(545) Proposta

Quando la proposta non è all’altezza delle aspettative… delusione atroce. Vien facile dire “colpa tua che ti crei le aspettative”, guarda che quelle si creano da sole quando dall’altra parte si evocano grandi possibilità e velate premesse. E non sto parlando di promesse d’amore (chi ci ha mai creduto a quelle?), sto parlando di promesse professionali, quelle che partono da discorsi di grande stima e poi si rivelano essere soltanto discorsi di grande interesse personale e basta.

Ci stavo pensando oggi, così, senza nessun appiglio sul presente, in un flashback che mi ha un po’ disturbato. Avevo sempre pensato di essere io quella che si fa prendere dall’immaginazione e vola troppo in alto, e invece potrebbe anche essere che la responsabilità vada dimezzata: 50% per uno. Io che ascolto le tue chiacchiere e che mi creo aspettative, tu che mentre chiacchieri fai in modo di crearmi aspettative. Chi è più infame? Dai, facciamo due conti e facciamoceli bene.

Quello che si evoca ha grande peso nella mente nostra e degli altri, manovrare le evocazioni per proprio interesse (e magari a danno dell’altro) è criminale. Mano a mano che arrivano proposte indecenti (che non si possono neppure sentire, ma vengono portate a te come fossero grazie ricevute e solo in parte meritate) e tu scopri l’inganno, si chiude una porta dentro di te, poi una finestra, poi un’altra finestre e via di seguito. Rimanere chiusa dentro al buio è un attimo.

Pertanto, bisognerebbe che le proposte fossero soppesate bene, bisognerebbe fossero calibrate bene, bisognerebbe smetterla di pensare che le persone siano sempre troppo stupide e quindi pronte per essere prese in giro. Bisognerebbe. Non lo dico solo per un fatto di pulizia morale, ma anche per un mero calcolo delle probabilità: prima o poi qualcuno potrebbe rispondere alla tua proposta con un pugno in faccia. Questo ti auguro, chiunque tu sia, perché approfittarsi dei sogni degli altri è criminale. Tu sei un criminale, e anche se un pugno non sarà certamente abbastanza per farti cambiare intento, almeno per un paio di giorni non starai proprio benissimo. Un paio di giorni son poca cosa rispetto al buio che tu hai contribuito a creare dentro una persona che sta solo cercando la sua piccola felicità.

E sto pensando a tutti i ragazzi e le ragazze che si fanno abbindolare e che si danno in mano a psicopatici viscidi e schifosi. Bastonate sui denti, ogni mattina, per ogni vittima macellata. Dovete per forza sentire il dolore, se non quello dell’anima almeno quello della carne.

Sbang.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(160) Arcobaleno

Lo catturo negli occhi dei ragazzi, di tanto in tanto, quando si dimenticano di fare finta di niente e cascano nella rete del “forse posso”.

Forse posso farlo, forse ce la faccio, forse se ci provo mi potrebbe pure riuscire.

Non sono mai io a dubitare, sono loro stessi a dubitare delle loro capacità. Mollano ancora prima di provarci perché pensano che la delusione di una sconfitta bruci troppo. Non vogliono sentire dolore.

Spesso il dolore è più forte quando lo immagini di quando lo attraversi, spesso se non lo attraversi non lo puoi sconfiggere. Un’immagine difficilmente si fa sconfiggere e quando tu sopravvivi al dolore ti senti forte e pronto a fare meglio.

Oggi gliel’ho dimostrato e ho visto l’arcobaleno nei loro occhi. Bellissimo.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(154) K.O.

Stamattina ho iniziato gli incontri alla scuola media (per il quarto anno), io davanti alle classi prime. Il 90% dei ragazzi si ricordavano di me, con un gran sorriso, e delle storie che abbiamo scritto insieme in quarta elementare.

Ho ripreso da lì dove avevo interrotto: scriviamo una storia insieme. Hanno ripreso il filo subito, mi hanno seguito a rotta di collo per due ore filate.

“Ritorni il prossimo mercoledì?”, la domanda di tutti.

Affermativo, ragazzi. Porteremo a casa anche questa volta la nostra storia, che è vostra e che sarà uno spettacolo. Promesso.

[Lo faccio per questo, è una bellezza che toglie il respiro. Giuro.]

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(147) Apatia

apatìa s. f. [dal lat. apathīa, gr. ἀπάϑεια «insensibilità», comp. di – priv. e πάϑος «passione»]. – 1. a. Stato d’indifferenza abituale o prolungata, insensibilità, indolenza nei confronti della realtà esterna e dell’agire pratico. 2. Nella filosofia antica, stato di perfezione contemplativa dello spirito, che attraverso l’esercizio della virtù consegue la libertà interiore intesa come indipendenza, indifferenza e imperturbabilità rispetto alle passioni e alle emozioni umane, ai piaceri sensibili, agli eventi esterni in genere, secondo un ideale di saggezza sostanzialmente unitario propugnato in età ellenistica da cinici, stoici ed epicurei e variamente recepito e discusso dai Padri della Chiesa e dagli apologisti cristiani.

Durante tutta la mia adolescenza mi sono sentita ripetere che ero un’apatica. Non una volta ogni tanto, proprio tutti i sacrosanti giorni (a casa e a scuola) c’era qualcuno che me lo faceva notare: “Sei proprio un’apatica!”.

No, nessun filosofo antico tra di loro, quindi è il primo significato del dizionario Treccani quello inteso e scelto appositamente per me.

Ora: non c’era niente al mondo che mi facesse arrabbiare di più. Dentro di me sentivo una furia devastatrice che avrei scatenato volentieri contro chiunque osava offendermi – a essere un po’ più coraggiosa. Non l’ho mai fatto, non perché fossi buona, solo perché ero così ferita che preferivo fare l’indifferente e procedere sulla mia strada. Sembrava, appunto, che nulla mi toccasse, mentre dentro ero rotta in mille pezzi.

Non ero apatica, ero semplicemente un’introversa, una che preferiva viversi nel privato i propri universi paralleli perché convinta che a nessuno interessasse. In effetti, era così. Raramente a un adulto interessa scoprire gli universi paralleli di una/un adolescente. Ancora è così.

Oggi mi sono trovata davanti a una classe che mi ha fatto ripiombare nei miei anni bui dove archiviarmi come apatica risolveva molte menate ai miei professori e anche alla mia famiglia. Solo che ero io, lì davanti a loro, e stavolta ero io l’adulta. Mi sono resa conto in quell’istante che a me importava parecchio dei loro universi paralleli e non sapevo come fare per scuoterli. Ero convinta che quell’apparente apatia fosse solo apparente. Solo apparente, diavolo!

Possibile io abbia fatto un mero transfert e che quello sperimentato in aula fosse ben più che apparente, ma non me la sento di sentenziare qui e ora sbattendo la porta in faccia alla possibilità che non sia così. Forse, con un po’ di pazienza, quel muro si può far sgretolare. Non perché io voglia per forza avere ragione, ma perché ho colto un paio di sguardi e un paio di sorrisi che mi fanno immaginare che lì c’è qualcosa di vivo e sono decisa a capire se è così per davvero.

PS: da molti anni nessuno pensa a me come a un’apatica. Ammetto che per dimostrare al mondo che non lo ero mi sono dannata l’anima a fare fare fare. No, non va bene, ma certe cose che ti porti addosso finiscono per determinarti. No, non va bene, ma solo quando te ne accorgi puoi iniziare a fare diversamente. Non prima. Mai prima. Dopo.

 

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(145) Decifrare

Perdiamo molto molto tempo nel decifrare i messaggi che ci arrivano dagli altri. Troppo tempo. Ne risparmieremmo a quintali se mettessimo da parte il nostro orgoglio e la presupponenza limitandoci a chiedere.

Chiedere il come e il perché, per esempio.

Le risposte che riceveremmo ci aprirebbero la porta alla sorpresa, alla meraviglia.

Mi succede con i ragazzi. Chiedere il perché e il come fa tutta la differenza, in loro – per le risposte che cercano dentro di sé – e in me.

Una cosa ho imparato, però: se non sai ricambiare a dovere le risposte che ricevi (con apertura mentale e senso dell’umorismo) rischi di bruciarti l’unica possibilità di costruire un ponte tra te e loro.

Coi ragazzi è così. Anche con gli adulti è così. Tra Esseri Viventi è così: le domande si fanno se si è pronti a ricevere le risposte, di qualsiasi tenore siano. Siamo abbastanza coraggiosi per affrontare tutto questo?

L’unica risposta ammessa è: .

Sì, dunque.

Sì.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(134) Passione

In questi giorni mi ritrovo di nuovo a confrontarmi con aule piene di ragazzi della scuola superiore. Un’esperienza che non finisce mai di stupirmi, ho desiderato farlo per molto tempo ed è uno di quei desideri rischiosi che vale la pena concretizzare. Sono assolutamente grata per quello che sto vivendo (che si va ad aggiungere all’esperienza triennale in un liceo della mia zona che si è conclusa da poco).

Questa la premessa, ora veniamo al sodo: sono lì davanti a loro (chi incuriosito, chi infastidito, chi indifferente alla mia presenza) per parlare delle mie passioni (la lettura, la scrittura, la comunicazione, la creatività) scrutando i loro visi per capire se quello che sto dicendo va a segno oppure no.

In alcuni ragazzi sì, in altri no. Com’è ovvio che sia.

La cosa, però, che mi turba è che passione per loro è sinonimo di mi piace. Sono davvero pochissimi i ragazzi che sanno cosa vuol dire appassionarsi a qualcosa tanto da trovarci dentro la felicità. Io vorrei fosse ovvio per tutti, è assolutamente utopistico – me ne rendo conto – eppure non demordo. Parto sempre dal significato di passione per raccontare la mia storia e far arrivare a loro il messaggio: se non ce l’hai ancora una passione, è arrivato il momento di metterti alla ricerca, con il cuore aperto pronto ad abbracciare un pezzetto di felicità.

Sorridono, tutti, quando lo dico. Come se volessero davvero crederci, ma non ci riescono. Rimangono scettici. Un dubbio, però, rimane loro appiccicato addosso ed è lì che inizia il mio lavoro.

Sono pronta.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(113) Mente

Trovo abominevole che a scuola non si faccia neppure un minimo cenno a come funziona la nostra mente, la nostra memoria, la nostra logica (sì, neuroscienze in soldoni), credo sia abominevole.

Se un ragazzo non sa come funziona il suo cervello, come il suo cervello lo può gestire se non impara a gestirlo lui, come il suo cervello può salvarlo quando il suo cuore è a pezzi, come il suo cervello può essere la sua dannazione se non se ne prende cura e se non lo tratta in modo corretto, come diavolo può capire gli effetti devastanti sulla sua mente di una droga, dell’alcool e di ogni abuso in cui si potrebbe imbattere?

Facciamo innamorare i nostri ragazzi delle proprie menti, aiutiamoli a usarle bene, a guardarsi dagli inghippi cervellotici e a ampliare il più possibile la portata delle loro capacità.

Diavolo, facciamolo subito!

Share
   Invia l'articolo in formato PDF