(952) Ospitalità

Dare accoglienza è uno dei grandi piaceri dell’incontro tra gli Esseri Umani. Noi  contemporanei ce lo siamo dimenticato. Sono cresciuta in una famiglia dove all’ospite veniva riservato il cibo migliore, i sorrisi migliori, e il tempo che lui stesso decideva bastasse. Ti mettevi a disposizione di qualcuno che poteva fregarsene di quanto risultava inopportuno o invadente, tu facevi comunque il tuo dovere. Se l’ospite ne approfittava, non riceveva più alcun invito. Ognuno a casa sua.

Questo imprinting è difficile da bypassare, ma non mi dispiace. Parla di totale rispetto dell’altro, in quanto persona ospitata, senza condizioni. Una cosa proprio generosa, una cosa senza senso per i criteri odierni. Ripeto: non mi dispiace affatto di aver imparato a tenere questa posizione, credo sia una grande lezione.

Ho anche imparato, sempre grazie alla mia famiglia, a come ci si deve comportare a casa degli altri: non toccare niente, non parlare ad alta voce, non occupare troppo spazio e non restare per troppo tempo. Il giusto. Seguendo ancora oggi queste semplici regole mi sento a posto con me stessa. Il rispetto non è una parola di concetto, ma di fatti. Piena di piccoli fatti che costruiscono e danno sostanza al concetto.

Sono stata fortunata a crescere in una famiglia che mi ha saputo guidare in questa visione dell’altro-che-non-sono-io. Molto fortunata.

Riflettendo su questo è ovvio che altre culture, altre usanze, altre tradizioni, altre teste possono seguire altre vie –  chi più pudiche, chi più sfacciate – e queste differenze possono causare tensioni e fraintendimenti con conseguenze spiacevoli. Possono. Eppure, se mi rifaccio al mio benedetto imprinting, lo posso comprendere e lo posso maneggiare senza per questo pensare che io sono nella ragione e gli altri – quelli diversi da me – nel torto. Perché il mio spazio me lo curo e me lo proteggo senza fare drammi, per piccoli spostamenti. Perché sono un Essere Vivente e in quanto tale sono in perenne movimento, perché la vita si muove dentro di me e con me (a volte anche contro il mio volere, ma sono una pigra, ormai è risaputo).

In poche parole: benvenuti a voi, chiunque voi siate… ma non sbattete la porta, parlate a volume normale e siate discreti, così che io vi possa accogliere sempre con enorme piacere. 

 

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(640) Insulto

Non è bello, lo so. Quando insulti qualcuno è il tuo disprezzo che gli butti in faccia, non è bello. Con arroganza ti poni sopra di lui di almeno tre livelli e gli urli che è un essere inferiore, non è bello. Poi ti senti in colpa, ti rendi conto che potevi risparmiartelo, che come ti diceva tua nonna “ti metti al suo livello e perdi la ragione”, che se avessi fatto un respiro profondo, se avessi canticchiato una canzone, se ti fossi fatto un giro per smaltire il nervoso, se… se… se…

Eppure.

T’è uscito di bocca proprio perché te lo hanno tirato fuori con le pinze, proprio non c’era modo di confrontarsi, di discutere alla pari, di cercare un punto d’incontro per costruire un dialogo. Niente. Niente di niente. E dall’altra parte la tracotanza, la spavalderia, la presunzione, la spocchia, tutto troppo – veramente troppo. Perché c’è gente che non fa così, è così. C’è gente che non si è mai presa un pugno in faccia quando ha esagerato, quando ha tirato fuori la sua immondizia personale per buttarla addosso a qualcuno. Se si fosse preso almeno un pugno si sarebbe fermato a riflettere: oh, che male. Non certo: oh, che coglione che sono, me lo merito. No, quello sarebbe chiedere troppo, ma il dolore fisico ti fa fermare un attimo a riflettere su se stesso (entità, persistenza ecc. – cose tecniche che occupano una certa quantità di neuroni per essere comprese) ed è già qualcosa, no?

L’insulto, in questi casi, è catartico. Raccoglie in sé la potenza dell’esasperazione, l’esaurimento delle scorte di tolleranza, il deficit empatico che quando viene a mancare non ce n’é più per nessuno. L’insulto, quello sentito nelle viscere, quello che fa un sacco di strada prima di uscire dalla bocca perché passa anche dal cervello, insomma l’insulto vero ha bisogno di calma interiore per estrinsecarsi in tutta la sua forza. L’insulto che libera e solleva è quello che non si urla, che non si sputa, che non si involgarisce con un linguaggio becero e non va a toccare le debolezze del destinatario. L’insulto che intendo io è quello che sublima il pensiero e lo porta a un livello tale che chi lo riceve – per via dei pochi neuroni disponibili – manco se ne accorge che è stato offeso. Il tono della voce controllato, il volume impostato su frequenze medio basse, la scelta della parola che non stroppia, che non cola da nessuna parte, che non intacca minimamente la pienezza del concetto che il mittente vuole traghettare e che sente di dover farlo usufruendo di ogni sua risorsa: questo è l’insulto che innalza, innalza chi si prende l’onere di dargli voce e persino chi lo riceve.

Quindi, tutta la masnada di politicanti della domenica che affollano il nostro Parlamento sono davvero dei pivelli, neppure degni di essere presi in considerazione. Hanno zero classe e zero preparazione per quanto riguarda gli insulti, si dovrebbero vergognare. Non hanno mai preso un pugno in faccia e non hanno mai potuto riflettere su quello specifico dolore e tutto il resto.

Poveri loro. Poveri noi.

 

 

 

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(600) Idiosincrasia

Detesto quando le persone urlano. Detesto me stessa quando perdo il controllo e mi metto a urlare. Mi succede raramente e – dal mio punto di vista – sempre per una buona ragione. Eppure, quando mi succede non me lo perdono.

Ci sono persone che urlano appena si svegliano al mattino, con chiunque capiti loro attorno, e che smettono di urlare quando si addormentano la sera. Urlano anche quando sono felici, perché un altro tono di voce non ce l’hanno o perché sono sorde e non si rendono conto di quanto stanno gridando anche solo per chiedere mi-passi-il-sale.

I miei vicini di casa fanno così e io sto, mio malgrado, ascoltando ogni dannato scambio verbale che accade in quella casa. Non sono affari miei, ma lo diventano se mi sveglio al mattino con il mal di testa (e non per un post-sbornia) e mi addormento con i tappi nelle orecchie perché di là c’è una riunione di capre urlatrici. State zitte! Zitte! Zitte! Zitteeeee!

La vostra voce a un certo punto ne avrà abbastanza e se ne andrà. Se ne andrà per non ritornare più e avrà la mia benedizione. La vostra voce se ne fotterà di voi, almeno quanto voi ve ne siete fottuti di lei. E io la benedirò.

Non si può buttare addosso agli altri la nostra rabbia, la nostra frustrazione, il nostro veleno, il nostro male di vivere, non si può! E se non si può farlo con gli estranei, figuriamoci con le persone che ci sono vicine, NON si può!

Sei giustificato a urlare solo se tra te e gli altri ci sono chilometri di distanza, solo se si tratta di vita o di morte. Le persone devono essere trattate con gentilezza e la gentilezza non alza mai la voce. Le persone per ascoltarti devono avvicinarsi a te, devono prestare attenzione alle tue parole e ai suoni che le accompagnano e per far sì che accada tu devi permetterglielo mantenendo il volume della tua voce in modalità normal, a volte persino soft. Non puoi sbattere in faccia frasi a 1.000 decibel aspettandoti che vengano ascoltate. La gente, sì, può fare quello che tu le ordini di fare quando glielo urli in faccia – chi non ha il coraggio di darti una testata, almeno – ma l’ascolto è un’altra cosa.

L’ascolto è il risultato di una dinamica delicata che ha origine nella fiducia, cresce nell’interesse, e si espande con l’attenzione.

Vabbé, fiato sprecato. Buonanotte.

 

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