(954) Sorso

Un sorso per volta ci si può bere tutto. Ti fai l’abitudine e impari a fare finta di niente. Il primo sorso può essere un bel trauma, ma al secondo sai cosa aspettarti e al terzo entri nell’ottica: ok, così è, vediamo di farci i conti e andare avanti.

Sorso dopo sorso ti convinci che non può essere che così.

Non è vero, è solo una delle scelte, forse quella che ti comporta meno sbattimento. Quelle coraggiose ti impongono un certo rigore e anche se al berti veleno a sorsate preferiresti ubriacarti di libertà, ti adegui.

Scolarsi un’intera esistenza senza soffermarsi a sentirne il sapore per raccontarsi che la vita è sofferenza e fatica, è ridicolo. Una brutta storia, semplicemente una brutta storia. Perché una storia bella, una che funziona davvero, è quella che ha alti e bassi, che ha gioia e sofferenza mescolate insieme, che ha momenti di tensione e altri di pace, che prevede incontri e scontri, salti e rincorse e stop. È ricerca dell’armonia e frustrazione del fallimento, è ballare contro vento e veleggiare nella tempesta. È poesia senza rime, prosa senza senso. A volte, e a volte no.

Un sorso di cielo grigio e un sorso di cielo terso riequilibrano l’umore, gli eccessi fan bene solo se sporadici e di breve durata. Credo. 

E poi il resto si inventa. Sorso dopo sorso.

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(837) Complimenti

Quelli sinceri fanno bene. Mentre fai non pensi che stai facendo un capolavoro, vedi quello che non funziona, quello che non va, quello che dovresti fare meglio e ti senti sempre in debito. Non è mai perfetto. Neppure vicino alla perfezione. Ma manco per niente. Scoramento.

E anche se vengono da te e ti dicono “che figata!” tu dubiti, non tanto di loro (non di tutti, almeno) ma di te, sempre.

Poi c’è chi si sente genio e allora il discorso cade, non ci sono mai sufficienti complimenti e sviolinate in grado di riempire i containers del loro ego. Beati loro. Vivere da geni dev’essere fantastico. Specialmente se non lo sei, basta esserne convinti e il mondo si dispone per darti retta. Cosa può fare un buon carisma, neh?

Fatto sta che negli ultimi anni ho imparato a darmi una pacchetta sulla spalla ogni tanto e a farmi un complimento quando proprio la soddisfazione raggiunge il 70% del tutto. Una percentuale onorevole, il top per me. Un’altra cosa che ho iniziato a fare è stare più attenta riguardo a chi me li fa. Se sei un mezzo idiota, il tuo complimento scivola via tranquillo senza lasciare traccia. Se sei un pezzo di merda, il tuo complimento mi infastidisce (ma come? Sarò mica anch’io un pezzo di merda? Oppure pensa che io sia così stupida da crederci?). Soltanto se sei una persona a posto mi lascio toccare dalle tue parole. Potresti anche mentirmi soltanto per farmi contenta, ma lo faresti a fin di bene. Non la berrei, ma apprezzerei il tuo buoncuore. Se nelle tue parole c’è pure sincerità, allora mi commuovo. Funziono così.

Va da sé che funziono allo stesso modo anche per le critiche. Soltanto che quelle cattive le riconosco dopo molto molto molto tempo. Non catturo subito il veleno dell’intento, mi fermo sul concetto. Anni fa ricevetti una valutazione per un mio lavoro talmente ingiusta che pensai di averla anche inconsciamente rimbalzata. Non era così. Quel veleno m’era entrato nel cervelletto e si era posato lì rilasciando le tossine senza che io me ne accorgessi. Qualche giorno fa me ne sono accorta. Porca miseria.

Le critiche giuste me le lavoro per bene, ci sto attenta, mi fanno essere più scrupolosa, più severa con me stessa. Non dico che mi fanno felice, ma colpiscono la mia più grande ambizione: essere brava. Anzi, dannatamente brava. E siccome mi rendo conto di non esserlo abbastanza allora le critiche assennate mi spronano a fare meglio. Ne ho ricevute tantissime di questo tipo e hanno fatto tutte il loro porco effetto. Pure troppo, direi. Ma benvenga un po’ di sofferenza altrimenti che vita sarebbe? Eh.

Detto questo vorrei aggiungere un’altra piccola cosa: i complimenti che faccio a me stessa sono i miei preferiti. Mi trovo una persona assennata e piuttosto obiettiva, quindi non metto in dubbio la sincerità della mia esternazione. D’altro canto mi conosco da una vita e se fossi davvero un pezzo di merda mi sarei già gettata nel cassonetto da un bel po’.

Eh.

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(797) Tacere

La gestione del tacere non è cosa di poco conto. Un maldestro calcolo dei tempi e dei modi può rovinarti la vita. All’opposto, saper maneggiare ad hoc la capacità di dosare il tacere può salvarti la vita. Quindi?

Ho una voglia maledetta di fottermene e di dire quello che penso, in questo ultimo periodo. Fanculo alle conseguenze, il tacere a prescindere – per paura delle conseguenze – può anche farti andare in pappa il cervello (per non parlare dell’amor proprio). Quindi?

Dovrei farlo, dovrei semplicemente dire alle persone interessate quello che penso di loro e del loro atteggiamento, dovrei sbattermi del politically correct e dell’educazione a ogni costo e dovrei semplicemente far presente le mie ragioni. Niente insulti, soltanto le mie ragioni – che garantisco sono piuttosto ragionevoli – e poi andarmene. Capiti quel che capiti, mi tolgo dalle balle e via. Quindi?

Quindi che ne so! Sono un’artista dello stare al proprio posto, evitare discussioni e via di questo passo. Anni e anni e anni di training. Ora vado a scoprire che questo diavolo di autocontrollo non mi ha reso che frustrazioni e furibonde incazzature con me stessa… a che pro? 

La questione delle conseguenze è bastarda perché, in realtà, non è che preventivare le conseguenze sia una scienza esatta, tutt’altro! Ti fa immaginare come potrebbe andare a finire e basta. Ti fa riflettere, ti fa valutare meglio la portata delle tue azioni, tutto qui. Le conseguenze che mi fanno chiudere la bocca sono quelle che provocano sofferenza, perché odio essere causa di mortificazione o delusione o che ne so io. Però ci sono situazioni che ti impongono di parlare, di asserire, di far presente con forza che il tuo pensiero è diverso e che la vedi in altro modo e che non ti sta bene così. 

Non mi sta bene così, non funziona con me. 

Ecco, questo potrebbe essere l’unico appiglio per incentivare in me un cambiamento di assetto senza scompigliare troppo la mia indole pacifica. A che pro? Perché tacere può sbriciolarti l’Anima oltre che il fegato. Taci quando hai torto, taci quando non hai opinioni al riguardo, taci quando ti uscirebbero soltanto cattiverie gratuite, taci quando non sei sicura di affermare il vero, taci quando quello che vuoi dire potrebbe scatenare l’inferno senza creare utilità a nessuno (magari parli in un secondo momento), taci se sei furiosa e hai pensieri confusi che uscirebbero male e verrebbero fraintesi. Ecco, questi sono buoni motivi. Ma non tacere quando qualcuno ti calpesta, quando vedi la verità umiliata, quando le bugie prendono il sopravvento, quando quello che vivi ti fa urlare “basta!”, quando qualcuno te lo impone perché pensa che tu non abbia nulla di interessante da dire. Tacere solo perché la tua coscienza te lo impone, non per altro.

Questo funziona per me. Così mi sta bene.

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(685) Compagnia

Essere in compagnia non mi è mai bastato, essere in buona compagnia ha valore per me. Piuttosto da sola che con le persone sbagliate. Essere in tanti mi fa girare la testa, essere in due mi pianta bene a terra. Posso ascoltare meglio, posso conoscere meglio.

Partendo da questi presupposti suono stramba e magari anche sfuggente, a volte. Per chi non sa di me, per chi non si cura troppo di sapere. Una volta ci facevo caso, ora non m’importa più. Nella mia crescita s’è inserito un certo distacco dal giudizio degli altri, gli altri a cui non serve guardare perché già sanno tutto. Beati loro.

E poi, quel essere-in-due che diventa coppia e diventa disegno di vita è una questione che tira in ballo troppe cose. Davvero troppe. Gli incontri nella vita li puoi forzare fino a un certo punto, i sentimenti non li puoi ritagliare per inseguire la moda o per combinarsi meglio con i tuoi interessi. Mi domando spesso se le mie scelte siano state dettate più dal mio volermi bene o dal mio volermi male, la risposta più sincera è che il bene ha finito per vincere su tutto. Era così che doveva andare.

Essere in due per non essere soli non funziona in nessun mondo, in nessun modo, per nessuno. Essere in due per colmare vuoti, per accomodare il quotidiano, per mettersi al riparo da ogni possibile tempesta: ingenui tentativi che preannunciano montagne di sofferenza. Non si mercanteggia con l’Anima, anche se ti sembra di averla convinta, Lei non cede. Tu sì. Se non subito, tra un po’, e Lei lo sa e ti aspetta lì, esattamente dove cadrai.

C’è solo un modo, per me, di immaginare di essere in due ed è quello che in una ipotetica foto mi mostra come sono. E mi mostra sorridente. Non ci sono compromessi, non ci sono preghiere, non ci sono miracoli all’orizzonte. Ci sono gli incontri, e un certo tipo di incontri non sono programmabili. E a desiderarli non si accorciano i tempi, tutt’altro.

C’è una sorta di ineluttabilità in tutto questo che non riesco ad accettare. Credo che il problema sia tutto lì. Maledizione.

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(597) Triciclo

Mi sono resa conto che ritornare al triciclo è un sacrificio che mi sta troppo stretto. Non lo so, forse perché siamo nati per soffrire e la vita è comunque una merdaviglia e siamo tutti masochisti e via di questo passo. Che ne so il perché. Non è che ogni volta che mi passa un pensiero per la testa, prima di scriverlo qui, io faccia grandi approfondimenti. Lo scrivo e mentre lo vedo scritto, spesso, mi rendo conto che c’è bisogno di fare un passo oltre il confine del non-ritorno. Così, tanto per rassicurarmi di non essere totalmente pazza, anche se dentro di me il dubbio è forte.

Non sempre riesco a rassicurarmi. Ovvio.

Vediamo, quindi, di capirci qualcosa: stavo andando in bicicletta da un po’, due ruote, e viaggiavo libera e felice-a-fasi-alterne (a seconda del terreno che incontravo, specifico che io sono donna-di-pianura-friulana) e devo dire che malgrado tutto me la stavo cavando discretamente. Certo, avrei dovuto accelerare per passare a un livello superiore e molto probabilmente in un periodo di sfinimento ho dubitato di me più del solito e questo mi è stato fatale. Quindi cos’ho fatto? Ho parcheggiato la bici e ho trasferito il mio deretano su un triciclo. Meglio per quanto riguarda l’equilibrio, ma non è che sia meglio in toto. I casi sono due: o soffro di labirintite oppure la libertà perduta mi sta giocando brutti scherzi.

In un caso o nell’altro sto soffrendo. Ma soffrendo perché? 

Non lo so. Davvero. Davanti a me le possibilità si aprono come quando sei proiettata dentro le maglie di Matrix, da perderci la testa. La prima naturale riflessione è: incredibile quanto la sofferenza sia sfaccettata! Quando sei felice non è che stai lì a misurare quanto e come, sei felice e basta. Per la sofferenza le cose non sono mai così semplici. Niente è come sembra, pillola rossa o pillola blu? Porca miseria, Morpheo, che domanda è? Se le smagliature nella tua realtà fittizia stanno andando in malora non è che puoi far finta di niente. O ti butti o vieni buttato fuori.

Chiudi gli occhi e passa tutto?

Vabbé, divagare non mi aiuterà a risolvere la questione, devo capire perché il triciclo che a due anni era la mia massima idea di libertà, ora è diventato un mezzuccio di poco conto. La bici mi faceva dannare, porco diavolo! Non me lo ricordo più? Cosa è successo alla mia memoria? Cosa mi è successo? Cosa? C?

Ora mi sparo tutti e tre i Matrix di seguito, la risposta è lì dentro, ne sono certa.

Caricamento.

 

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(464) Big-bang

Si fa presto con la teoria, in un Universo con dimensione zero e una densità di materia infinita. Ci si proietta in un inizio che non sa più neppure contare il tempo, dove il cervello perde capacità di tenuta e scivola via nell’intuizione fantastica, e fingiamo di non accorgerci dei micro big-bang che viviamo in prima persona, mentre dovremmo evolvere e non evolviamo!

C’è da rimanerne affascinati, incantati dalla dinamica energetica che ha le sue leggi e ha la sua crescita immutabile, eppure quando si compie è sempre il miracolo. Non osavi neppure sperare che da quella densità spropositata, dove ti senti implodere senza più ritorno, la forma si esplicitasse invitandoti ad accompagnarla. Se è lì, è lì per te. Se non la vedi, è per la paura di incontrare l’insondabile mistero che ti riguarda e che non puoi consegnare a nessun altro soltanto per disfarti di un peso.

Ma se osi, se ti fermi, se ti ascolti, se rimani lì, se credi che non è fine ma inizio, se ti dai un altro giorno prima di crollare, allora a un certo punto del processo riconosci l’inversione di rotta e dalla densità senza fine arrivi in pochi balzi all’apertura, al sollievo, all’incanto del “ci siamo, ci sono”.

Che poi l’Universo non ha bisogno di spiegazioni, l’Universo è. La vita non ha bisogno di spiegazioni, la vita è. Siamo noi Esseri Finiti ad averne bisogno perché spesso non siamo, non vogliamo esserci. E quanta sofferenza in questo viaggio, e ogni volta mi dico “ma sarai scema a stare così male, tanto mica muori!” e ancora non credo, ancora non mi affido, ancora non ci sono.

Mi do ancora una possibilità, ancora un incanto, ancora uno. Dovrò pur imparare qualcosa, prima o poi!

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(332) Crimine

Ogni Essere Umano dovrebbe considerarsi alla stregua di un luogo del delitto e transennarsi in modo da non permettere che nessuno oltrepassi i limiti. Perché? Perché tutti noi siamo vittime di un crimine, più o meno grave non fa alcuna differenza. Lo siamo tutti, senza distinzione di razza, di credo, di ceto sociale. Tutti.

Non ce ne rendiamo conto, ma siamo sempre così incazzati perché nel nostro subconscio lo sappiamo. Lo sappiamo, soffriamo, eppure non abbiamo il coraggio di denunciarlo: “Sono vittima di un efferato crimine e nessuno se n’è mai accorto!“.

Siamo incazzati per questo, tutti senza distinzioni di sorta. Quelli che lo sanno sono quelli che hanno subito i crimini più evidenti, dove i segni si vedono sulla pelle e ben oltre la pelle. Quando il crimine è sotto gli occhi di tutti, la società lo riconosce e la rabbia un po’ si attenua. Quel non-puoi-fare-finta-di-nulla non ti viene ributtato addosso con scherno e la tua rabbia trova un istante di pace. Se il crimine non viene percepito, riconosciuto, condannato dalla società… è come se non fosse mai successo. E qui la rabbia cova e s’ingigantisce fino a farti implodere o esplodere.

So con certezza che se non iniziamo a considerarci tutte vittime non potremmo mai provare vicinanza nei confronti degli altri. Chi si prende in carico il proprio dolore, smette di odiare, smette di covare rabbia, smette di augurare dolore al suo prossimo. Perché sa di cosa sta parlando, sa il peso di quella sofferenza.

Sto male e pertanto odio tutti? No, sto male e quindi auguro a tutti di non provare il mio stesso dolore. Tutto qui. Pertanto consideriamoci luoghi del crimine e proteggiamoci digerendo come si deve le nostre ferite. Siamo ancora qui, dopo tutto, giusto? Appunto.

 

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(65) Sollievo

Credo che la cosa che più vorrei donare a chiunque si trovi in una brutta situazione sia: sollievo. Sollevare da un peso, da una sofferenza. Sollevare il velo della disperazione per far indovinare che al di là c’è aria pura da respirare a pieni polmoni.

Libero da una preoccupazione, da un’ansia, da un timore. Ogni volta è un rinascere.

Il mio sollievo di oggi è immenso, ha profonde radici, ha ampi orizzonti. Guardo la fonte del mio sollievo e non posso che provare una profonda gratitudine. Si apre in me ancora la capacità di credere che è solo l’inizio e che il peggio è passato.

Ogni volta è un rinascere.

Poter essere di sollievo a qualcuno che ne ha profondo bisogno, credo sia la cosa più preziosa che si possa donare. Durasse anche solo un secondo, non importa. Quel secondo può espandersi in eternità e creare nuova vita.

b__

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(9) Posizione

Da bambina ho imparato una cosa importante: non si può avere tutto. O questo o quello. Tutto non si può. Credo sia stato l’insegnamento che più ha aiutato la mia resistenza alle avversità. O questo. O quello.

Va da sé che ogni volta mi sono trovata a scegliere tra quello che era giusto per me e quello che per me non era giusto, abbracciando sempre la prima ho capito presto che avrei dovuto rinunciare a un bel po’ di cose. Non ho cambiato la mia posizione neppure quando si trattava di perdere tutto quello per cui avevo lavorato. Se la mia pancia urla lo fa perché quello che vede non può accettarlo. Io seguo la mia pancia, anche se il cervello mi dice che non è saggio rischiare una perdita del genere.

Non è giusto essere calpestati. Non è giusto essere manipolati. Non è giusto essere usati. Non è giusto. Semplicemente non è giusto.

Mantengo la mia posizione.

Ho perso lavori importanti per questo. Ho perso persone importanti per questo. Eppure, dopo anni, posso affermare che forse non erano così importanti perché io sono ancora qui e la mia vita è migliore adesso.

Nel tempo ho notato che mantenere la mia posizione è sempre meno difficile. Insomma, so come si fa, so come si sta durante e come si sta dopo. So che poi troverò qualcosa che mi confermerà che quel giusto che mancava non poteva essere sopportato, accettato, ingoiato giorno dopo giorno per timore di ritrovarmi senza niente.

Io per me sono tutto, non niente. E da lì si riparte.

Si tratta di sentire dove inizia quel “non giusto” e metterci uno stop. L’ascolto ti può evitare tanta sofferenza gratuita.

Basta saperlo, no? Anche se sceglierai la sofferenza gratuita, sarà pur sempre una tua scelta e di nessun altro. Basta saperlo.

b__

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