puoi fare, che puoi mollare le cose che non ti interessano più, è fatta. Non ritorni sui tuoi passi perché ormai sei andata oltre, ti sei resa conto che sei cambiata, che quella cosa non esercita più alcuna attrattiva su di te e va bene così. Mi sono lasciata alle spalle un milione di cose che ormai non mi interessano più, ma senza mai rinnegarle: sono state divertenti, sono state utili, mi hanno lasciato bei ricordi (e anche brutti), tornassi indietro massì le rifarei, ma basta grazie.

Quello che voglio dire è che pensare che qualcosa che adesso ti piace ti piacerà per sempre può diventare una gabbia scomoda per viverci. Funziona anche con le persone, in realtà. Non è una brutta cosa cambiare gusti, cambiare idea, cambiare interessi, cambiare in generale. Certo, sarebbe bene che il cambiamento comportasse un miglioramento, ma al di là di tutto è una valutazione che si può fare solo a posteriori. Col senno di poi son bravi tutti a sputare sentenze.

Il calcio di adesso non mi piace, è una baracconata. Non ha la purezza del 1982, quando mio padre dalla felicità diede un pugno d’entusiasmo sulla piccola televisione in bianco e nero facendo saltare via la maschera… ma chi se ne frega, abbiamo vinto i mondiali! Campioni del mondo!

Certe volte, per non rovinare quelli che saranno ricordi inestimabili, bisogna allontanarsi altrimenti ti incattivisci. L’ho fatto con il calcio e l’ho fatto con altre cose ben più importanti.

In fin dei conti, ho un cuore da preservare, e ne ho uno soltanto.

 

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