(885) Subire

subire v. tr. [dal lat. subire, der. di ire “andare”, col pref. sub– “sotto”, propr. “andare sotto” e quindi “sopportare”] (io subisco, tu subisci, ecc.). – 1. a. [ricevere una cosa non voluta né gradita, anche assol.: s. un torto] ≈ patire, soffrire. ↓ (fam.) incassare, sopportare, tollerare. b. [accettare senza reagire] ≈ (fam.) digerire, (fam.) mandare giù, (fam.) sorbire, tollerare. 2. [dover far fronte a qualcosa di spiacevole: s. un interrogatorio] ≈ affrontare, sostenere. ↔ evitare, fuggire, rifuggire, schivare.

Già solo leggere il significato del verbo subire mi fa ribollire il sangue. La nostra esistenza è una lista pressocché infinita di cose che dobbiamo mandare giù, con cui dobbiamo avere a che fare nostro malgrado, che non possiamo schivare e non possiamo risolvere. Frustrazione a mille e voglia di spaccare tutto.

Eccoci qui. Tutti d’accordo. Spacchiamo tutto.

Andiamo oltre però. Quando subisci significa che sei convinto, dentro di te, di non essere nel posto giusto. Torto o ragione? Torto. Ti senti dalla parte del torto. Ti pensi in difetto, ti vedi debole, ti credi non degno. Subire è arrendersi. Ti arrendi all’evidenza che tu non puoi o tu non sei o tu non hai o tu non vali/meriti niente. Sbang.

La normale sopportazione, la normale tolleranza, la normale sofferenza, nessuno ce le toglie. Son quelle e basta. Quando si va oltre, però, non va bene più. Ci sono mille modi per non arrivare a quel “oltre” che ti impallina senza scampo, bisogna solo farci attenzione in tempo. Far andare oltre le cose significa subire. Rassegnarsi al non-fare, non-dire, non-pensare, non-agire, non-credere, non-sperare. Morire.

Si muore un po’ dentro. Pezzo per pezzo si spengono le lucine e rimaniamo al buio. Al buio ci si sente ancora più piccoli, vulnerabili, fragili, miserabili. No?

Diventa importante captare i segnali e fermare la valanga prima che il normale si stroppi, direi vitale. Nessuno può farlo al nostro posto. Sappiamo noi quanto è normale quello che stiamo sopportando e quanto è troppo. E quando è troppo, se rimaniamo lì senza dire-fare-pensare-lettera-testamento, manchiamo di coraggio. Non abbiamo scuse. Siamo noi a decidere. Ogni sacrosanto minuto della nostra maledetta/benedetta esistenza. Che ci piaccia oppure no.

Ma forse l’ho già detto. Ho idea che sto andando in loop. Perdono.

 

 

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(823) Puntine

Siamo arrivati a quel punto dell’anno (la fine) dedicato al tirare le somme. Davanti a me ho – proprio fisicamente – un pannello di polistirolo bianco e in mano una bella quantità di puntine. Andrò nelle prossime righe a scrivere tutte le cose che le puntine fisseranno sul pannello (che è il mio 2018). Siamo pronti? Via!

Il buono del mio 2018:

  • la mia famiglia
  • i miei amici
  • il mio lavoro
  • la mia salute (che sto recuperando)
  • il mio amor proprio (che sto recuperando)
  • la mia voglia di scoprire, conoscere, imparare (che non si ferma mai)
  • i miei progetti (ben lungi dall’essersi esauriti)
  • le mie sconfitte e le mie piccole vittorie
  • il mio esserci senza sconti (croce e delizia di chi mi sta attorno)

Tutto questo è il malloppo che nel 2018 ho mantenuto e accresciuto e che sono intenzionata a portarmi anche nel 2019. Perché è facile dire ora che l’anno appena trascorso è stato un delirio – e lo è stato senza il minimo dubbio –  bisognerebbe anche avere il coraggio di nominare il delirio pezzo dopo pezzo per capire se ne è valsa la pena. Direi, nel mio caso, sì. La fatica, le incazzature, i buchi nell’acqua, gli scivoloni, le botte in testa e quelle all’orgoglio, le cantonate, le speranze spezzate, le illusioni polverizzate: ne valeva la pena.

E non è che adesso io pensi che il 2019 sarà tanto diverso dal suo predecessore… ne sarà la giusta conseguenza: una serie di cunette, muri, precipizi a non finire. Perché è sempre stato così per me e sto iniziando a pensare che è così per tutti, quindi perché lamentarsi?

La cosa migliore di quest’anno, che ormai è quello vecchio, è che ha saputo cambiarmi. A differenza di altri suoi colleghi, che in passato ci hanno provato – santocielo se ci hanno provato – ma che hanno anche fallito miseramente, questo 2018 mi ha messa davanti a me stessa e mi ha urlato: “Ti svegli o no?!”. Ecco, non sarà stato molto carino, né tantomeno gentile, ma l’ho trovato appropriato e del tutto efficace. Pur di farlo smettere di gridare come un ossesso ho iniziato a fare in modo diverso, addirittura a pensarmi in modo diverso da come mi pensavo. Ho proprio provato a pensare di me qualcosa d’altro. Non necessariamente migliore, ma ho varcato certi confini che prima neppure vedevo. Non so come spiegarlo, so che ha funzionato. Ho cambiato idea su me stessa. Già a scriverlo mi fa paura, accorgermi che è la pura verità mi fa tremare le gambe. E adesso come farò?

Boh. Sono certa che il 2019 avrà le risposte che merito. E si salvi chi può!

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(666) Gabbia

Lavorare con le idee significa imparare a costruire astute gabbie che le possano contenere e nel contempo che permettano loro di crescere e svilupparsi senza sfuggire dai confini imposti.

Lavorare sulle idee significa che ti ci devi mettere dentro quella gabbia e condividere lo spazio con loro, se soffri di claustrofobia peggio per te. L’idea, in generale, respira sempre meglio di qualsiasi Essere Umano – è giusto che tu lo sappia.

Lavorare per donare agli altri le tue idee significa che a un certo punto devi uscire da quella stramaledetta gabbia abbandonando la tua creatura lì. Saprà essere forte senza di te? Saprà farsi valere? Saprà mantenersi compatta e al contempo crescere?

La gabbia è bastarda. Contiene, costringe, soffoca. E ripara. Ogni gabbia lo fa, ogni dannata gabbia lo fa. Maledette.

D’altro canto le idee sono ribelli guizzi, irrefrenabili risa, scatenate frecce, energia che non puoi tenere tra le mani e non puoi incatenare. Ingabbiare però sì. Come sia possibile lo si impara presto, lo sappiamo fare tutti: disciplina, coerenza, costanza, pazienza, capacità spiccata di problem solving. Le idee, in realtà, non odiano le gabbie perché sanno di averne bisogno altrimenti non si concretizzano. Non si arrendono alle sbarre, questo no, ma si fanno modellare e si rendono docili, malleabili, se trattate con rispetto. Sanno di come vanno le cose meglio di noi, meglio di me.

Le mie gabbie mi sentono nemica, ma ormai hanno capito che il mio sfinimento le vedrà vincitrici. Non ci voglio neppure pensare. ‘Notte.

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(574) Accesso

L’Arte non ha bisogno di essere spiegata, non ha bisogno di didascalie né di sottolineature stucchevoli. Eppure ha bisogno di sporgersi quel tanto per offrirti la sua mano e farti entrare. Quando ti fa rimanere sulla porta e ti fa sentire quasi un intruso, un ficcanaso non autorizzato, smette di essere luogo di meraviglia per diventare luogo di disagio. Smette di essere Arte.

La penso così. L’Arte che si rende astrusa perché dedicata soltanto a pochi eletti non soltanto mi mette a disagio, ma mi allontana proprio. Guardo altrove. Se non sai rendermi partecipe della magia, quella cosa che chiami magia non mi appartiene, non me ne importa nulla, me ne vado. Semplice.

Il punto è che l’ego si espande in chi fa Arte e se non è supportato dall’intelligenza, stroppia. Non mi basta che ti definisci artista, mi devi proprio convincere e non mi convinci dimostrandomi quanto mi sei superiore, bensì quanto riesci ad avvicinarti a me nonostante la tua superiorità. Semplice.

I grandi Artisti lo sanno, gli altri non ci pensano neppure. L’Arte si nutre dell’emozione che riesce a suscitare in chi si avvicina con stupore di bambino e si lascia portare via, in un viaggio che nessuna realtà potrà mai contenere. Semplice.

L’Arte la senti ovunque nel corpo e ovunque nei pensieri e ovunque nell’anima, non ci sono confini, ci sei dentro anzi… Lei è dentro di te. Anche se non ha origine in te, ma in qualcuno che ha saputo crearla e ha saputo comunicarla in modo che tu – che non c’entri nulla – ne puoi godere. Così maledettamente semplice e così maledettamente raro. Vero?

Il punto rimane questo: l’ego. Dove niente è semplice, niente.

Mi sono rotta le scatole delle élite culturali, dove gli architetti si proclamano Gli Eletti, dove i musicisti si proclamano Gli Eletti, dove i poeti si proclamano Gli Eletti e anche gli scrittori e anche gli attori e anche i pittori e anche…

Sembra che il mondo sia pieno di Eletti e che quelli che non lo sono non valgano un tubo. Non valgono nemmeno la pena di godere di quello che Gli Eletti creano perché non è roba per loro, comunque. E se la cantano e se la suonano e se la raccontano e se la tirano, tutti quanti come scimmie in una gabbia dello zoo dove strapparsi le noccioline di mano e chi ne mangia di più è il più bravo.

Dammi un accesso, fosse anche soltanto una fessura che mi permetta di godere di un po’ della tua luce e non sarà necessario autodefinirti artista, sarò io a inchinarmi a te riconoscendoti creatore e quindi Artista. No, non è così semplice. Se lo fosse, quel Artista non avrebbe il peso che invece ha e deve avere.

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(197) Armonia

Una ricerca incessante, paziente, che non è mai sazia senza per questo rivelarsi avida. Soltanto imprescindibile.

Inarrestabile, una forza inarrestabile. In ogni cosa che faccio, sempre. Anche mio malgrado, anche quando potrei chiudere un occhio, anche quando mi crea un sacco di fastidi, anche quando ci rimetto, anche quando sono stanca e vorrei solo dormire e fregarmene di tutto. Anche quando non ce ne sarebbe bisogno perché nessuno se ne accorgerebbe mai… 

Spesso l’armonia è la parte solida di quel che sono, non perché io la possegga (la mia ricerca è prettamente egoistica), ma perché è lei a possedere me e non c’è trattativa in questo. Più la cerco e più lei mi sfugge, pur tenendomi per il bavero. Una situazione grottesca, lo ammetto.

Eppure, quando per un istante la sfioro e lei mi sorride… vale tutto. Tutto.

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