(1018) Smalto

Chi mi conosce sa che mi piace lo smalto sulle unghie. Chi mi conosce sa che i miei colori preferiti è lì che vanno a finire e spesso accompagnano i miei vestiti. Chi mi conosce non sa perché di questa mia ossessione, non l’ho mai spiegato a nessuno, e ovvio che nessuno me lo abbia mai chiesto, ma oggi lo voglio scrivere. Perché? Non lo so, lo scrivo e basta.

È stata una conquista che mi sono guadagnata da adolescente smettendo di rosicchiarmi fino al dolore sanguinante le unghie. Lo facevo perché ero ansiosa (e ansiosa lo sono ancora), ma mi piaceva lo smalto che decorava le unghie delle mani di certe donne che vedevo attorno a me e quindi mi sono decisa: basta rosicchiarmi le unghie e via con lo smalto!

Una volta conquistata la meta non sono più tornata indietro.

Se faccio un rapido calcolo mentale mi è evidente che ogni volta che conquisto una meta poi me la tengo stretta. Mi scoccia troppo ritornare indietro. Vado avanti, mica sono un gambero! Quindi posso affermare, senza dubbio alcuno, che quella mia prima vittoria sia stata fondamentale per la crescita. Soprattutto grazie alla dinamica che ho saputo mettere in atto.

Scegliere il blu o il viola, il rosso (raramente) o il nero, e procedere con l’operazione senza delegare a una professionista la questione manicure, è una delle azioni a cui mi dedico con più attenzione. Come se in quei gesti risiedesse la mia promessa: vai e prenditi quello che vuoi. E il mio impegno: per avere quello che vuoi devi saper rinunciare a qualcosa. E la mia perseveranza sostenuta da una presa di coscienza semplice: puoi.

Sembrerà tutto molto stupido, me ne rendo conto. Ma le persone stanno su per queste cose stupide, mica perché fatte di cemento.

Sottovalutare le cose stupide non è una buona idea. Mai. Credo.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(792) Pubblico

Davanti a un pubblico bisognerebbe porsi con rispetto. Rispetto per se stessi e per il pubblico, intendo. Sei lì sul palco e chiedi l’attenzione di persone che molto probabilmente non conosci di persona eppure sono lì per te – se sono lì per te significa che in qualche modo loro ti conoscono e comunque hanno voglia di conoscerti meglio – se non sono lì per te, ancora peggio. Più rigore in quello che dici e nel come ti poni. Più accuratezza, più oculatezza, più sensibilità.

Non è che sei al bar e puoi permetterti di sparare le minchiate che ti passano per la testa senza preoccuparti delle conseguenze e del peso di quello che butti addosso agli altri, sei in una posizione che ti impone responsabilità e decoro. Poi se riesci a brillare tanto meglio, ma nel caso non ci riuscissi almeno sei stato dignitoso. 

C’è un bel po’ di lavoro da affrontare prima di potersi affidare a un pubblico. Preparazione, di pensiero e fisica, e costruzione dell’evento. Non vai sul palco e t’inventi qualcosa, non lo fai neppure se sei un professionista navigato, non lo fai perché sarebbe irresponsabile, pericoloso, insultante. Lo sai e non lo fai, non ci pensi neppure. Se lo fai significa che sei un presuntuoso e non sei il professionista che dichiari di essere.

Ci vogliono delle doti per stare su un palco che non hanno nulla a che vedere con l’aspetto fisico – la bellezza intendo – ma con quello che ti porti dentro. Il carisma non è cosa da tutti, ma la presenza uno se la può costruire costruendo se stesso non per apparire ma per essere, essere al meglio delle proprie possibilità. Discorso lungo, lo so, però a certe cose bisogna pensarci, non ci può andare bene tutto, non possiamo farci andare bene quel che il nostro innato senso del giusto e della decenza registra come oscenità. Perché lo è, lo sono. 

Ci lasciamo convincere da quattro idioti che va bene così, ma non va bene così. Lo sappiamo, le nostre viscere ce lo urlano eppure dubitiamo. Perché ci facciamo trattare da idioti? Perché? Perché? Perché?

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(748) Radio

Stavi lì ad aspettare che qualcosa arrivasse per farti vibrare un po’. Sapevi quale emittente era più vicina ai tuoi gusti, riconoscevi quelle voci che a farti compagnia ci mettevano un istante e quando salutavano un po’ ti dispiaceva però il giorno dopo alla stessa ora le ritrovavi lì, per te. Questa era la radio che amavo. 

Non immaginavo che un giorno avrei finito con il tenere compagnia a qualcuno (magari molto lontano) allo stesso modo, in una situazione quasi uguale (il podcasting). Eppure l’ho fatto. Non da professionista, ma è andata bene uguale.

Non immaginavo che una volta appeso il microfono al chiodo avrei sentito questa nostalgia. Mi domando se sia ego o cos’altro. Mi manca preparare la puntata, mi manca creare qualche cosa che abbia senso per me e che sento il bisogno di condividere solo per il fatto che prima era soltanto nella mia testa e poi tocca le orecchie di qualcuno chissà dove e chissà quando. Non lo so spiegare meglio, forse non serve.

Non nascondo che avevo deciso di terminare la mia esperienza perché mi mancavano le forze, non riuscivo più a trovare il tempo per dedicarci quell’energia che mi richiedeva. Pensavo di avere detto tutto, molto probabilmente in quel momento non avevo più niente da dire. Mi dimentico spesso che le cose cambiano, e possono cambiare lentamente o meno, dentro di me possono cambiare molto velocemente – tanto che i cambiamenti esterni mi sembrano lunghi da morire.

Ho voglia di ricominciare a dire, di farlo meglio e di farlo ora. Non so dove troverò l’energia ma in qualche modo arriverà. Ogni partenza spaventa un po’, sembra quasi troppo quello che ci aspetta. Raramente è così.

Quindi l’unico modo per partire è… partire. Adelante Sancho!

Share
   Invia l'articolo in formato PDF