(1092) Ruscello

Sono abituata a pensare ovunque mi trovi, nel senso che riesco ad estraniarmi dal mondo e immergermi nei miei pensieri a piacimento. Tranne che nella sala d’attesa di un medico, di un pronto soccorso o di un reparto d’ospedale. Lì non ci riesco. Credo sia una questione energetica, di quel che di pesante si porta appresso la sofferenza umana formando una cappa di cemento che non ti permette di alzare la testa né fuggire.

M’è capitato di essere ricoverata per una settimana, accertamenti su accertamenti, e mi son detta “bene, avrò tempo per starmene in pace a pensare”. Mi sbagliavo. Sono entrata con l’andare delle ore in una sorta di stato cerebrale anestetizzato che mi annichiliva il volere. Iniziavo a pensare e poi mi perdevo. Bloccata in un limbo appiccicoso di morte prematura. Non riuscivo a ridestarmi, i giorni sono trascorsi e, tra un prelievo e l’altro, non avevo fatto altro che dormire (anche da sveglia). Ma come?

Vabbé, comunque ci sono volte in cui mi piacerebbe sedermi su una panchina all’ombra di un salice davanti a un ruscello e farmi trasportare via. Se hai davanti a te dell’acqua che scorre placidamente non puoi far altro che seguirla, no? E qualcuno potrebbe dirmi “medita!” e ti risolvi il problema. Ennò! Mi innervosisco, comincio a sentire ogni millimetro del corpo che mi chiama e mi prenderei a sberle.

Ripeto: davanti a un ruscello sotto a un salice – anche senza panchina – e il vento tiepido che muove le cose. Questo voglio, mica la luna!

 

 

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(20) Distacco

Staccarsi da qualcosa o da qualcuno. Fosse una gara partirei in vantaggio. Non è una gara, devo pertanto prendere la cosa da un’altra angolazione.

Con me, la questione del distacco gioca in modo bastardo. Sono coinvolta al 100% in quasi il 100% delle cose che mi riguardano, ma non da perdermici. Poi guardo un film che parla di un alieno che vuole tornare a casa e piango.

Mi trovo totalmente assurda. Il distacco dalle miserie umane è il mio modo per non soccombere, molto probabilmente, alla mia dannata emotività. Penso che quando mi si guarda in faccia si capisca immediatamente quello che provo, invece scopro che sono un libro aperto ma scritto in braille (citando pari pari un amico fraterno che sa vedermi bene).

A parte quando mi parte l’embolo e mi arrabbio, allora è palese che il mio silenzio sia dovuto a furore e non a remissività.

Aggiungo che mi arrabbio poco, troppo poco, e non mi vendico. Mai. E’ un peccato lo so, mi divertirei di più se lo facessi, ma non ho tempo e davvero ho poca voglia. Lasciamo perdere.

Ritornando al distacco è una cosa che mi mette in crisi, lo stare fuori e dentro in contemporanea alle situazioni mi stordisce. Provo quello che provo o me lo sto immaginando? Mi importa veramente o me la sono soltanto raccontata? Sono diventata una cinica insensibile o mi sono fatta un po’ più accorta imparando a non lasciarci l’anima ogni volta che le cose vanno male?

Non lo so. Sinceramente non lo so. So che preferisco piangere quando nessuno mi vede, e piango poco perché penso che le cose per cui valga davvero la pena piangere non siano tante. So che se sto male me ne resto al riparo finché non va meglio. So che m’importa, m’importa molto di quello che vedo e quello che vivo e anche di quello che vivono gli altri, ma che a un certo punto mi stacco, mi proietto altrove. Sempre quando diventa tutto troppo.

Distaccarmi mi aiuta a non vivere ogni istante come se fosse una tragedia. Quando non ci riesco, me ne accorgo. Mi fermo e mi impongo di farmi un bel sonno perché di tragedie a questo mondo ce ne sono abbastanza senza bisogno di caricarci anche le mie. Distaccarmi mi aiuta a vivere, ma mi spaventa un po’. E se non riuscissi più a ritornare indietro?

L’anima anestetizzata non te la perdona, ti ridà tutto con gli interessi. E son dolori.

b__

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