(1093) Sistemare

Chi ha traslocato almeno una volta in vita sua sa come si fa. Sa anche quanta fatica si fa. Sa ancora meglio cosa ogni gesto di quel sistemare, imballare e trasportare altrove significa per le proprie emozioni scombussolate.

Sei stato lì per un po’ e ti muoverai altrove. Quel posto in pratica lo stai abbandonando. Non è che lo fai perché non te ne importa più, lo fai perché è giusto così. Da qualche parte ti arriva una voce che ti rassicura: è giusto così. 

Giusto, in questo caso, significa che per andare avanti devi andare altrove. La strada che ti eri proposto di fare doveva portarti a quel punto. Al punto di scegliere di lasciare quel luogo e affrontare un’altra sfida e quindi un altro luogo e un altro percorso. Che è la continuazione naturale di quello che hai vissuto lì, ma che non potrebbe accadere se tu da lì non te ne andassi.

Sei già proiettato al di là della soglia perché devi progettare e sistemare le cose in prospettiva, ma sei ancora lì che scegli cosa buttare e cosa portare con te. E riempi scatoloni, svuoti cassetti e armadi, ti fermi un po’ qui e un po’ là nella stanza ripensando a episodi, cose, persone, che di lì son passati e hanno condiviso con te quel pezzo di vita.

Permettetemi: tre anni non sono mica uno scherzo.

Faccio fatica a pensare che tra pochi giorni non entrerò più qui per scrivere. Ci entrerò per tuffarmi, di quando in quando, in quel che è stato, molto probabilmente. Non subito, però. 

So già quello che farò, so già come andrà perché l’ho già vissuto più volte, ma so anche che sistemare per bene tutto mi permetterà di lasciare questo luogo non con la sensazione maledetta di averlo abbandonato, ma di averlo onorato e salutato con l’amore che merita.

Non fuggo da qui, vado altrove. Che è un qui un po’ più spostato in avanti, forse, anzi me lo auguro perché ancora non lo so. Quella è comunque l’intenzione.

Ho ancora qualche giorno. Me li godrò per stamparmeli bene dentro e in questo modo non sbiadiranno subito. Magari piano piano. L’importante che non sia troppo in fretta, sarebbe un crimine.

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(1004) Modellare

È difficile immaginarci come sarebbe andata se non avessimo detto o non avessimo fatto, o se avessimo detto e fatto anziché starcene immobili o andarcene nel momento in cui dovevamo restare. Si prende la via di Sliding Doors e si viaggia di fantasia. Poteva succedere di tutto, ci diciamo, per giustificarci (scampato pericolo) o per scusarci (mancanza di coraggio). Poteva.

Quel che facciamo è una manipolazione della nostra esistenza che perpetriamo con una certa nonchalance, come se non contasse nulla. Anziché prendere coscienza di come stiamo modellando il nostro oggi e il nostro domani ci rendiamo autori di un ieri che non volevamo e non vogliamo. E lo trattiamo come se non fossimo stati noi a decidere, a fare o non fare, dire o non dire.

Eravamo noi. Magari diversi da quello che siamo oggi, ma eravamo noi. Noi lì a modellare incoscientemente quel che poi sarebbe restato a testimonianza del nostro passaggio nel tempo.

Modellare significa dare forma. Dare una forma ci permette di riconoscere quel che stiamo creando come un’espressione del nostro volere e della nostra capacità di rendere concrete certe idee, certi pensieri.

Modellare quel che abbiamo tra le mani significa avere un’idea su quello che sarà il suo scopo, la sua utilità, foss’anche soltanto qualcosa di bello da guardare. Perché la Bellezza fino ad ora non è riuscita a salvare il mondo, ma lo tiene a galla. Onorevolmente, considerato che è rimasta sola a combattere la battaglia, lei sola a crederci.

Modellare è nelle nostre possibilità, è nelle nostre corde, sappiamo come fare e sappiamo anche farlo bene quando ci impegniamo. Dovremmo forse impegnarci più spesso. Se fossimo concentrati sul nostro modellare la nostra esistenza saremmo meno focalizzati sul disturbare o distruggere il lavoro di chi lo sta facendo, magari anche bene, magari anche meglio di noi.

Ma si sa, siamo qui per crearci fastidio l’un l’altro, siamo qui per rovinare quello che di bello ci è stato dato in dotazione nell’istante in cui abbiamo fatto il primo respiro. E pensiamo di averne il diritto, siamo tutti così annoiati dal nostro vivere.

Qualcuno, poco tempo fa, mi ha detto: meritiamo di estinguerci. E ho sentito una stretta allo stomaco rendendomi conto che è quello che ci meritiamo davvero. Poi ho continuato il pensiero per vedere dove mi stava portando e il pensiero si è preso cura di me ricordandomi che a molti sbagli si può porre rimedio e che a modellare un po’ meglio si fa sempre in tempo.

Bisogna soltanto credere che ne valga la pena.

Ne vale la pena?

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(942) Stallo

Calma piatta. E questo mi fa innervosire all’inverosimile perché so che è preludio di qualcosa e so che quel qualcosa potrebbe non piacermi. Al terzo giorno (sa di biblico, lo so, ma non ci posso fare nulla è così) il nervoso diventa incazzatura perché ogni atomo utile di creatività se n’è andato a quel paese sbattendo la porta e senza salutare. Dovrei stare calma, ci sono già passata. E invece no.

Mi sento la più miserabile anima di questa terra, senza alcuna speranza di elevarmi a creatura meritevole di compassione da qui all’Eternità (e l’Eternità può durare un sacco di tempo, lo sappiamo tutti).

Non piango, non parlo, non do segni di vita. Solo mi incazzo ancora di più. E la calma piatta si è ormai trasformata in stallo. Grande. Enorme. E-N-O-R-M-E. E non è che ho voglia di parlarne, non è che ho voglia di sviscerare la questione, non è che ho voglia di incontrare gente e fare cose. Voglio solo dormire. Dormire in un oblìo total black, che sta bene su tutto e comunque slancia.

Mentre dormo, molto probabilmente, gli incubi proliferano facendomi alzare al mattino con un mal di testa epocale e le ossa rotte. L’umore non migliora di certo in queste condizioni, e chiunque mi si avvicini rischia la vita. Sono arrivata all’ultimo stadio, chiamato: il-mondo-non-mi-merita.

Badate bene, potrebbe sembrare una cosa orrenda, ma è il segno che qualcosa sta per sbloccarsi. Parte con la presa di coscienza che il mio genio non sia riconosciuto da questa società pusillanime e quindi è inutile che io mi prodighi per aiutare il mondo a fare un salto quantico. Tutto inutile e anche doloroso.

Ripeto: sembra orrendo come sentimento, ma non lo è del tutto. Ovvio che non ci credo, però è un modo per buttare fuori l’incazzatura. Ok? Ognuno c’ha il suo, io ho questo (che è meglio che tirare pugni in faccia al primo che capita). A questo punto della storia mi metto davanti a un foglio con i miei pennarelli e duemila penne diverse (tutte nere e viola, ma diverse per tratto e sfumature) e butto giù quello che per giorni ha intasato le mie sinapsi esaurite. Tutto. Tutto quanto.

Dopo due/tre ore di lavoro forsennato e benedetto, come se non ci fosse un domani, alzo la testa e penso che questo è un mondo meraviglioso in cui vivere. Un mondo dove pennarelli e penne e carta e pensieri possono trovare una via per congiungersi e lasciare traccia di sé.

Lo so, sono pazza. Però anche ‘sto giro ho superato lo stallo.

Daje.

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(885) Subire

subire v. tr. [dal lat. subire, der. di ire “andare”, col pref. sub– “sotto”, propr. “andare sotto” e quindi “sopportare”] (io subisco, tu subisci, ecc.). – 1. a. [ricevere una cosa non voluta né gradita, anche assol.: s. un torto] ≈ patire, soffrire. ↓ (fam.) incassare, sopportare, tollerare. b. [accettare senza reagire] ≈ (fam.) digerire, (fam.) mandare giù, (fam.) sorbire, tollerare. 2. [dover far fronte a qualcosa di spiacevole: s. un interrogatorio] ≈ affrontare, sostenere. ↔ evitare, fuggire, rifuggire, schivare.

Già solo leggere il significato del verbo subire mi fa ribollire il sangue. La nostra esistenza è una lista pressocché infinita di cose che dobbiamo mandare giù, con cui dobbiamo avere a che fare nostro malgrado, che non possiamo schivare e non possiamo risolvere. Frustrazione a mille e voglia di spaccare tutto.

Eccoci qui. Tutti d’accordo. Spacchiamo tutto.

Andiamo oltre però. Quando subisci significa che sei convinto, dentro di te, di non essere nel posto giusto. Torto o ragione? Torto. Ti senti dalla parte del torto. Ti pensi in difetto, ti vedi debole, ti credi non degno. Subire è arrendersi. Ti arrendi all’evidenza che tu non puoi o tu non sei o tu non hai o tu non vali/meriti niente. Sbang.

La normale sopportazione, la normale tolleranza, la normale sofferenza, nessuno ce le toglie. Son quelle e basta. Quando si va oltre, però, non va bene più. Ci sono mille modi per non arrivare a quel “oltre” che ti impallina senza scampo, bisogna solo farci attenzione in tempo. Far andare oltre le cose significa subire. Rassegnarsi al non-fare, non-dire, non-pensare, non-agire, non-credere, non-sperare. Morire.

Si muore un po’ dentro. Pezzo per pezzo si spengono le lucine e rimaniamo al buio. Al buio ci si sente ancora più piccoli, vulnerabili, fragili, miserabili. No?

Diventa importante captare i segnali e fermare la valanga prima che il normale si stroppi, direi vitale. Nessuno può farlo al nostro posto. Sappiamo noi quanto è normale quello che stiamo sopportando e quanto è troppo. E quando è troppo, se rimaniamo lì senza dire-fare-pensare-lettera-testamento, manchiamo di coraggio. Non abbiamo scuse. Siamo noi a decidere. Ogni sacrosanto minuto della nostra maledetta/benedetta esistenza. Che ci piaccia oppure no.

Ma forse l’ho già detto. Ho idea che sto andando in loop. Perdono.

 

 

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(854) Rimbalzare

Dicesi Arte del Rimbalzo quell’attività messa in atto da chi ha zero voglia di sbattersi quando gli chiedi di fare qualcosa. Sarebbe loro dovere farlo, ma abilmente trovano il modo di sviare l’incombenza e buttarla addosso a qualcun altro. C’è chi fa di quest’arte una ragione di vita. Da queste persone bisognerebbe stare alla larga o se ci devi fare i conti tutti i giorni bisognerebbe armarsi di mazza da golf per sacagnargli [trad. dal friulano italianizzato “frantumargli”] i malleoli. Come si meriterebbero.

Badate bene: se è uno sport che state praticando al momento, non il golf intendo il rimbalzo, vi auguro di trovare qualcuno che vi fermi con una certa veemenza. Siete pericolosi per l’ecosistema terrestre, sappiatelo.

In natura ogni cosa ha una sua funzione. Ogni Essere Vivente ha una sua funzione. Ogni evento ha una sua funzione. Nessuno si immagina di schivare ciò che gli compete, tranne alcuni Esseri Umani inetti che pensano di adossare agli altri i propri fardelli.

A nessuno fa piacere avere rotture di palle, ma tutti le hanno. Quotidianamente, senza sosta. Se ho un problema che non so risolvere, ma tu lo puoi risolvere perché è il tuo compito, rimbalzare la rottura a qualcun altro è per lo meno cafone. Il rimbalzo offende l’intera filiera. Chiaro il concetto?

Quando qualcuno viene da me chiedendomi di risolvergli un problema che è parte delle mie competenze, del mio lavoro, non chiamo qualcun altro a risolverlo, mi ci metto. Perché è così che dev’essere. Non c’è altra opzione. Se non ci riesco, se non basto io, allora chiamo chi è più bravo di me e può sistemare la cosa. Ma non lo faccio a prescindere. Non lo faccio con l’intenzione di lavarmene le mani. Non lo faccio perché mi sento più furba, più smart.

Sto parlando dell’ambito professionale/lavorativo perché è dove ci sono più rimbalzatori seriali che altrove (sospetto che sia soltanto il luogo in cui si fanno scoprire più facilmente), ma credo che chi lo fa sul lavoro sia abituato a farlo anche nel privato. Si giocano l’asso ogni volta che possono, alzando le spalle e pensando “Sticazzi, arrangiati, fallo fare a qualcun altro”. Così facendo impallano tutto il sistema del dare-ricevere che fa girare il pianeta.

Non stiamo parlando di generosità, sia-mai, stiamo tirando in ballo la coscienza di esserci anche se non è piacevole, anche se non è facile, anche se non è comodo, anche se ti girano le palle, anche se preferiresti andare a nuoto fino in Antartide, anche se hai mille altre buone ragioni. Non me ne frega niente. Pure io ho le mie buone ragioni per non fare, ma non le uso a scapito di qualcun altro.

L’Arte del Rimbalzo è davvero Arte quando la si usa con chi se lo merita e non a prescindere da tutto e tutti. Altrimenti si chiama lavarsene-le-mani, e Pilato è l’unico che è passato alla storia per averlo fatto e non per merito suo, ma per averlo fatto con la persona sbagliata. Sia chiaro.

 

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(732) Tentativi

La vita è fatta di tentativi. Niente di più e niente di meno. Tu provi e se ti va bene, tanto meglio, se ti va male ti devi far venire un’altra idea sperando che il nuovo tentativo vada meglio del precedente.

La cosa può essere agevolata se si è dotati di serbatoi di fortuna a cui attingere, se non è previsto dal contratto di nascita e la sfiga è compagna abituale qualsiasi imprevisto – di questo mondo e dell’altro mondo – interverrà puntuale per far andare all’aria tutto. Inutile nascondersi dietro a un dito: il Karma colpisce sempre e va a segno con inesorabile spietatezza.

La cosa più intelligente da fare è mostrare coraggio, domare la paura, farsi avanti e comunque tentare. Non perché poi ci si debba pentire di non averlo fatto – per alcuni è così, ma in linea di massima uno se ne frega di quel che poteva essere e non è stato – ma perché nel frattempo, ad attendere che la vita si accorga del nostro valore e del nostro merito, si fa la muffa.

Tentare, però, non basta. Bisogna anche farlo con una certa fiducia e una dose massiccia di senso dell’ignoto, ovvero bisogna diventare fatalisti. Se va va, se non va pazienza, andrà la prossima volta. O s’impara questa semplice formula di sopravvivenza oppure ogni volta che non va si cade in uno stato di prostrazione difficilmente sanabile. Anche se ce la metti tutta e non va bene… pazienza. Non è sempre colpa tua o colpa sua o colpa di chissà chi, è proprio che non doveva andare. Significa, forse, che non era il momento giusto o la cosa giusta per te. Chi lo ha deciso? Non lo so, non deve importarti, devi solo essere pronto per un nuovo tentativo. Perché? Perché altrimenti che diavolo fai? Stai lì a rotolarti nella tua miseria come un maiale nel fango? Ah, bella roba, complimenti!

Non è che le cose debbano andare per forza sempre bene, siamo fortunati se una cosa su mille ci va dritta. Dovrebbero dirci questo quando nasciamo così almeno siamo preparati. Nessuno te lo dice, lo devi imparare da solo. E quando lo impari non è che le cose cambino, le cose vanno veramente così. Non è uno scherzo. Come dici? Troppo faticoso? Ebbé, sì… troppo. Cosa vogliamo fare allora? Stare lì a lamentarci? Ti basterebbe?

Io mi cambio scarpe, cambio vestito, cambio colore ai miei pensieri, cambio visione, cambio ambizioni, cambio cambio cambio. Io cambio piuttosto di darmi per vinta. Cerco di cambiare in meglio, ovvio, ma non è detto che mi riesca ogni volta. Comunque, io cambio. E mi butto nel prossimo tentativo. Daje!

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(697) Brindisi

brindisi /’brindizi/ s. m. [dal ted. bring dir’s “lo porto a te (il saluto o il bicchiere)”, cioè “bevo alla tua salute”, attrav. lo sp. brindis]. – [il bere alla salute di qualcuno o di qualcosa] ≈ cin cin, cincin.

Un brindisi me lo farei volentieri. Tra tutte le paranoie e le menate senza senso, tra tutte le incazzature e i problemi da risolvere, tra tutto quello che ho vinto e quello che ho perso, tra tutto quello che ho lasciato andare e quello che ho accettato di portare avanti… insomma, tra tutto questo, a quest’ora avrei potuto essere morta. E invece sono qui. Cincin!

Il fatto che siamo vivi e che lo siamo non per un caso fortunato ma perché siamo degli ossi duri, lo diamo troppo per scontato.

Già il barcamenarsi non è una scelta ma l’unica via, mettici pure il fato e la sfiga, insomma, c’è di che rimanere soddisfatti: vivere non è per tutti. Il fatto che siamo in tanti vivi – il mondo è piuttosto affollato – non significa che sia una cosa da poco. Infatti, ci stiamo talmente tanto addosso che non vediamo l’ora di scagliarci gli uni contro gli altri per farci saltare in aria reciprocamente. C’è da esserne orgogliosi, vero? Una massa di inenarrabili teste di cazzo.

Madre Natura fa pulizia ogni tanto, il punto è che non sceglie i più meritevoli – ovvero i grandissimi infami – per toglierli di mezzo una volta per tutti, lei va giù di grosso: dove piglia piglia. Migliaia e migliaia di persone normali se ne vanno al Creatore e gli infami stanno ancora qui. Non va bene, ma non è che puoi discutere con Madre Natura (né in quanto Natura né tantomeno in quanto Madre). Chi resta resta. Chi resta dovrebbe vivere con gratitudine sparsa e senza condizioni, invece sputiamo su tutto, come se niente avesse valore.

Ci vorrebbe un po’ di coscienza, di tanto in tanto, perché siamo orrendi quando agiamo come se ci meritassimo il meglio e stiamo ricevendo il peggio. La verità fastidiosa è che non ci meritiamo un bel niente che stiamo ricevendo di tutto e di più e tutto insieme perché le cose son così per tutti. E siamo tutti uguali.

Un brindisi a me, quindi, e a chi come me vuole prendersi un bel respiro, vuole guardarsi attorno, vuole sentirsi parte di quel grande miracolo che è la vita, vuole condividere la sorpresa dell’esserci ancora con chi la può capire e può farla sua alzando il calice e con un sorriso affermare: brindo a te.

Cin cin!

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(694) Alieno

Essere un alieno può significare che provieni da un altro mondo, che appartieni a un altro mondo, ma anche che sei refrattario rispetto a qualcosa o a qualcuno: come al solito la lingua italiana si riempie di colore appena la sfiori. Quante volte al giorno ci succede? Centinaia. A tutti per di più. Siamo tutti goffi alieni che si muovono a tentoni e che fanno finta di avere tutto sotto controllo. Balle.

A me piacerebbe tanto incontrare un alieno capace di affermare non-lo-so quando davvero non sa qualcosa. Mi piacerebbe parlare con un alieno che non si vergogna di ammettere che non-può-fare qualcosa o addirittura che non-sa-fare-qualcosa. Sarebbe liberatorio. Non sarei sola in questo pianeta dove tutti sanno tutto e tutti sanno fare e possono fare tutto.

Io no. Ci sono milioni di cose che non so – anzi, miliardi – e altrettanti milioni di cose che non so fare o che non posso fare, eppure vivo. Forse non me lo merito, ma respiro lo stesso, anche se sono lontana dall’essere come vorrei, anche se la gran parte delle mie aspirazioni son finite in cantina e non c’è nulla di che vantarsi. Sono un Essere Umano finito, ho confini precisi e alcuni limiti che non mi sarà possibile superare neppure in cento vite. Pazienza. Non odio nessuno per questo, non c’è nessuno con cui prendersela, neppure chi può tutto, sa tutto, fa tutto e pure bene. Eh! Beati loro. Io no.

La cosa migliore di tutte? Nessuno si aspetta da me grandi cose. A tutti basta la mia normalità, quando ne hanno abbastanza se ne vanno liberamente, per andare a dimostrare altrove che sanno, che possono, che fanno. Magari ne danno annuncio sui social, perché se non lo racconti a qualcuno la questione perde il luccicore. Dal mio angolo alieno osservo: a volte ammiro e altre mi dissocio con fermezza.

Qui da me l’ordinario ha un sapore buono, che sazia, e quando qualcosa di straordinario accade lo si festeggia. Potrebbe non accadere più.

Noi alieni siamo fatti così. Portate pazienza.

 

 

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(612) Pretesa

Una cosa subdola, si fa fatica a riconoscere la propria perché ci mette davanti a un dato di fatto: meriteremmo un bel calcio in culo.

Il Buddhismo ci consiglia di lasciare andare le aspettative, in questo modo ci avviciniamo al Nirvana. Sono anni che ci penso, anni che mi trovo talmente lontana da questo concetto da dubitare di averlo compreso veramente. Dal mio dubbio sono risalita alla sorgente e – sono ancora in marcia, la strada è lunga – in questa mia tappa odierna (le illuminazioni arrivano quando vogliono loro, mica quando decidi tu) sono riuscita ad afferrare questa parola: pretesa.

Mollare la pretesa che soltanto perché esisti il mondo debba essertene grato, tanto per iniziare.

Non c’è niente da fare, ci ricaschiamo ciclicamente. E mentre combattiamo, come-devono-andare-le-cose VS come-noi-pretendiamo-che-vadano-le-cose, si compie il nostro Destino.

La sostanza è questa: l’avere aspettative, l’attendersi qualcosa, è il carburante che ci permette di muoverci per soddisfarle. Questa cosa delle aspettative a me è necessaria, non mi piace perdere tempo, fare le cose senza aspettarmi niente non me le fa fare bene, le faccio come vuoto-a-perdere. Va al di là delle mie forze. Quello, invece, che devo e posso smettere di fare è alimentare ‘sta maledetta pretesa che le cose saranno e andranno come voglio io perché… perché sono io che le voglio, ovvio!

Nessuno è disposto ad ammetterlo, ma ce lo dobbiamo mettere in testa tutti che le pretese sono arroganti, sono fastidiose per chiunque ci stia attorno e sono mortificanti. Più spingi le cose dove vuoi tu e più vanno dove cavolo ne hanno voglia. Forse perché non pensano che tu sia il massimo della vita, e come dare loro torto?

Va bene, mettiamo il caso che non stiamo avendo ciò che ci meritiamo, ma se ci fosse in serbo per noi qualcosa di meglio perché buttarlo? E soprattutto: ma siamo proprio sicuri che ce lo meritiamo? Ma daverodavero?

A me un dubbio rimane. Fare di più, spesso, non guasta.

 

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(555) Pochezza

Sì, la pochezza di certa gente mi lascia sempre esterrefatta. Sempre. E no, non sono un’arrogante, né una presuntuosa, sono soltanto nauseata dalla esasperante limitatezza di certi ragionamenti. Più sei ignorante più ti senti in diritto di dire la tua, ma la tua è una visione claustrofobica e maleodorante di tutto ciò che vedi perché non solo non hai i mezzi per raffinare il tuo pensiero ma di questo tuo imbarazzante gap ne sei persino orgoglioso.

Sì, quanto è bello poter far uscire tutta l’immondizia che hai dentro senza essere menato a sangue soltanto per il fatto che stai sporcando l’ambiente circostante con la convinzione che TU PUOI. Sputi su tutto e tutti. Tu la sai più lunga, tu vedi meglio di tutti, tu hai le risposte e le risposte portano sempre a una conclusione semplice e chiara: il mondo fa schifo, tutto fa schifo, tranne TU.

E questo ti fa stare bene, benissimo. Perché ti puoi lamentare, perché puoi guardare gli altri con superiorità, gli altri che non vedono, che non meritano, che se hanno qualcosa è giusto che la perdano – che qualcuno gliela tolga! – e che quel qualcosa vada a te. Tu meriti, tu vali, tu sei stato martoriato dalla vita e sempre ingiustamente. Tu vuoi la tua rivincita, tu vuoi che il mondo sappia chi sei, sappia che tu sei migliore di quello che loro pensano. Tu vuoi che tutti lo riconoscano così finalmente ti potranno baciare il culo.

Ecco.

Questo tipo di decerebrato quando lo incontri ti fa veramente vomitare. Ti vien voglia di dargli una testata sul naso, così senza neppure parlare. Te la do a prescindere, perché te la meriti, perché – sì – è giusto che il mondo sappia di te e sappia che tu meriti, meriti esattamente quello che dai al mondo ogni giorno. Meriti di essere ripagato per la tua immondizia e per la tua crassa boria che spargi ovunque senza ritegno. Meriti una testata in pieno viso. E se ti rialzi, ne prendi un’altra. Perché? Perché qualcuno che tu hai ferito, qualcuno su cui tu hai sputato, qualcuno che hai danneggiato e che hai deriso, denigrato, umiliato, ecco proprio quel qualcuno ha diritto pure lui a una soddisfazione. Il tuo silenzio è un principio di ricompensa, secondo me.

Bé, da qualche parte si dovrà pur iniziare, no?

 

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(340) Lamentela

La lamentela è quella cosa che ti scappa quando: sei infastidito o annoiato o esasperato o arrabbiato o sei in vena di menar le mani, insomma quando sei infelice.

Se stai bene non ti lamenti, neppure se qualcosa ti dà noia. Non lo fai, hai un altro modo di guardare la situazione e ci passi sopra.

Ecco, però, c’è un’altra condizione umana che prende vigorosamente le distanze dalla lamentela perché ne sarebbe sporcata, perché le energie verrebbero succhiate via e non resterebbe che morire, ovvero: il dolore. Intendo quello vero. Quello che ti spacca il cuore, quello che non ti fa respirare, quello che ti toglie le parole e ti congela i pensieri. Il dolore che annichilisce, quello che annienta.

Lì c’è silenzio, c’è immobilità, non c’è lamentela.

Sperimentato questo stato la mia visione sulle cose della vita si è ribaltata. Mi lamento per le stupidate, mai per le cose serie. Le cose serie meritano rispetto, meritano quel silenzio che permette loro di posarsi, dolcemente per non spaccare il cuore che si è fatto di cristallo e minaccia di andare in pezzi.

Bisogna guardare bene le persone silenziose, bisogna ascoltare con attenzione i loro silenzi, bisogna piano piano avvicinarsi e prendere loro la mano. Non serve dire niente, perché in certe circostanze le parole si annullano, perdono consistenza e valore. Anche quelle di consolazione, che è un attimo sentirle di plastica e finire con l’odiarle.

Le lamentele, ripeto, sono per le cose da nulla e la vita è piena di cose da nulla, per questo ci lamentiamo. Però, facciamolo ridendo di noi perché ce lo meritiamo proprio. Ridicoli che siamo.

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(246) Jackpot

Ho sempre pensato che la somma di ciò che fai, giorno dopo giorno, darà a un certo punto come risultato il tuo jackpot da ritirare. La tua vincita. Per tutti diversa, in qualità e quantità. Del tutto personale.

Lo penso ancora. Stavo, però, riflettendo sul fatto che molto probabilmente non ci accorgiamo del jackpot che ritiriamo – di periodo in periodo – perché sono somme modeste e le diamo per scontate, anzi: pensiamo siano solo un acconto.

Ritiriamo piccoli jackpot, periodicamente, da parte della vita e non ne abbiamo mai abbastanza perché pensiamo che solo un enorme jackpot sia degno di nota, solo un esorbitante jackpot sia la giusta ricompensa per il nostro faticare, il nostro sofferto vivere.

Grossa idiozia. So da molto tempo che spesso il jackpot che ho incassato era tutto quello che avevo accumulato in quel dato periodo e se da una parte posso non essere soddisfatta perché voglio di più, dall’altra non posso lamentarmi perché ho ricevuto molto e va bene così.

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(172) Equità

Equità 1. Imparzialità 2. criterio valutativo, svincolato da riferimenti di legge a cui il giudice può in certi casi ricorrere per affermare un principio di giustizia sostanziale: decidere secondo equità.

Decidere secondo equità mi piace. Mi piace l’idea che sta dietro questo concetto, qualcosa che ti fa sentire guardato con gli occhi giusti. Se è vero (e lo è) che non siamo tutti uguali (per fortuna e purtroppo) è anche vero che ci sono situazioni in cui fingere di esserlo provoca danni.

Sapere che possiamo andare oltre quello che è giusto o sbagliato e considerare l’Essere Umano semplicemente per quello che è – fallace – ci dovrebbe mettere al sicuro.

Eppure, preferiamo aggrapparci a criteri che valutiamo essere i capisaldi di una giustizia utopica, perché mero paravento per nascondere furberie del potere ormai scontate.

Questo in generale. Ora scendo nel particolare.

Se decido che – nonostante tutto – tu meriti una possibilità, io la possibilità te la do. Se valuto secondo equità che la possibilità te la meriti perché dentro di te c’è qualcosa di buono, qualcosa di bello, che deve uscire e non sa come fare, ma deve uscire… la possibilità te la do e mi prendo tutte le conseguenze del caso.

Se quello che ho visto si rivela essere soltanto un miraggio, pazienza. Non ne morirò.

Equità, è un pensiero che mi apre alla possibilità e me lo voglio tenere stretto.

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