(838) Artigianato

Non credo nel “buono alla prima” neppure per le idee geniali. Il “buono alla prima” è una scusante per la mediocrità, perché non ti vuoi sbattere più di tanto, perché non lo ritieni così importante, perché hai altro da fare che ritieni più meritevole e per milla altre ragioni.

Le idee geniali possono essere meravigliosamente geniali se rimangono idee, poi si scontrano con la realtà e la materia e perdono il loro smalto. Quindi le devi raccogliere e modellare. Non una volta magari. Magari mille volte. Il segreto è continuare a crederci e non accontentarti. Ma è soltato una questione di quanto lo vuoi. Tutto lì.

Un artigiano che costruisce una sedia non può fare spallucce se la sedia traballa. Se non trova il modo per farla poggiare solidamente, la rifà. Punto daccapo. E ti viene nervoso, lo so, ti prende proprio lo scazzo, me ne rendo conto, ma la sedia non diventa sedia a dondolo solo per alleviarti il fastidio. Vedi tu.

Quando lavori sul far stare in piedi le cose, non sdraiate se è scritto che devono stare in piedi, si tratta sempre di piccoli tocchi che si inseriscono perfettamente in quel contesto. Ci vuole tempo? Certo. Ci vuole pensiero? Certo. Ci vuole dedizione? Certo. E se ci metti tutto questo, e raggiungi il tuo scopo (non è affatto scontato), quando qualcuno dà una manata per scombinare la tua creazione, ti incazzi? Certo. E non poco. Esageratamente.

Puoi mostrarlo o meno (non è scontato neppure questo), ma l’incazzatura è devastante. Chiedi, no? Chiedimelo! Dimmi dove vuoi modificare e ne parliamo serenamente, ci lavoriamo su, rispetta quello che c’è, rispetta il mio lavoro. Rispetta la mia persona. Perdio.

Quante volte arriviamo nella vita delle persone per farci largo a colpi di machete? Le persone si incazzano? Bhé, dovrebbero. Dovrebbero incazzarsi smisuratamente, santocielo. Se non lo fanno ringraziamo il nostro santo protettore, perché ci meriteremmo la mazza chiodata. Così da ricordarci che non si fa. Non si fa. NON-SI-FA.

Come laboriosi artigiani noi ci stiamo modellando, è un lavoro sfinente, è un lavoro che non ci viene pagato in monete d’oro (al massimo con grammi di consapevolezza), è un lavoro che non si quantifica e non finisce mai. Farsi strada a machete spianato nell’esistenza di un Essere Umano è un crimine. Un po’ di delicatezza, perdio. Un po’. Non dico che siamo fatti di cristallo, ma neppure di titanio!

Ok. Anche se non ci credete oggi per me è stata una gran bella giornata, ho interagito con persone che fanno dell’artigianato (personale e professionale) un’opera d’arte e questo mi ha riempito di gioia. Incontrare questo tipo di umanità fa crescere in me la voglia di essere ancora più delicata quando entro nei mondi di chi mi sta davanti.

E si bussa.

Sempre.

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(764) Canestro

In questo momento vorrei parlare di molte cose perché oggi ho molte cose da dire, ma sono tutte confuse, sono tutte accavallate una sopra l’altra e non riesco a metterle in ordine. Non riesco a scriverle. Non è tempo, evidentemente. La scrittura mi ha insegnato la pazienza e mi ha anche insegnato ad arrendermi di fronte all’evidenza: i tempi non sono quelli che voglio io, sono quelli che vuole lei (la scrittura appunto).

Mi ronza in testa però l’espressione “fare canestro”, che è qui per dirmi qualcosa, anche se non so di preciso cosa. Forse si riferisce a quando ho una sensazione e questa si rivela esatta. Quando inquadro una situazione e questa si palesa in tutta la sua natura. Quando dico e si avvera. Penso e si concreta. Taccio e si conferma.

Sono certa che succede a tutti, non è che sono dotata di poteri paranormali, ma forse non tutti se ne rendono conto perché gli non prestano attenzione. Per quanto mi riguarda quel fare canestro mi permette di non dare per scontato certi dettagli, quelli che mi stanno parlando e che io sto leggendo e interpretando.

Mi sembra assurdo, ma è corretto. Dubito della mia lucidità, ma è corretto. Metto in discussione ogni grammo di me stessa, ma è corretto. Corretto non significa Hurrà che bello!, potrebbe anche evidenziarsi come una brutta cosa (anche molto brutta), ma rimane corretto il messaggio che ho intravisto e la realtà non si cambia. Fortunatamente sono abbastanza vecchia per sapermi arrendere all’evidenza.

Faccio canestro spesso, ma non c’è nulla di che vantarsi, c’è solo da prestare attenzione perché si è sempre sul punto di prendere un granchio. Discernimento e cautela permettono al messaggio di farsi chiaro al tempo giusto, né prima né dopo. Solo che una volta che lo hai letto, girarsi dall’altra parte è codardia e con questa ci devi per forza fare i conti anche se pensi che nessuno se ne sia accorto.

Fare canestro… Eh. Davvero una bella cosa.

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(598) Manipolare

Detto così è brutto, e a dirla tutta anche farlo è brutto, ma se agiamo entro un limite definito con precisione – quello del rispetto degli spazi mentali e fisici altrui – il verbo cambia e si trasforma in altro. Il nuovo verbo diventa meno brutale e – in certi casi – anche bello. La magia della manipolazione è ovunque.

Se con i gesti si può fare molto e causare anche molti danni, figuriamoci cosa si può fare con le parole. Quelle dette o scritte, quelle sottintese, quelle ripetute, quelle negate, quelle urlate o sussurrate… ce n’è per tutti i gusti. 

Lo facciamo tutti, lo facciamo fin da piccoli, lo facciamo perché vogliamo che le cose vadano come piacciono a noi e che le persone facciano quello che vogliamo noi e che nel farlo non creino fastidi. Obbedisci, punto. Chiunque neghi questa verità dovrebbe guardarsi meglio dentro. Non è che per questo siamo cattivi o persone orrende, siamo umani. Gli umani, quando non si sparano addosso, sono impegnati in un esercizio continuo di problem solving per poter avere a che fare gli uni con gli altri. Le soluzioni, quando sono “morbide”, ti evitano di rintanarti in un bunker prima di far esplodere l’universo umano che ti circonda. Semplice sopravvivenza. Nostra e dell’intera Umanità.

Manipolare è sinonimo di “viscido, sporco” nel nostro immaginario, ma in realtà il dizionario della lingua italiana allarga un bel po’ il suo significato:

manipolare v. tr. [der. del lat. manipŭlus, nelsign. mediev. di “manciata (di erbe medicinali)”] (io manìpolo, ecc.). – 1. a. [lavorare una sostanza plasmabile, o un impasto, trattandoli con le mani: m. unguenti] ≈ maneggiare, trattare. b. [ottenere una preparazione mediante l’impasto di vari ingredienti: m. acqua e farina; m. una torta] ≈ amalgamare, impastare, (non com.) malassare, maneggiare, mescolare, rimestare. 

Certo, poi c’è anche la seconda parte da tenere in considerazione:

2. (spreg.) a. [apportare modifiche abusive a una sostanza o un prodotto, spec. alimentare: m. il vino] ≈ adulterare, alterare, sofisticare. b. [adattare in senso favorevole a sé stessi, mediante imbrogli e intrighi: m. i risultati delle elezioni] ≈ alterare, (non com.) artefare, contraffare, falsificare, manomettere, truccare. c. (fig.) [indirizzare la volontà di qualcuno, spec. per trarne vantaggio: m. le coscienze] ≈ condizionare, influenzare, maneggiare, manovrare. ↑ plagiare.

Quindi, riuscire ad agire sul punto 1 (a, b) in modo attivo e produttivo e contemporaneamente riuscire a riconoscere quando si rischia di cadere vittime di un’azione del punto 2 (a, b, c) potrebbe essere la formula che ci salva davvero la vita. 

Basta saperlo, no?

 

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(440) Partenza

Ho come l’impressione che oggi per me si sia verificata una nuova partenza. Allora, rendere chiaro un concetto che non è neppure concetto ma persistente sensazione, è illusorio, eppure sento il bisogno di scriverlo. Principalmente perché potrei dimenticarmelo, potrebbe scivolarmi via con la doccia che tra pochi minuti farà scomparire questa giornata per lasciarmi intorpidita e permettermi di dormire. Potrei non essere più certa di questa sensazione e mi dispiacerebbe perché so che qualcosa significa. Anzi, significa qualcosa di importante, che mi accompagnerà nei prossimi mesi, nel prossimo anno.

Ho raggiunto una condizione psicologica (provvisoria, ovviamente) che mi introdurrà in una dimensione diversa. Come faccio a spiegarlo?

Comincia tutto con uno sguardo interiore, continua con una percezione del mondo leggermente diverso, e si finalizza con un “ah” (senza punto esclamativo, né altro) che si pone come presa di coscienza istantanea – senza un prima né un dopo, senza un se o un ma, senza un motivo apparente.

Partenza significa che hai preparato i bagagli, ti porterai poche cose perché sai che se la valigia pesa troppo diventa un tormento e ti rallenta il passo. Partenza significa anche affidamento a ciò che sarà, che sai non potrai comunque pilotare e controllare e che va bene così. Partenza signfica anche che non lasci nulla dietro a te, quello che ami lo porti con te – e si va al di là della pura questione fisica, ovviamente. Partenza che presuppone un Arrivo, anche questo fa la differenza, non c’è bisogno di fingere sia altrimenti.

Non mi sposterò granché con il corpo, ma la mente già sta andando. Ora la doccia farà il suo dovere e magari me lo dimenticherò, ma non importa, ormai l’ho scritto e qui rimarrà ad aspettare il mio arrivo.

 

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(416) Prima

Prima c’è la concentrazione e la rimozione del dubbio. Non può che andare bene, andrà bene. Perché il dubbio quando devi agire ti dimezza la forza. Non puoi agire debolmente, devi farlo con energia, il doppio di quella che sarebbe sufficiente per farti arrivare alla meta. E potrebbe volerci un bel po’. Più la situazione è complicata e più i dubbi proliferano. In questo caso, nel mio caso, quello di questi giorni pre-spettacolo non è stato così difficile perché non era il debutto perciò dubbi pochi.

Poi c’è l’attenzione, che deve essere totale per evitarti errori fatali. Non basta andare con la corrente, devi metterci il tuo e di solito costa fatica. Tanta fatica. Più sei sicuro che questa fase di preparazione sia stata da te seguita e curata e più affronterai il momento fatidico con sicurezza.

Il prima non è mai un frizzare di gioia e entusiasmo, piuttosto un meticoloso affaccendarsi affinché tutto quello che si può controllare sia in controllo. Testa bassa e lavoro duro.

Il prima è fatica e stanchezza. Ti domandi prima di addormentarti – che è più che altro un cadere in coma  fino al mattino – se quello che stai facendo ne valga la pena. Te lo domandi, ma non ti rispondi. I dubbi li hai già liquidati durante la fase 1 e indietro non si torna ( “… neanche per prendere la rincorsa” diceva Pazienza ne Le straordinarie avventure di Penthotal).

Il prima è imparare a gestire la tensione e la tua capacità di relazionarti con chi ti sta accanto è fondamentale per non ritrovarti dopo nei guai (meritatamente).

Il prima è emozione, quel chissà come andrà non è mai archiviato davvero. Ti dai sempre – cautamente – una percentuale onorevole di errore, tipo il 20%, ma menti spudoratamente se pensi che poi potresti perdonartelo.

Il prima è contare i secondi e fare un bel respiro e affidarsi a quel che sarà.

C’è sempre un prima in ogni cosa, ho imparato a godermelo e ancora non me ne sono pentita.

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(147) Apatia

apatìa s. f. [dal lat. apathīa, gr. ἀπάϑεια «insensibilità», comp. di – priv. e πάϑος «passione»]. – 1. a. Stato d’indifferenza abituale o prolungata, insensibilità, indolenza nei confronti della realtà esterna e dell’agire pratico. 2. Nella filosofia antica, stato di perfezione contemplativa dello spirito, che attraverso l’esercizio della virtù consegue la libertà interiore intesa come indipendenza, indifferenza e imperturbabilità rispetto alle passioni e alle emozioni umane, ai piaceri sensibili, agli eventi esterni in genere, secondo un ideale di saggezza sostanzialmente unitario propugnato in età ellenistica da cinici, stoici ed epicurei e variamente recepito e discusso dai Padri della Chiesa e dagli apologisti cristiani.

Durante tutta la mia adolescenza mi sono sentita ripetere che ero un’apatica. Non una volta ogni tanto, proprio tutti i sacrosanti giorni (a casa e a scuola) c’era qualcuno che me lo faceva notare: “Sei proprio un’apatica!”.

No, nessun filosofo antico tra di loro, quindi è il primo significato del dizionario Treccani quello inteso e scelto appositamente per me.

Ora: non c’era niente al mondo che mi facesse arrabbiare di più. Dentro di me sentivo una furia devastatrice che avrei scatenato volentieri contro chiunque osava offendermi – a essere un po’ più coraggiosa. Non l’ho mai fatto, non perché fossi buona, solo perché ero così ferita che preferivo fare l’indifferente e procedere sulla mia strada. Sembrava, appunto, che nulla mi toccasse, mentre dentro ero rotta in mille pezzi.

Non ero apatica, ero semplicemente un’introversa, una che preferiva viversi nel privato i propri universi paralleli perché convinta che a nessuno interessasse. In effetti, era così. Raramente a un adulto interessa scoprire gli universi paralleli di una/un adolescente. Ancora è così.

Oggi mi sono trovata davanti a una classe che mi ha fatto ripiombare nei miei anni bui dove archiviarmi come apatica risolveva molte menate ai miei professori e anche alla mia famiglia. Solo che ero io, lì davanti a loro, e stavolta ero io l’adulta. Mi sono resa conto in quell’istante che a me importava parecchio dei loro universi paralleli e non sapevo come fare per scuoterli. Ero convinta che quell’apparente apatia fosse solo apparente. Solo apparente, diavolo!

Possibile io abbia fatto un mero transfert e che quello sperimentato in aula fosse ben più che apparente, ma non me la sento di sentenziare qui e ora sbattendo la porta in faccia alla possibilità che non sia così. Forse, con un po’ di pazienza, quel muro si può far sgretolare. Non perché io voglia per forza avere ragione, ma perché ho colto un paio di sguardi e un paio di sorrisi che mi fanno immaginare che lì c’è qualcosa di vivo e sono decisa a capire se è così per davvero.

PS: da molti anni nessuno pensa a me come a un’apatica. Ammetto che per dimostrare al mondo che non lo ero mi sono dannata l’anima a fare fare fare. No, non va bene, ma certe cose che ti porti addosso finiscono per determinarti. No, non va bene, ma solo quando te ne accorgi puoi iniziare a fare diversamente. Non prima. Mai prima. Dopo.

 

 

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