(1036) Ordinario

Tutto quello che è ordinario sembra essere dovuto, ovvio. Magari. Magari fosse così. L’ordinario è la vittoria (di durata brevissima) dopo estenuanti giochi strategici che mirano a trovare la quadra dove c’è un tondo. Il tondo ritornerà tondo appena possibile e l’ordinario si trasformerà in straordinario. 

Straordinariamente fastidioso, scomodo e idrorepellente (non lo so, m’è venuta così e suona bene, la lascio, per ora).

L’ordinario ha fama d’essere piuttosto noioso e pedante, ma nel suo stare sulle sue è pur sempre rasserenante. Te lo aspetti, lo aspetti esattamente così e ci vieni a patti. Niente di esaltante, le emozioni sono questione del tutto fuori luogo per l’ordinario, ma almeno non vieni ribaltato dalle brutte sorprese. Tutto nella norma. Tutto perfetto.

L’ordinario non ti fa scherzi, sgambetti, tranelli. L’ordinario non ti prende a scappellotti appena volti la testa. L’ordinario si appoggia dove sa che deve (al suo posto) e avviene. Naturalmente. Senza scossoni. Senza drammi. Senza interesse alcuno per il mistero, l’avventura, l’Apocalisse.

Non so perché sia così sottovalutato, l’ordinario, d’altro canto quando si installa a casa tua rende il luogo un rifugio sicuro: nel bene e nel male (sai di cosa si tratta e ti adegui). Fatto sta che l’ordinario sceglie di andarsene appena ti sei seduto un po’, appena nota in te una mollezza che lo innervosisce e che non ti perdona. A quel punto prende e se ne va. 

Arriva al suo posto lo straordinario, che si porta appresso quel brivido oscuro che ti causa attacchi di panico notturni, tachicardia insensata, nausea e vomito a seconda dell’intensità della situazione. E allora sì, eccoti lì ad anelare il ritorno dell’ordinario. A rimpiangere il solito tran tran che ti faceva addormentare sereno e che ti evitava il Maalox e il Lexotan con annessi e connessi. 

L’ordinario se la sta godendo ai Tropici, dove neppure gli squali sono disposti a rendersi la vita complicata. E non si lamentano. Mai.

Meditiamoci sopra. Amen.

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(1016) Sogno

Nella nostra testa è tutto perfetto. Si chiama sogno. 

Ti immagini una situazione, ti immagini una persona, ti immagini un risultato. Costruisci il tuo sogno con dettagli che vanno a colmare ogni vuoto, ogni mancanza, ogni stortura. Perfetto. Nella nostra testa. Perfetto.

Nella realtà è il Caos. Si chiama proprio così: il Caos della Realtà. Che non è fantasioso, ma non ha niente a che vedere con la fantasia quindi pretenderlo è da idioti. La realtà è una mescolanza di variabili, incidenti e dio-solo-sa-che-diavolo che rende qualsiasi possibilità di sogno un disastro. Anche andasse tutto bene, ma proprio tutto alla grande, quando lo viviamo manca sempre qualcosa. È sempre meno bello di come sarebbe se fosse solo nella nostra testa. Manca di perfezione. 

Cosa facciamo? Lo buttiamo? Soltanto perché non è perfetto? Eh.

Quindi crescendo si impara a mettercela via, male che vada possiamo sempre rintanarci nella nostra testa e raccontarci il film perfetto che vogliamo. Quali sono le conseguenze? Eh. Lo sappiamo quali sono, anche se non lo vogliamo ammettere perché ci rode: lo scollamento. 

In poche parole, noi Esseri Umani siamo un branco di disadattati allo stato brado. Il Caos è questo. 

Cosa facciamo? Ci buttiamo via soltanto perché non siamo perfetti? Eh.

È come cavalcare un purosangue: ti immagini la perfetta simbiosi con il potente equino che sarai in grado di gestire e domare e ti ritrovi disarcionato steso a terra. Poteva essere la cavalcata della tua vita, poteva, lo era nella tua testa. 

Io stamattina ho in mente un sogno, una cosa che in tre-quattro passi posso realizzare, e lo realizzerò entro domani. Una cosa da nulla, ma alimenta quell’ambizione di perfezione che mi divora l’Anima. Ripeto, una cosa da poco, una cosa che ha significato soltanto per me, una cosa che una volta che la butterò fuori dalla mia testa potrebbe risultare ridicola. 

Ma che faccio? La butto soltanto perché rischia di essere un fallimento? Eh. Il fallimento, arrivata a questo punto, è un dettaglio. Il sogno ha vinto. 

Inshallah.

 

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(917) Romeo

Ok, Romeo era un fake. Nel senso che è, invece, una bella gattona incinta e non lo stalker della mia Mei (che non sapeva più dove scappare). Tutto il film che m’ero fatta era frutto della mia fantasia malata. Bastava che guardassi a quella panciona che cresceva e magari un dubbio me lo sarei fatto venire. Ma non ci ho fatto caso. Non gli ho dato importanza.

Romeo non esiste.

E questa la dice lunga, lunghissima, su quello che succede al nostro cervello quando si fissa su un’idea e smette di guardare la realtà. Questo episodio si è verificato – componendosi step by step – negli ultimi due mesi. Quindi il mio film è durato per ben due mesi. Tutto quello che registravo erano dettagli che andavano a rafforzare la mia idea. Dettagli che decontestualizzati potevano tranquillamente essere letti a modo mio, ma che guardati meglio e messi in collegamento potevano dare una risultanza diversa, addirittura avrebbero potuto farmi notare che quella pancia conteneva delle piccole vite e che la micia aveva bisogno di entrare in casa e di essere nutrita almeno il doppio e che si scontrava con le mie gatte e non il gatto maschio (si ignoravano loro due). Insomma: la realtà mi ha dimostrato quanto so essere cieca e molto probabilmente idiota. Peeeeerfetto.

Come ho potuto appurare che Romeo non esiste e non è mai esistito se non nella mia testa, potremmo tutti fare altrettanto e smascherare enormi ed evidenti fake che ci passano sotto il naso tutti i sacrosanti giorni. Potremmo. Ma lo vogliamo? Ci converrebbe? Ce lo possiamo permettere senza perdere la faccia? Eh. Perché perdere la faccia rode a tutti. Proprio a tutti.

Allora preferiamo credere ai tanti Romeo che la nostra mente partorisce random piuttosto che darci una botta in testa e riappropriarci di un minimo di buon senso. 

Per oggi ho dato, la mia botta in testa l’ho ricevuta. E mi sta pure bene.

‘notte.

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(873) Segreto

Il segreto perfetto è quello che potresti buttare in un bicchiere di vetro trasparente con dell’acqua fresca senza che nessuno riesca ad accorgersi della sua presenza. Sotto gli occhi di tutti. Tutti se lo bevono. Tutti inconsapevolmente.

Noi italiani siamo degli specialisti in questo: ci beviamo qualsiasi segreto maledetto senza farci caso. Non li vediamo proprio.

Agatha Christie direbbe: “Bisogna andare a cercare le cose, non aspettare che cadano in testa!”. Che potrebbe sembrare che non c’entri nulla, ma secondo me c’entra eccome. Ma non lo spiegherò. Vorrei andare oltre.

Avere un segreto non è mentire. Avere un segreto è scegliere di essere liberi. Liberi dagli occhi, dalle orecchie, dal tocco di chiunque. Quel segreto ti fa sgusciare via, ti fa leggero, ti fa potente. Intoccabile. Se un segreto non ti fa sentire così hai sbagliato tutto. Diventerà la tua rovina, conviene farlo uscire allo scoperto, dargli aria e fare in modo che il peso si disperda nell’etere senza più avvelenare le tue viscere.

Un segreto ti insegna l’ascolto più che la parola. Un segreto ti impone disciplina anziché superficialità. Un segreto ti accompagna al rispetto di quel che c’è e deve essere protetto. Ognuno di noi dovrebbe averne uno e se uno non ce l’hai ti consiglio di creartelo.

Che sia gioioso, che sia vitale, che sia soltanto tuo. Ora!

PS: ma davvero non avete capito perché ho messo la citazione della Christie in mezzo al post? Diamine!!!

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(837) Complimenti

Quelli sinceri fanno bene. Mentre fai non pensi che stai facendo un capolavoro, vedi quello che non funziona, quello che non va, quello che dovresti fare meglio e ti senti sempre in debito. Non è mai perfetto. Neppure vicino alla perfezione. Ma manco per niente. Scoramento.

E anche se vengono da te e ti dicono “che figata!” tu dubiti, non tanto di loro (non di tutti, almeno) ma di te, sempre.

Poi c’è chi si sente genio e allora il discorso cade, non ci sono mai sufficienti complimenti e sviolinate in grado di riempire i containers del loro ego. Beati loro. Vivere da geni dev’essere fantastico. Specialmente se non lo sei, basta esserne convinti e il mondo si dispone per darti retta. Cosa può fare un buon carisma, neh?

Fatto sta che negli ultimi anni ho imparato a darmi una pacchetta sulla spalla ogni tanto e a farmi un complimento quando proprio la soddisfazione raggiunge il 70% del tutto. Una percentuale onorevole, il top per me. Un’altra cosa che ho iniziato a fare è stare più attenta riguardo a chi me li fa. Se sei un mezzo idiota, il tuo complimento scivola via tranquillo senza lasciare traccia. Se sei un pezzo di merda, il tuo complimento mi infastidisce (ma come? Sarò mica anch’io un pezzo di merda? Oppure pensa che io sia così stupida da crederci?). Soltanto se sei una persona a posto mi lascio toccare dalle tue parole. Potresti anche mentirmi soltanto per farmi contenta, ma lo faresti a fin di bene. Non la berrei, ma apprezzerei il tuo buoncuore. Se nelle tue parole c’è pure sincerità, allora mi commuovo. Funziono così.

Va da sé che funziono allo stesso modo anche per le critiche. Soltanto che quelle cattive le riconosco dopo molto molto molto tempo. Non catturo subito il veleno dell’intento, mi fermo sul concetto. Anni fa ricevetti una valutazione per un mio lavoro talmente ingiusta che pensai di averla anche inconsciamente rimbalzata. Non era così. Quel veleno m’era entrato nel cervelletto e si era posato lì rilasciando le tossine senza che io me ne accorgessi. Qualche giorno fa me ne sono accorta. Porca miseria.

Le critiche giuste me le lavoro per bene, ci sto attenta, mi fanno essere più scrupolosa, più severa con me stessa. Non dico che mi fanno felice, ma colpiscono la mia più grande ambizione: essere brava. Anzi, dannatamente brava. E siccome mi rendo conto di non esserlo abbastanza allora le critiche assennate mi spronano a fare meglio. Ne ho ricevute tantissime di questo tipo e hanno fatto tutte il loro porco effetto. Pure troppo, direi. Ma benvenga un po’ di sofferenza altrimenti che vita sarebbe? Eh.

Detto questo vorrei aggiungere un’altra piccola cosa: i complimenti che faccio a me stessa sono i miei preferiti. Mi trovo una persona assennata e piuttosto obiettiva, quindi non metto in dubbio la sincerità della mia esternazione. D’altro canto mi conosco da una vita e se fossi davvero un pezzo di merda mi sarei già gettata nel cassonetto da un bel po’.

Eh.

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(835) Perfetto

Perché uno pensa che può essere felice solo se tutto è perfetto, si danna l’anima per far sì che tutto sia perfetto senza mai riuscirci, senza mai essere felice neppure per un istante. Il tempo passa, però. Perfettamente.

Stasera non sono stanca, di più. La prima settimana di rientro dopo la pausa natalizia è stata come essere sollevata da un tornado e provare a ballare la macarena senza ribaltarmi. Impegnativo.

No, non solo a livello professionale, anche a livello emotivo, perché il mio cuore e il mio cervello sono ormai talmente mescolati che non si distinguono più. Fatto sta che sono così e che funziono così e che non c’è niente che non mi tocchi e – molto spesso – quello che mi tocca finisce con il lasciare il segno. Impegnativo anche questo.

Eppure, tra tutto questo ho notato dei momenti perfetti che mi attraversavano da parte a parte e avrei voluto dire tanto e invece sono stata zitta, in contemplazione estatica. Come un incantamento. Perfetto. Sentivo una voce che mi riempiva con delicatezza ogni sbandamento per aiutarmi a restare in equilibrio. Non posso spiegarlo meglio, è tutto quello che so scrivere.

Eppure, in modo perfetto sentivo e mi ritrovavo fatalmente in accordo con quel sottile filo lucente che si dipanava da me all’ovunque che mi stava intorno. E allora posso affermare che perfetto è ogni istante in cui in presenza di me stessa so testimoniare della vita e di quel sentimento che a nominarlo fa paura eppure c’è. Eppure c’è. A occhi aperti e a occhi chiusi. Giorno e notte. Eppure c’è.

Mi sento quasi male a pensarci, la perfezione così com’è davvero (sottile e lucente) mi schianta il petto e le parole non sanno più che fare di sé stesse, se non posarsi qua e là con cautela, come se la terra bruciasse e tutta l’acqua del mondo non fosse sufficiente per chetare l’anima.

Perfetto.

Vero?

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(741) Smarrimento

Nel caos di tutto quello che in una giornata può accadere, e accade sempre tanto anche se non ce ne rendiamo conto perfettamente, ci sono istanti di completo smarrimento in cui mi sembra di essere immersa in una pozzanghera che non ha confini. Magari l’acqua non è torbida, anzi, ma è comunque tanta tanta tanta. Troppa per poterla affrontare. Lo so che è solo nella mia testa, è acqua che c’è soltanto nella mia testa e che non ha alcuna valenza nel reale, lo so, ma mi impensierisce lo stesso.

Mi guardo attorno attonita e resto lì in ammollo, inerme. Non me ne capacito, non so perché cado in questa catatonia assurda, eppure mi succede quotidianamente. Una volta al giorno, senza perdere un colpo, arriva lo smarrimento.

Mi ripiglio in fretta – spesso, non sempre – ma non riesco a evitarlo. Tutta quest’acqua mi toglie le forze. Sì, poi respiro e razionalizzo, ovvio, ma ci cado dentro e non c’è modo di scansarla. Neppure con la programmazione, con il controllo rigido della lista di cose da fare e da completare riesco a tenere a bada l’annichilimento di quell’istante. Neppure se le scadenze non sono così prossime, se il lavoro è da condividere e spartire con i colleghi, neppure se sono io stessa a pormi obiettivi e obblighi… 

Credo sia una patologia seria, incurabile. Lo smarrimento ha sempre la meglio su di me, una volta al giorno. Punto e basta.

E se fosse una pausa mentale – tipo un richiamo neuronale per un caffè che io non decido ma subisco – che mi obbliga a guardare, senza pensieri e senza azioni, per procedere più lucidamente? Uno smarrimento strategico per non andare in overstress, qualcosa del genere. Una misura di protezione, tipo salvavita, che scatta nonostante me e che mi sospende dalla vita per qualche secondo prima di risbattermi giù a lavorare a testa bassa fino a fine giornata. Perché è così che funziona, a vederla bene. C’è lo smarrimento e c’è la ripresa. Non sono mai stata persa per più di qualche minuto, in ogni frangente io mi sia trovata non ho mai perso il contatto con le cose del mondo – se in stato di veglia – troppo a lungo. Questo dovrebbe mettermi tranquilla, giusto? 

Sì.

Giusto.

Ok.

Tutto perfetto.

Buonanotte.

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(734) Rugiada

Ho dovuto imparare a scrollarmi la rugiada di dosso al mattino presto perché il lavoro lo devi andare a incontrare e non ti viene a svegliare a letto come faceva la mamma quando andavi a scuola. Sono un animale notturno, una civetta direi, e questo fa di me lo strazio che sono: comincio a carburare leeeeeeeeeeeentamente e non andrei mai a dormire perché durante le ore tarde il mio cervello – quando non troppo devastato dalla giornata – inizia a funzionare alla grande.

Il mattino, un tempo, lo detestavo. Dovevo alzarmi per fare quello che odiavo fare. L’indolenza adolescenziale me la sono lasciata alle spalle, ma mi è comunque ostico il pensiero che la sveglia puntata alle 6.00 sta suonando e io non posso far finta di niente. Dentro di me l’imperitura lotta fra il chissenefrega e il fai-il-tuo-dovere è sempre cruenta come allora. Stoicamente mi alzo, stoicamente mi butto in doccia, stoicamente arrivo all’auto e affronto la solita coda in tangenziale. Tutto peeeeerfetto.

Mentre percorro gli oltre 30 chilometri per recarmi in ufficio butto lo sguardo sui prati e sul ciglio della strada e quella rugiada che luccica pare un po’ la mia, quella che mi sgocciola dentro. Alla fine sono uguale a un filo d’erba. Considerazione illuminante, vero?

Senza crogiolarmi troppo in quest’ultima immagine, faccio presente che comunque preferirei essere a Bali e godermi il paradiso terrestre, che comunque penso che il mio mattino non abbia l’oro in bocca ma a malapena un ettolitro di caffè da ingurgitare, che comunque ‘sta cosa del viviamo di giorno e dormiamo di notte dovrebbe essere un’opzione e non un’imposizione, che comunque avrei preferito fare la rockstar che qualsiasi altro lavoro al mondo… ma.

Ma il mio cervello in parallelo pensa già a come affrontare ogni punto della lunga lista di cose da fare, a come risolvere quel tal problema, a che idea aggiungere alla presentazione che sto lavorando e via di questo passo. Il mio cervello, la parte che funziona e che non si piange addosso, si formatta autonomamente per permettermi di funzionare – nonostante tutto, nonostante me – fino a notte inoltrata quando appoggio la testa sul cuscino e mi arrendo all’oblio.

Il mio cervello asciuga la rugiada senza neppure il bisogno di un fòn. E io dovrei essergliene grata. Molto anche.

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(619) Questionario

Fare domande è una cosa seria, delicata direi. L’ho sempre pensato e, di conseguenza, mi sono sempre presa l’onere del fare domande dandogli il giusto peso. In poche parole: so fare domande micidiali. Davvero.

Mi vengono proprio spontanee, domande talmente precise e apparentemente banali che se non le filtro un po’ rischiano di causare reazioni estreme: la totale afasia del mio interlocutore o un bel pugno sul naso da parte dello stesso a mio esclusivo beneficio. L’ho detto, sono domande micidiali.

Non è cattiveria, ma se voglio conoscere una persona non sparo domande a caso per ottenere risposte vaghe, miro meglio che posso, vado sul particolare, sperando di non fare disastri. Così facendo scopro me stessa, mi metto onestamente davanti alla persona che voglio conoscere rendendogli evidente il mio pensiero. Pericoloso? Sì e no, gioco lealmente, non mi spingo mai oltre il limite del buongusto, e non ficco mai il naso nei fatti degli altri. Infatti, qui sta il bello, non sono mai domande invadenti, non sono volte a incamerare informazioni, sono piuttosto una porta da aprire per condividere un pensiero che neppure sapevi di avere. Pericoloso? Sì e no, dipende se mi trovo davanti a un buon diavolo o a un serial killer.

Cosa interessante, però, è stato constatare che nessuno si è mai rifiutato di rispondere, al massimo qualcuno ha ammesso di non averci mai pensato accompagnando la frase con un mezzo sorriso. La parte del sorriso è fondamentale anche nella fase che mi riguarda: non è un interrogatorio, è uno scambio e come tale deve risultare rassicurante – siamo insieme in questo gioco – e quindi sorrido. Se non ho voglia di sorridere significa che le risposte le so già e mi evito di perdere tempo. Succede quando incontro persone che non mi ispirano granché di buono, tanto per essere chiari.

Proprio per evitare situazioni noiose, sto pensando da qualche tempo che potrei creare un breve questionario con risposte a faccette/emoji per velocizzare i tempi. Formulare le domande adatte è più impegnativo di quel che mi ero immaginata, sono molte le varianti da prendere in considerazione. Un’attività che se voglio che mi porti qualcosa di utile mi occuperà giorni interi…

Ne varrà la pena? Ecco, domande come questa sono perfette. Aperte, addirittura vaghe, ma assolutamente rivelatrici.

Mi comprerò un paradenti, comunque. Non si sa mai.

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(148) Vittoria

Non mi è mai importato niente di vincere, quando mi ci metto d’impegno e sono soddisfatta di me è già una bella vittoria personale e mi basta. Se, per caso, mi capita di vincere l’euforia mi dura poco, perché già un’altra sfida mi compare davanti e via… si corre di nuovo. Non per la vittoria, ma per misurarmi con la nuova sfida e capire come sono messa. Affronto tutto così, punto a un risultato di qualità anche se è una qualità valutata da me e non dalla giuria che mi vuole perdente. Giusto o sbagliato che sia, faccio così.

Ammetto che se vinco a Monopoli o al Gratta e Vinci mi sento per un attimo felice, ma se perdo va bene uguale. Non è importante.

Detto questo, però, oggi ho vinto una sfida a tutto tondo: io soddisfatta, ma anche la controparte perché mi ha chiamata al telefono per dirmi “Perfetto così, sei bravissima”. Solitamente non do molto peso ai bravissima, ma oggi sento che è diverso. Oggi quel bravissima mi ha sistemato in una posizione decisamente felice, una rivincita nei confronti del passato.

Domani altre sfide, ok, ma stasera lo scrivo: so essere anche bravissima. Eh!

 

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