(927) Dinamica

Cambiare la dinamica che tu stessa metti in funzione quando i risultati non sono consoni alle tue aspettative è cosa buona e giusta. Che sia facile farlo è tutto da vedere. Mille tentativi e mille fallimenti. Bisogna metterlo in conto.

La questione è che potrebbe anche andare peggio e il peggio fa sempre paura.

Certo che siamo propensi a pensare peggio-di-così-non-può-andare, ma soltanto perché siamo ottusamente ottimisti o perché non conosciamo il sacrosanto al-peggio-non-c’è-mai-fine. Questo ti iberna. Lo so.

E non si tratta di essere intelligenti o stupidi, perché le dinamiche seguono Leggi Universale che ci sono sconosciute. O meglio, le riconosci appena ti si avventano contro per mangiarti viva. Questo è.

La dinamica che vedi partire, e che-vorresti-fermare-ma-ormai-è-troppo-tardi, ti guarda divertita e fa quel che sa fare, ovvero: scatenare una sciagura dietro l’altra. Non hai neppure l’opzione massì-chissenefotte-vada-come-vada, perché ricordi bene come va e che ti devi poi smazzare le conseguenze. Quindi decidi, esausta, di agire diversamente, anzi, di pensare diversamente e mettere in essere una dinamica migliore, magari più felice.

Appena lo decidi l’Universo si piega al tuo volere e la felicità ti cade in braccio.

Wrong. Damn Wrong.

Appena lo decidi, l’Universo strizza l’occhio a tutte le variabili esistenti e disponibili e dichiara: Let’s Party!!!!

E tu, tu che dell’ottimismo non sai che fartene perché tu vuoi e puoi decidere della tua esistenza, tu che pensi che comunque vada sarà un successo perché tu hai capito – diamine hai capito! – che sta a te agire diversamente e ora è ovvio che le cose miglioreranno, tu che finché non ci metti il naso non ti rassegni e non molli, tu – povera piccola anima patetica – tu sarai l’attrazione del party.

No, non uscirai dalla torta, lasciando tutti senza respiro, no. Ti tireranno la torta in faccia però. Perché sarai il Clown.

Oh, yeah.

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(918) Stato

Quando mi prende lo sconforto me lo domando: Babs, in che stato sei? 

Domanda retorica, ma salvifica. Mi permette di focalizzarmi sull’autocommiserazione come punto estremo dei miei bassi e da lì non si può fare altro che risalire. Con fatica, ma si risale.

Non farsi la domanda, molto probabilmente, non ti fa scendere dove non vorresti andare, ma allo stesso tempo ti toglie la possibilità di non finirci inconsapevolmente e vivere là in fondo per tanto tanto tanto tempo. 

Mi è stato chiesto ieri, ma era più che altro una constatazione fatta da una persona che stimo molto quindi le sue parole le prendo in seria considerazione: sei sempre incazzata? 

Ehmmmmmmmmmmm…

No, sì, non proprio, boh. 

Fondamentalmente non sono una che vive incazzata, ma credo di esserlo stata un po’ troppo negli ultimi anni. Più capisco e più mi incazzo. Lo so, non dovrebbe essere così, ma l’inverso. Per le persone sagge immagino funzioni al contrario: più capiscono e più se la mettono via. Smettono di incazzarsi e affrontano le cose con un certo distacco. 

Ahahahah. Distacco. Io? Mi dispiace non è contemplato nel mio genoma e il mio connettoma si è settato di conseguenza. Eh.

La stessa persona di cui sopra ha concluso così: no, forse tu sei solo una ribelle. E già lì mi ci sono ritrovata di più, meglio. Dal mio punto di vista se ti incazzi significa che ci tieni. Quando smetti di incazzarti è la fine, c’è il distacco. L’indifferenza. Ecco, io mi ribello all’indifferenza. La trovo disumana.

Quindi, rileggendo il tutto, mi piacerebbe che questo mio modo di prendere le cose non venisse letto come sfogo di un’isterica, ma come attaccamento alle cose umane. Mi interessa tanto la salute dell’Anima Umana. Tanto. E non so il perché, non me lo chiedo neppure il perché. Sento solo che bisogna farci caso, bisogna starci sotto, bisogna tenerci. Davvero. 

Passare sopra alla mediocrità come se fosse di default una parte di noi è da pusillanimi. Da perdenti. 

Girarsi dall’altra parte quando l’invidia, la cattiveria, la violenza si esplicita è disumano. Non ha niente a che fare con noi, con il nostro Cuore, con la nostra Anima. Niente proprio. Ce la raccontiamo perché non vogliamo rogne. Ma ce la stiamo comunque raccontando male perché mortifichiamo la nostra parte bella. Quella che non fa casino, magari, ma che non vede l’ora di esplicitarsi. Non sgomita, e forse sarebbe il caso lo facesse, ma è un attimo tirarla fuori e far stare bene tutti. Noi e gli altri.

In che stato sei Babs? In quello che non accetta la rassegnazione come politica, l’indietreggiare come opzione, il nascondersi come strategia. Se vi sembro incazzata, allora va bene. Se volete andare un po’ oltre, però, sarebbe meglio, perché dentro di voi risuonate come me, soltanto che non ve lo confessate. Pensate di non potervelo permettere. Non è così. Altrimenti sareste morti. E ancora non lo siete. Ricordatevelo: ancora non lo siete.

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(854) Rimbalzare

Dicesi Arte del Rimbalzo quell’attività messa in atto da chi ha zero voglia di sbattersi quando gli chiedi di fare qualcosa. Sarebbe loro dovere farlo, ma abilmente trovano il modo di sviare l’incombenza e buttarla addosso a qualcun altro. C’è chi fa di quest’arte una ragione di vita. Da queste persone bisognerebbe stare alla larga o se ci devi fare i conti tutti i giorni bisognerebbe armarsi di mazza da golf per sacagnargli [trad. dal friulano italianizzato “frantumargli”] i malleoli. Come si meriterebbero.

Badate bene: se è uno sport che state praticando al momento, non il golf intendo il rimbalzo, vi auguro di trovare qualcuno che vi fermi con una certa veemenza. Siete pericolosi per l’ecosistema terrestre, sappiatelo.

In natura ogni cosa ha una sua funzione. Ogni Essere Vivente ha una sua funzione. Ogni evento ha una sua funzione. Nessuno si immagina di schivare ciò che gli compete, tranne alcuni Esseri Umani inetti che pensano di adossare agli altri i propri fardelli.

A nessuno fa piacere avere rotture di palle, ma tutti le hanno. Quotidianamente, senza sosta. Se ho un problema che non so risolvere, ma tu lo puoi risolvere perché è il tuo compito, rimbalzare la rottura a qualcun altro è per lo meno cafone. Il rimbalzo offende l’intera filiera. Chiaro il concetto?

Quando qualcuno viene da me chiedendomi di risolvergli un problema che è parte delle mie competenze, del mio lavoro, non chiamo qualcun altro a risolverlo, mi ci metto. Perché è così che dev’essere. Non c’è altra opzione. Se non ci riesco, se non basto io, allora chiamo chi è più bravo di me e può sistemare la cosa. Ma non lo faccio a prescindere. Non lo faccio con l’intenzione di lavarmene le mani. Non lo faccio perché mi sento più furba, più smart.

Sto parlando dell’ambito professionale/lavorativo perché è dove ci sono più rimbalzatori seriali che altrove (sospetto che sia soltanto il luogo in cui si fanno scoprire più facilmente), ma credo che chi lo fa sul lavoro sia abituato a farlo anche nel privato. Si giocano l’asso ogni volta che possono, alzando le spalle e pensando “Sticazzi, arrangiati, fallo fare a qualcun altro”. Così facendo impallano tutto il sistema del dare-ricevere che fa girare il pianeta.

Non stiamo parlando di generosità, sia-mai, stiamo tirando in ballo la coscienza di esserci anche se non è piacevole, anche se non è facile, anche se non è comodo, anche se ti girano le palle, anche se preferiresti andare a nuoto fino in Antartide, anche se hai mille altre buone ragioni. Non me ne frega niente. Pure io ho le mie buone ragioni per non fare, ma non le uso a scapito di qualcun altro.

L’Arte del Rimbalzo è davvero Arte quando la si usa con chi se lo merita e non a prescindere da tutto e tutti. Altrimenti si chiama lavarsene-le-mani, e Pilato è l’unico che è passato alla storia per averlo fatto e non per merito suo, ma per averlo fatto con la persona sbagliata. Sia chiaro.

 

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(734) Rugiada

Ho dovuto imparare a scrollarmi la rugiada di dosso al mattino presto perché il lavoro lo devi andare a incontrare e non ti viene a svegliare a letto come faceva la mamma quando andavi a scuola. Sono un animale notturno, una civetta direi, e questo fa di me lo strazio che sono: comincio a carburare leeeeeeeeeeeentamente e non andrei mai a dormire perché durante le ore tarde il mio cervello – quando non troppo devastato dalla giornata – inizia a funzionare alla grande.

Il mattino, un tempo, lo detestavo. Dovevo alzarmi per fare quello che odiavo fare. L’indolenza adolescenziale me la sono lasciata alle spalle, ma mi è comunque ostico il pensiero che la sveglia puntata alle 6.00 sta suonando e io non posso far finta di niente. Dentro di me l’imperitura lotta fra il chissenefrega e il fai-il-tuo-dovere è sempre cruenta come allora. Stoicamente mi alzo, stoicamente mi butto in doccia, stoicamente arrivo all’auto e affronto la solita coda in tangenziale. Tutto peeeeerfetto.

Mentre percorro gli oltre 30 chilometri per recarmi in ufficio butto lo sguardo sui prati e sul ciglio della strada e quella rugiada che luccica pare un po’ la mia, quella che mi sgocciola dentro. Alla fine sono uguale a un filo d’erba. Considerazione illuminante, vero?

Senza crogiolarmi troppo in quest’ultima immagine, faccio presente che comunque preferirei essere a Bali e godermi il paradiso terrestre, che comunque penso che il mio mattino non abbia l’oro in bocca ma a malapena un ettolitro di caffè da ingurgitare, che comunque ‘sta cosa del viviamo di giorno e dormiamo di notte dovrebbe essere un’opzione e non un’imposizione, che comunque avrei preferito fare la rockstar che qualsiasi altro lavoro al mondo… ma.

Ma il mio cervello in parallelo pensa già a come affrontare ogni punto della lunga lista di cose da fare, a come risolvere quel tal problema, a che idea aggiungere alla presentazione che sto lavorando e via di questo passo. Il mio cervello, la parte che funziona e che non si piange addosso, si formatta autonomamente per permettermi di funzionare – nonostante tutto, nonostante me – fino a notte inoltrata quando appoggio la testa sul cuscino e mi arrendo all’oblio.

Il mio cervello asciuga la rugiada senza neppure il bisogno di un fòn. E io dovrei essergliene grata. Molto anche.

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(591) Brivido

Quelli che preferisco, quelli positivi, ormai non li provo più da millenni. Bah, sarò diventata cinica. Sarà che a forza di tirar su muri protettivi alla fine te ne freghi anche dei brividi. Basta che non ci siano casini, il resto va tutto bene.

Non mi passano, invece, quelli negativi, quelli legati a degli eventi allucinanti che non potevi neppure immaginare potessero accadere. Quelli non passano, nonostante il bombardamento mediatico ci metta il carico da cento per costringerti all’assuefazione. No, non mi farete addormentare prima della mia fine estrema, non ci riuscirete per quanto vi potrete impegnare. Omicidi, eccidi, assoluzioni, indifferenza, assurdità inenarrabili… una lista infinita.

Quando la realtà fa schifo, e tu te ne rendi conto che fa schifo, puoi fare due cose: o te la racconti in modo da fartela piacere oppure fai del tuo meglio per cambiarla affinché non ti faccia più tanto schifo. Si possono contare sulle dita di una mano le persone che scelgono la seconda opzione, lo sappiamo bene. Perché sono così pochi? Perché è faticoso e può essere anche frustrante e snervante. Potresti non arrivare mai a ottenere neppure la metà di quello che speri, nonostante i tuoi sforzi e la tua fede. Cosa da pochi, da chi c’è nato così e non riesce a inventarsi un modo di essere diverso da questo. Quando non hai scelta, il libero arbitrio è dettaglio ininfluente.

Raccontarsela per farsela piacere, invece, è lo sport nazionale. Noi italiani siamo dei maestri in questo e possiamo fare scuola a chiunque. Mi vengono davvero i brividi quando incontro storie deliranti, facilmente demolibili, che vengono portate avanti con prepotenza, e contro tutti, soltanto per non ammettere la realtà delle cose. Perché la realtà delle cose non si fa insabbiare facilmente, ritorna in superficie appena può. La codardia, la furberia, la castroneria – anche quando condivisa dai più – rimangono lì a far mostra di sé. Non si cancellano.

Sono brividi brutti e non passano. Ecco, questa realtà delle cose non riesco a raccontarmela in modo che mi piaccia. Non ci riesco proprio.

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