(962) Sicuro

Sentirsi al sicuro. Avere un posto sicuro in cui stare. Il senso di “casa” è questo no? E il massimo sarebbe poter trovare un posto così anche quando non siamo chiusi in casa nostra, magari quando siamo al lavoro o quando usciamo a divertirci. 

Spesso diamo per scontato che i posti in cui stiamo siano sicuri. Ci affidiamo, ci adagiamo – in un certo senso – a quell’idea. Quel “essere al sicuro” ci permette di vivere tranquilli e dare il meglio (e a volte anche il peggio) di noi stessi.

Non doversi continuamente difendere dagli attacchi di qualcuno o di qualcosa. Non dover stare perennemente all’erta nell’attesa che qualcosa di brutto capiti o che qualcuno ci arrivi addosso per distruggere quello che c’è o quello che siamo. Non dover preoccuparci continuamente della nostra sopravvivenza, ma allargare il nostro sguardo con l’ambizione di vivere bene e non semplicemente vivacchiare.

Dovrebbe essere questa la nostra priorità: sentirci al sicuro.

Non chiusi in casa, barricati, ma sicuri fuori e assieme agli altri. Non nascosti dietro a un muro, ma a cielo aperto con il vento che ci attraversa e senza per questo esserne devastati.

Sentirsi al sicuro ci fa dormire bene, ci fa mangiare bene, ci fa parlare bene a noi stessi e ci fa interagire bene con gli altri e in ogni contesto. Sentirsi al sicuro ci fa sorridere, ci fa prendere le cose brutte della vita con più leggerezza perché sappiamo che le cose brutte comunque succedono e dobbiamo comunque affrontarle.

Sentirsi al sicuro ci aiuta a comprendere chi al sicuro non è, ci rende più sensibili e più empatici?

No, non credo. Purtroppo il gap del “sentirsi al sicuro” è questo: ci si occupa solo di sé stessi e di accrescere la propria sicurezza, fregandocene di chi al sicuro non è. Dovremmo lavorare per colmare questa imperdonabile lacuna, credo. Perché sentirsi al sicuro è l’unica cosa che conta se pensiamo alla vita come al bene più prezioso che abbiamo.

Credo.

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(954) Sorso

Un sorso per volta ci si può bere tutto. Ti fai l’abitudine e impari a fare finta di niente. Il primo sorso può essere un bel trauma, ma al secondo sai cosa aspettarti e al terzo entri nell’ottica: ok, così è, vediamo di farci i conti e andare avanti.

Sorso dopo sorso ti convinci che non può essere che così.

Non è vero, è solo una delle scelte, forse quella che ti comporta meno sbattimento. Quelle coraggiose ti impongono un certo rigore e anche se al berti veleno a sorsate preferiresti ubriacarti di libertà, ti adegui.

Scolarsi un’intera esistenza senza soffermarsi a sentirne il sapore per raccontarsi che la vita è sofferenza e fatica, è ridicolo. Una brutta storia, semplicemente una brutta storia. Perché una storia bella, una che funziona davvero, è quella che ha alti e bassi, che ha gioia e sofferenza mescolate insieme, che ha momenti di tensione e altri di pace, che prevede incontri e scontri, salti e rincorse e stop. È ricerca dell’armonia e frustrazione del fallimento, è ballare contro vento e veleggiare nella tempesta. È poesia senza rime, prosa senza senso. A volte, e a volte no.

Un sorso di cielo grigio e un sorso di cielo terso riequilibrano l’umore, gli eccessi fan bene solo se sporadici e di breve durata. Credo. 

E poi il resto si inventa. Sorso dopo sorso.

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(877) Confini

Non sono segnati da una mappa, da una cartina geografica, dove diventa preciso il punto in cui poggi il piede in terra non tua. Perché è tua la terra in cui nasci, le altre le fai tue – se vuoi – e sono sempre scelte, anche quando obbligatorie. 

I confini tra me e te quando si oltrepassa il corpo, perché il corpo è un confine che puoi varcare solo se alla dogana te lo permettono, non sono visibili. Bisogna starci attenti.

Difendere i propri confini intimi è un casino, in certi casi è un disastro. Faccio un sacco di disastri in quei casi, riesco davvero sempre a fare un sacco di disastri. Patologico, direi. 

Quando entri in territorio non tuo ti devi imporre delle regole e devi importi una disciplina ferrea nel rispettarle, stai camminando dove non dovresti neppure esserci, non puoi dimenticarlo. Mai.

Eppure. Eppure. Eppure. Si sconfina e si fa un po’ come cazzo ci pare. Così. 

I confini che l’uomo ha imposto alla Terra dapprima erano un modo per prendere le misure – dove sono, fin dove posso spingermi, dove finisce il cammino, cosa c’è qui e cosa c’è là – e poi è stato un modo per difendere le terre addomesticate. E poi è diventato un modo per respingere chi stava fuori, in altre terre, e si spostava. Per ispirazione o per necessità. E oggi è un modo per schiavizzare chi ha meno, perché derubato da chi ha di più. 

Non portando più rispetto per i confini della nostra Terra, quelli segnati dai fiumi, dalle montagne, dal mare, dalle foreste e anche dal cielo, abbiamo pensato di poterci spingere ovunque. Di poter conquistare, conquistare qualsiasi cosa. Si dice anche “conquistare il cuore di una donna/uomo”, vero? Per noi, nel nostro cervello malato, conquista ha il significato di “appropriazione indebita”. Terribile, no?

Vabbé, dirò l’ovvio: dove troviamo un confine ci si ferma. Un attimo almeno. Ci si ferma per valutare quanto sia appropriato varcarlo. Opportuno. Giusto. Ci si pensa un po’ su. Si pesano le proprie intenzioni. Questa è la prima regola. E le altre fanno capo al rispetto, all’ascolto, alla cura. Ma che ve lo dico a fa’? 

Un minimo di disciplina, perdio!

 

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(870) Bello

Come un invito a sorpresa da chi non ti saresti mai aspettata. Bello come quando guardi il cielo che brilla e respiri bene e puoi sorridere. Bello come un segreto che ti viene svelato soltanto perché la vicinanza lo permette. Bello come quando ti puoi affidare a un silenzio perché è tutto già pieno e non serve altro.

Bello che puoi ricominciare a sentire. E pensavi fosse un lusso che non ti saresti più potuta permettere.

Bello il lago che ti parla col suo azzurro sempre diverso, che un po’ segue quello che ti succede dentro e puoi rimandare anche le spiegazioni. Bello quando le parole che decidono di uscire trovano ascolto anche se qualche dubbio rimane. Bello quando non conti i passi e non conti il tempo e non conti il come-dove-quanto-quando perché va tutto bene.

Bello che te ne accorgi, che riesci a gustarlo e gli permetti di depositarsi con gentilezza senza pretendere di metterci sopra altro.

Bello poterlo scrivere, perché non è ovvio che si possa fare e che non sia forzato e non sia tradotto in un linguaggio lontano che poco ha a che vedere con te.

Forse è un pezzettino di felicità.

Bello.

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(869) Pregiudizio

Parti in quarta. Prima di sapere. Prima di aver ascoltato. Prima di aver guardato. Prima di avere il tempo di farti un quadro della situazione. Parti in quarta perché quello che pensi – a prescindere, anche se non sai di che cosa si stia parlando – è più importante di tutto. Di tutti. Quello che pensi è fondamentale per farti prendere quella posizione, quella dove ti senti al sicuro e da cui non ti muoverai più. Finché morte non ti colga. 

E sai sempre cosa pensare. Anche quando le cose sono oggettivamente ingarbugliate, complicate, piene di vuoti e di angoli bui. Tu sai. Tu devi metterti al sicuro e farai di tutto per riuscirci. Temi per la tua vita, quindi sei giustificato. Tutto il resto non conta. Tu ti devi salvare.

Il fatto, brutto idiota, è che non sei in pericolo. Quello che stai facendo è metterti sopra tutto e al di là di tutti. Quello che stai facendo è dare per scontato che nessuno tranne te conti qualcosa, d’altronde chi altro al mondo può essere più importante? Tu sai prima ancora degli altri, ci vedi più lungo. A te le complicanze fanno un baffo, tu sai guardare dove c’è da guardare per sapere. Tu guardi te stesso. Tu inizi e finisci in te stesso pensandoti perfetto universo bastante. E – a dirla tutta – lo sei. Ti basti. Tu trovi piena soddisfazione in quello che ti riguarda e soltanto se qualcosa ti riguarda. Un compendio del sapere universale in un corpo solo. Sorprendente. Il tuo giudizio cade come gocce di piombo dal tuo cielo inquinato e quello che spargi sugli altri è semplicemente quello che sei: una pioggia spessa di rifiuto, di disprezzo, di violenza. Tu e il resto del mondo (quello vivo) siete separati irremediabilmente e senza possibilità di contaminazione, perché in altro modo non sopravviveresti, saresti sopraffatto dalla tua pochezza e dovresti raccontartela troppo bene per non esserne schiacciato. Manchi di creatività per raccontartela così bene, ovvio che ti devi rifugiare dietro al tuo muro di cemento armato. Bravo, così si fa. Bravo.

Il pregiudizio che, come una tagliola, trancia di netto le possibilità di espansione degli altri è la forma più malvagia e perversa messa in atto dal buon padre di famiglia (o madre di famiglia, che non si è mai sentito, ma per par condicio va scritto), che è pronto a sacrificare chiunque, ad ogni costo, pur di salvaguardare il piombo che si porta dentro. Pensandosi vivo. Eh. Auguri.

[questo post è da leggersi tenendo presente che nell’autrice non vi è un grammo di compassione per questo tipo di umanità – sì, l’autrice è proprio una brutta persona]

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(799) Punti

Vado per punti, non ho altro modo per procedere. Non giro mai a caso. Anche se mi ritrovo a caso in un giro, dei punti li trovo sempre e se non ci sono li creo. I punti uniti fanno una linea, la linea ha un inizio e una fine. Questo mi rassicura (per la presenza di un senso) e nel contempo mi preoccupa (per ogni inizio che affronto) e mi intristisce (per ogni fine che vivo). Se questo non è un casino, ditemi voi che cos’è. 

Ma non voglio soffermarmi sulla mia sbrindellata emotività – che non è argomento interessante – vorrei parlare dei punti.

Da qui a lì. Da lì a là. Da là a laggiù o lassù… si procede, si avanza, si va. Andare per punti è un modo sensato di andare, credo. E andare in modo sensato è bello, semplicemente bello. Il punto è (dimostrazione pratica che andare per punti serve) che non tutti abbiamo lo stesso modo sensato di procedere, ma qualsiasi modo sensato di procedere lo fa per punti. E i punti si fissano molto in fretta, si fissano e si possono spostare qualora le cose cambiassero improvvisamente o avessimo soltanto cambiato idea. I punti non occupano spazio, sono arrivi e sono partenze. I punti non ti chiedono ragioni né resoconti, sono approdi, sono appoggi. I punti non reprimono la libertà, la creatività, la scelta, le sostengono, le fanno appoggiare meglio a una base mobile ma stabile, che non affonda.

I punti si fanno invisibili agli occhi altrui, ma sono stelle che brillano dentro di te e soltanto per te. Ed è uno spettacolo la costellazione che negli anni ho creato nell’intimo del mio cielo. Ne sono proprio orgogliosa. E questo è il punto.

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(788) Tornare

Quando il passato torna a galla ci si impone di stare sul chi-va-là. Non è per sfiducia, per-l’amor-del-cielo, ma per cautela sì. Quel frammento di passato ti si ripresenta davanti, non invitato, e tu devi decidere cosa farne. Lo ascolti? Lo ignori? Gli dai spazio? Lo sbatti fuori con un calcio in culo? Ecco, sembra facile ma non lo è.

Il mio presente è costellato da questi eventi, roba da non crederci lo so, una sorta di maledetto loop.

Ogni tre per due mi ricompare un fantasma (che si fa carne e ossa) per chiedermi qualcosa. Mai per darmi qualcosa, beninteso, sempre per chiedermi qualcosa. E allora io – che sono persona scrupolosa – mi fermo, ascolto, valuto, soppeso, rifletto, e poi vedo come muovermi. Nove volte su dieci è un’immensa rottura di balle, nove volte su dieci mi presto a questa rottura di balle in nome di qualcosa che è stato e che non è più e non è più perché ha cessato di avere alcun senso secoli prima. Insomma: una merdaviglia.

Ora: io non so perché le persone pensano di ricomparire nella mia vita, come se niente fosse, per chiedermi qualcosa. Non lo so. Forse perché hanno dimenticato che mi hanno fatto uscire dalla loro vita per una buona ragione, ovvero perché ero inutile. Quindi… vuoi che te lo ricordi? Così ti passa quella parvenza di nostalgia che ti sta confondendo e puoi sfancularmi di nuovo? Va bene, sono qui per questo, non c’è problema.

Eppure, ben sapendo che il tutto sarà fallimentare, io ascolto-valuto-soppeso-rifletto e mi presto a essere usata di nuovo. No, non lo faccio perché sono buona, soltanto perché sono una cogliona e questo deve per forza essere messo agli atti. Lo sto scrivendo perché ci risiamo, un pezzo del mio passato è tornato a galla, s’è fatto un giro largo e mi si è presentato alla porta. Me lo sto guardando e riguardando e so già come andrà a finire, ma stavolta vorrei sorprendere me stessa e provare – per-l’amor-del-cielo soltanto provare, a non rimanerne impigliata.

Se c’è una ragione per tutto questo ancora mi è oscura, però vorrei capire, vorrei davvero capire. E se non ci fosse nulla da capire? Allora vorrei saperlo, grazie. In fin dei conti me le devo smazzare io ‘ste cose, mica chi?

Amen.

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(787) Lei

Lei non sa più da che parte girarsi. Deve essere forte, deve essere autonoma, deve essere capace di dire-fare-baciare-lettera-testamento con coraggio, combattendo per se stessa e per tutte le Lei del mondo. Perché il mondo delle Lei ne ha bisogno visto che il mondo dei Lui non capiscono un cazzo. Proprio così.

La cosa bastarda è che ogni Lei che si rispetti è fatta anche di altro. Cose da nulla, cose che prendono in considerazione l’emotività- tanto per buttare lì una cosa da nulla. Perché sarebbe facile potersi programmare e non perdere un colpo, ma ogni giorno è un riprendersi in mano, un ricostruirsi, un cambiare idea e cambiare bisogni e cambiare. Perché la vita è cambiamento e ogni Lei lo sa.

Lei non può fidarsi, non può affidarsi. Non più. I Lui sono una minaccia, e lo sono davvero, anche quelli che sembrano innocui. Chi lo dice? Lo si capisce, se sei una Lei lo capisci fin da piccola. Quel mondo, tutti quei Lui, non sono terra sicura.

Quindi ogni Lei che viaggia nel mondo, ogni Lei che respira il mondo, ogni tanto prende una botta, ogni tanto si ritrova a terra e non sa neppure il perché, sente soltanto il dolore. Ogni Lei. Poi c’è chi se ne accorge subito e chi se ne accorge troppo tardi. C’è chi decide di agire in modo diverso e chi decide di non muoversi più. Mai più. Perché non tutte le Lei sono uguali, anche se tutti gli Esseri Umani sono uguali. Non è un controsenso? Bé, considerato che neppure tutti i Lui sono uguali nonostante siano tutti Esseri Umani, no. Non è un controsenso. Così va.

Un dubbio però ti viene guardando tutti i Lui che pensano di essere umani e invece non lo sono. Ogni Lei dovrebbe imparare a guardarli bene questi fake, ma lo si capisce sempre troppo tardi. Dopo che il danno è stato fatto. Perché ogni Lei pensa che quel Lui sia diverso, sia speciale, sia il Lui che fa la differenza. Raramente è così, bisognerebbe tenerlo presente. Eppure si spera, eppure si crede. 

Una cosa si domanda ogni Lei che alza gli occhi al cielo: perché i Lui che potrebbero alzarsi e con dignità potrebbero bloccare l’azione dei tanti fake, continuano a nascondersi, a giustificare la categoria, a far finta di niente? Forse perché non sanno cosa significa essere Lei.

E qui mi fermo perché non so più da che parte girarmi.

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(653) Jazz

Un ricamo, un volo con ritorno e nuovo volo, un dare per raccogliere altrove, un passo e poi un altro in direzione arzigogolata, ma efficace. Tenere il ritmo a suon di Jazz è un’impresa. Ma si può fare.

Devi solo essere disposto a rischiare un po’. Ti affidi al Cielo e a quel che verrà.

In questi giorni sto vivendo un’avventura Jazz che non mi sarei manco mai immaginata, a raccontarla ora mi vien difficile perché ne sono immersa fino oltre il collo e le parole vanno dove vogliono senza chiedermi il permesso. Non ho voglia di fermare i pensieri, non ancora. Allora perché sono qui a scrivere? Perché il mio impegno l’ho preso sul serio, mi ero promessa che nonostante tutto lo avrei fatto, anche quando completamente incapace di tenere le briglie in mano – nonostante non abbia bevuto un solo goccio d’alcool. Eccomi qui, allora.

Avere la festa nel sangue, le orecchie alla Dumbo che sventolano seguendo note e voci. Così mi sento.

E mi rendo conto che si tratta di uno stato d’animo benedetto che dovrei metterlo al sicuro per tirarlo fuori quando l’energia scarseggia, quando il grigio sale al trono usurpando il potere, quando le risorse mancano così come manca l’aria. Dovrei pensarci ora, ma come si fa?

Rincorrere il cuore che saltella? Domare i neuroni che sfrigolano? Ma perché? Lascia che il caos faccia il suo lavoro, ci sarà altro tempo per rimettere in ordine.

And all that jazz!

Come on babe, why don’t we paint the town, and all that Jazz
I’m gonna rouge my knees and roll my stockin’s down
And all that Jazz
Start the car, I know a whoopee spot
Where the gin is cold but the piano’s hot
It’s just a noisy hall, where there’s a nightly brawl
And all – a-that – Ja-yazz
Slick your hair and wear your buckle shoes, and all that jazz
I hear that Father Dip is gonna blow the blues, and all that jazz
Hold on hon, we’re gonna bunny-hug
I bought some aspirin down at United Drug
In case we shake apart and want a brand new start
To do – a-that – Ja-yazz
No I’m no-one’s wife, but oh I love my life
And all… that… Ja-yazz… that Jazz!

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(648) Panorama

Cosa vedi fuori dalla tua finestra? 

Questa domanda mi ha accompagnato per oltre trent’anni, mi ha guidata e mi ha dato la forza di non fermarmi in luoghi dove non c’erano finestre o dove il mio sguardo non potesse spingersi oltre. Difficile da spiegare, ma è esattamente così che ho vissuto in questi anni.

Non l’ho mai detto a nessuno, non l’ho mai usato per giustificare certe mie decisioni e certe mie partenze, non l’ho mai sottovalutato e non l’ho mai zittito: ho lasciato che mi facesse strada, che si prendesse cura di me. Lo ha fatto.

Ci sono stati momenti di finestre sbarrate, di pareti cieche, di panorami squallidi e cieli bui, ma sono stati momenti perché ho agito e mi sono spostata, ho preso in mano la situazione e ho cercato un cielo meno cupo, un panorama più vasto, aprendo la mia finestra per respirare. Non sono mai ritornata indietro, sempre avanti. Senza rimpianti per di più.

Credo sia importante chiederci cosa riusciamo a vedere dalla finestra, quanta vita riesce a passare da lì per incontrarci? Credo sia fondamentale. E cercare il panorama che fa per noi, quello che ci mette in pace con le nostre storture e le nostre tristezze è un dovere oltre che un nostro diritto. Comporta un po’ di sbattimento, sì, certamente sì. E un po’ di disagio interiore, sì lo posso confermare. Ma non importa. Non importa. Non. Importa. Tutto questo serve.

Quando non ci sono finestre non c’è luce, non c’è respiro. Se chiudiamo le nostre finestre smettiamo di sentire il mondo per finire ad occuparci soltanto di noi stessi mettendo in pericolo la nostra mente, il nostro equilibrio. Se poi c’è chi trova l’Illuminazione ritirandosi a vita monastica, buon per lui. Per chi è come me non funziona. Quando sono in un luogo senza finestre so che quel luogo non è il mio. Non funziono senza poter spingere il mio sguardo oltre la finestra, mi si blocca tutto. Non so spiegarlo, ma così è. E così mi basta.

Amen.

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(369) X

L’abusata X, dall’incognita matematica all’X Factor, quando moltiplica e quando segna errore, quando conta e quando condanna. Sempre lei: X.

Mi sembrava doveroso fermarmi un po’ per valutare la sua condizione e, mentre la guardo, trovo che sorreggere il cielo e attaccarsi alla terra sia la caratteristica che più mi piace di lei. Perché il fattore X si basa su principi solidi. Due piedi a gambe divaricate: così il grounding regge e può sorreggere quel peso di cui ti stai caricando. E se alzi le braccia a specchio rispetto alle gambe, sentirai il peso appoggiarsi meglio perché troverà equilibrio in te e tu in lui.

Una posizione che, una volta trovata e calibrata, ti può far resistere a lungo. Magari non sei proprio contento, ma intanto resisti e poi si vedrà. Solo che quel a lungo non è mai per sempre – ammesso che il per sempre esista. Una volta capita l’antifona inizi a preoccuparti. Se ti sposti, se sposti anche solo di un grammo il peso crolla lui e tu ci rimani sotto e ciao.

Restare lì schiacciato tra il sopra e il sotto diventa inevitabile. Schiacciato eppure in equilibrio, ridicolo. Succede e quando succede non puoi farci molto. Quello che puoi fare è scrollare la testa e dirti: “Ma come m’è venuto in mente?”. Ma non troverai la risposta, nessuno ti darà risposta perché la domanda è sbagliata. Se ti domandassi, invece, “Tutto questo peso è necessario?”, allora sì che le cose inizierebbero a cambiare. Un nuovo equilibrio all’orizzonte, un nuovo assetto, un nuovo modo di vivere le tue spalle e le tue gambe. Perché questo è necessario, è bene che tu lo sappia.

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(205) Protezione

Che il cielo ti protegga!

E se non lo fa lui, chi ci pensa a te? Tu stesso. Dovresti pensarci tu. Dovremmo ormai aver imparato che aspettarsi la protezione da qualcuno che non siamo noi non sia il modo più intelligente di gestirci. Se capiti male, la protezione diventa un cappio, una lama, un proiettile.

Cosa abbiamo fatto? Abbiamo trasformato il bisogno più puro di tutti, quello con cui siamo nati, in un peccato, in una vergogna, in una condanna.

Proteggere significa prendersi cura, riparare qualcuno o qualcosa con lo scopo di difenderlo da tutto cio che potrebbe danneggiarlo. Si protegge chi non può farlo perché debole e indifeso, si protegge chi ami anche se non ne avrebbe bisogno… ma chi non ne ha bisogno? Chi?

Il bisogno non è una cosa sporca. La protezione non è qualcosa che si deve mendicare, fa capo all’amore e basta a se stessa. E che tu sia povero o ricco, felice o triste, buono o cattivo, non cambia nulla.

Protezione significa riparo, cura, difesa. Ha origine da un bisogno puro: di riceverne e di offrirne, senza lucro e senza interesse. Perché ce lo siamo dimenticato? Perché? Perché? Perché?

 

 

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(146) Speranza

Quanto costa la Speranza? Alcuni dicono che costa troppo, costa la disillusione e la perdita di fiducia nella vita. Credo che il pericolo esista, credo che se non ci gestiamo bene questa cosa della Speranza possiamo davvero rischiare di perdere la voglia di credere nella vita.

Giochiamo d’astuzia, allora. Mettiamo in conto che la Speranza non porta in sé Certezza né Garanzia. Trattiamo la Speranza per quel che è: un’immagine bella di come vorremmo essere e di come vorremmo che fossero le cose per noi. Niente di più, ma niente di meno.

Lasciamo al nostro bisogno di Certezza il suo posto, sacrosanto. Chiediamo qualche Garanzia se la posta in gioco è consistente, è nostro diritto. Mettiamoci nella condizione di non aggiungere alla Speranza la brutta bestia dell’Aspettativa, che crea stress e tensioni. Facciamo in modo che la Speranza sia solo se stessa, che sia gioia intima nell’immaginare ciò che vorremmo per noi. Senza caricarla di pesi che lei non chiede e che noi non abbiamo il diritto di darle.

In questo modo, se siamo bravi a gestire questa cosa, schiveremo il disfattismo e la piccineria che ci trasformano in larve che non osano alzare lo sguardo al cielo per paura che questo gli crolli addosso.

Non sono un monaco buddhista, non ne ho la stoffa. Mi piacerebbe poter far senza essere vittima dei miei sentimenti, ma non ne sono in grado. So che quando immagino qualcosa di meglio per me ho voglia di fare, ho voglia di provare nuove strade, ho voglia di essere parte attiva per realizzare qualcosa di molto vicino a ciò che ho immaginato. Con me funziona, lo può testimoniare la mia vita, i miei giorni ne sono la prova e se funziona con me può funzionare con tutti. Garantito.

Una cosa vorrei davvero: vorrei che negli occhi dei ragazzi che mi stanno di fronte in questi giorni ci fosse posto per la Speranza. Molto posto, così tanto da far loro dimenticare quel cinismo che si sono imposti perché la vita li ha delusi. Se non imparano a dare il giusto peso alle delusioni come faranno a vivere una vita piena di benessere?

Diamo loro il buon esempio, per favore.

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(35) Originale

L’ambizione ormai sfiora l’utopia, se prendiamo in considerazione il primo significato di Originale cadiamo malissimo: creare qualcosa che non s’è mai visto prima? Impossibile.

Eppure, se passiamo oltre e ci apriamo al secondo significato del termine troviamo un bellissimo:

autentico, genuino, vero

Lì bisogna andare a parare. Trovare le condizioni per realizzare qualcosa che in modo autentico rappresenti non te stesso bensì la tua Visione.

Una Visione mica si copia, o la si ha o non la si ha. Ci nasci con una Visione, non funziona se ti aggrappi alla Visione di qualcun altro. Puoi copiare i gusti degli altri e farli passare come tuoi, puoi scimmiottare desideri e sogni… le Visioni, no.

Nascono da un genuino bisogno di raggiungere l’orizzonte in volo.

Nessun uccello vola allo stesso modo di un altro anche se tutti sanno toccare il cielo. Ognuno sente il vento a modo suo. Ognuno può osare secondo la propria natura.

Ambire all’autenticità, al bisogno genuino, al vero della propria natura, non è utopia è piano per la propria esistenza.

Non c’è fucilata di cacciatore che potrebbe fermare un volo che parte da queste premesse. Tsé!

b__

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