(1046) Racchiudere

racchiudere /ra’k:judere/ v. tr. [der. di acchiudere, col pref. r(i)-] (coniug. come chiudere). – 1. a. [avere dentro, chiudere in sé come in un contenitore: museo che racchiude molte sculture] ≈ (lett.) albergare, contenere, custodire, ospitare. b. [usato spesso al passivo, chiudere formando quasi una delimitazione: il paese è racchiuso fra alte mura] ≈ chiudere, cingere, circondare, circoscrivere, comprendere, delimitare. 2. (fig.) [avere o porre all’interno: questo principio ne racchiude in sé molti altri] ≈ comportare, comprendere, conglobare, contenere, implicare, includere, inglobare, (non com.) rinserrare. ↔ escludere, lasciare fuori.

Chiudere in sé come in un contenitore. Chiudere-in-sé-come-in-un-contenitore. Non credo di avere mai incontrato in un lemma del dizionario una spiegazione così poetica. Siamo un contenitore e chiudiamo dentro di noi talmente tante cose da perderci la testa. E spesso la perdiamo davvero.

Conteniamo il passato, il nostro personale e quello dell’Umanità intera, il presente e il futuro che è soltanto congetture e ipotesi e illusioni, ma che pesano come cemento e che possono ancorarci al suolo senza neppure poter alzare la testa per guardare il cielo. Conteniamo tutto quello che ci è stato detto e il sentimento con cui quelle cose sono arrivate a noi, spesso come mazzate, alcune come carezze. E conteniamo tutte le bugie, tutte le sporcizie, tutte le schegge del nostro amor proprio andato in fratumi almeno mille volte o mille di più di quello che avremmo voluto e che avremmo auspicato per noi stessi.

Conteniamo anche tutto quello che non vogliamo condividere con gli altri, per paura di essere sbeffeggiati e derisi e mortificati. Sono solitamente cose belle, cose che farebbero nascere sorrisi e piccole gioie, ma soltanto in poche anime e rischiare troppo non si può, non ce lo si può permettere.

Conteniamo immagini a non finire che potremmo frammentare in istanti e farne un film lungo una vita o due o anche tre. Conteniamo suoni che attraversandoci si sono soffermati un po’ più del dovuto e hanno marchiato le nostre cellule che ancora vibrano senza sapere ormai il perché. Conteniamo rinascite e continue morti. Conteniamo partenze e ritorni, contorni di addii e convinti arrivederci.

E poi ci sorprendiamo se non ci ricordiamo dove abbiamo messo le chiavi dell’auto o gli occhiali o il cellulare… ma chi se ne importa? Prima o poi li ritroveremo esattamente dove li abbiamo posati, ma come si fa a rinunciare a quello che stiamo contenendo? Come si fa a scegliere cosa buttare e cosa tenere? Come si fa ad allontanarsi credendo che saremo ancora gli stessi?

E come si può rischiare che non sia così?

Io non posso.

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(768) Vetrina

Si mette in mostra il meglio di sé sperando di vendersi. Questa dovrebbe essere la regola. Se lo fosse sarebbe tutto chiaro. Compri non solo quello che vedi – presumibilmente il meglio – ma anche quello che ci sta sotto e sopra, dentro e dietro.

Non funziona così, però, perché non sempre oltre quello che vedi c’è dell’altro. E se fosse solo un bene o solo un male sarebbe tutto molto più semplice. Eppure, se compri soltanto quello che vedi e c’è potrebbe non bastarti, se compri anche tutto quello che non vedi – nove volte su dieci – ti maledici per non averci pensato almeno mille volte prima di portartelo via. Tirando le somme: mai una gioia.

Poi ci sono quelli come me, e qui – modestamente – si aprono le voragini dell’inferno. Chi non ci ha mai puntato nulla su quello che stava mettendo in vetrina: per insicurezza, per incapacità strategica, per impossibilità reale o immaginata, per pigrizia, per indolenza e per qualsiasi altra ragione. In ogni caso, alla fine dei conti, sempre uno sbaglio. Enorme.

Concentrarsi su tutto quello che sta sotto, sopra, dietro, in parte, probabilmente per chi è fatto della mia stessa pasta, è prioritario rispetto a ciò che sta mettendo in vetrina. Per la serie: non capire un cazzo. Lo dico ora, ora che è tardi per mettere in mostra il meglio perché – evidenza dei fatti – è svanito con il passare dei troppi anni e delle vicissitudini maledette della vita. Infatti, ci ho riflettuto solo ultimamente. Voglio dire, ero così impegnata con le millemila idiozie che mi riempiono il cervello che la cosa più ovvia m’è passata sotto il naso e io… niente. Girata dall’altra parte.

Mi sorprendo sempre di quanto il mio “vedermi” fuorvia il 99% del mio “vivermi”. Considerato che la mia vista s’è ridotta – notizia fresca fresca e alquanto traumatizzante – e che nuovi occhiali stanno per posarsi sul mio naso, mi posso solo augurare che con le nuove lenti io possa scoprire ciò che ancora di me non ho saputo vedere. Così, tanto per approfittare del tempo che mi separa dalla cataratta senile. Perché se dice male dice male, e girarsi dall’altra parte non serve mica. Eh.

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(730) Occhiali

Ultimamente mi sono dimenticata di indossare gli occhiali rosa. Esistono solo nella mia testa, ma mi sono stati utili in diversi frangenti, soprattutto quando il sole era troppo o il freddo era troppo o lo schifo era troppo. Il troppo vestito di rosa viene smorzato e si trasforma in sopportabile. Gioco scemo eppure efficace.

Sopportare significa che non ti va bene, ma proprio non ti va bene, però ti rendi conto che lo devi attraversare e che devi trovare un modo decente per farlo. Son passata di troppo in troppo e non ho avuto il tempo di cercarli, quei dannati occhiali rosa, li avevo appoggiati chissà dove e me li ero dimenticati quasi del tutto. Fino a oggi.

Oggi mi sono resa conto che ne avevo bisogno. Il troppo di questi ultimi tempi non è stato nulla di tragico, nulla di devastante, ma il troppo rimane troppo. E c’è bisogno di fermarsi, c’è bisogno di riflettere, c’è bisogno di smorzare l’intensità perché gli occhi sono stanchi.

Ho un talento per la sopportazione, ma non è affatto una caratteristica positiva. Ammiro chi non sopporta e reagisce in modo da non subire  situazioni che sono oggettivamente intollerabili – per diversi motivi. Io penso sempre che, prima di reagire con decisione, devo arrivare al punto che il troppo sia colmo. E ci arrivo, altroché se ci arrivo, ma ci arrivo sfinita. Ecco, vorrei riuscire a fare diversamente. Mi spingo sempre oltre ogni limite e poi crollo e stacco.

Gli occhiali rosa oggi li ho indossati per guardare tutto quello che in un anno ho attraversato e quanto la mia sopportazione abbia creato e bruciato dentro e fuori di me. Sono rimasta allibita. Ho fatto diventare quel troppo enorme e ho sopportato innanzitutto quella me che attraversava il troppo esagerato come se fosse parte del pacchetto all-inclusive. Evviva. No, davvero, sono veramente troppo avanti. Un genio.

Dovrò sforzarmi d’ora in poi di essere meno genio o camperò ancora poco. Dovrò sforzarmi di avere una voce più decisa, anche quando la voce mi mancherà del tutto. Dovrò sforzarmi di crescere, molto probabilmente. Non mi piace pensare che dovrò forzarmi a fare diversamente, ma naturale non mi viene di certo pertanto sarà bene che io mi ci metta d’impegno. Sì, è arrivato il momento di ripensare al come di ogni mio silenzio per fissarlo con pesi differenti. Ho attraversato un onorevole numero di troppo, mi posso pure accontentare di un abbastanza e sopportare il giusto e darmi pace il giusto lasciando andare il giusto.

I toni accesi mi hanno sempre dato noia, dopotutto. Meno genio e più concretezza, perdio!!!

 

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(176) Occhi

Sono astigmatica, e manco poco, perciò vedo tutto sfocato come se fossi dentro il sogno di una favola. Non mi dispiace vedere così, l’ho scoperto a 17 anni e prima di allora le cose non erano diverse dal dopo. Quindi pace.

Certo, se mi metto gli occhiali e il difetto mi si corregge vedo meglio, tutto più nitido, addirittura brillante. Alle volte tanta brillantezza mi dà fastidio. Sono abituata alla mia confortante opacità ovattata e calibro l’uso degli occhiali dosando la brillantezza nella mia giornata con una certa attenzione.

Leggere mi obbliga a mettermi gli occhiali e io leggo molto, per cui gran parte della mia giornata gli occhiali mi colpiscono di brillantezza. Se voglio prendermi una pausa e farmi un caffè, però, mi tolgo gli occhiali. Stacco dalla brillantezza e mi rifugio dietro al mio velo.

Insomma: gestisco i miei occhi come meglio credo. Come tutti, immagino.

Da qui può partire la mia riflessione serale: decido io cosa i miei occhi devono vedere, che io ne sia consapevole o meno. No, non si tratta solo degli occhi, si tratta anche di comprensione, di ascolto, di attenzione, di coraggio (o mancanza di coraggio), di voglia di verità (più che si può, ben sapendo che più in là di una certa percentuale non si va).

Oggi i miei occhi hanno visto tutto quello che potevo vedere. Anche ieri, anche l’altro ieri, anche il giorno prima. Tutto quello che posso vedere i miei occhi lo afferrano. Mi domando quanto sia l’ammontare di ciò che non posso ancora vedere. Mi domando se sia meglio non poter vedere tutto. Mi domando se il vedere di più aiuterebbe i miei occhi e il mio cuore.

Forse no.

Benedetto astigmatismo!

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