(848) Binari

Ho preso molti treni, atteso in molte stazioni per coincidenze propizie, perso molte coincidenze propizie pure. I binari sempre lì, io deragliavo per cause a me estranee eppure invadenti. Ho incontrato altri passeggeri, tanti altri passeggeri, e li ho lasciati correre sui loro binari nella speranza di riprendere i miei. Bello viaggiare insieme, ma soltanto quando il viaggio è lo stesso altrimenti continui a pensare “dove-diavolo-sto-andando?” anziché goderti il tragitto. 

I binari sono quelli. Al massimo possono virare (destra o sinistra), al massimo possono incrociarsi con altri binari, ma o ne prendi uno o l’altro, impossibile percorrerne contemporaneamente tre o quattro o cinque o mille. Devi scegliere. Tornare indietro? Sì può, ma la strada ormai l’hai fatta e se hai una meta finisci soltanto con il moltiplicare i chilometri senza arrivare mai. Sei arrivato fin lì? Continua. Sempre avanti, curva a destra o a sinistra, ma non ritornare alla stazione che ti sei lasciato alle spalle. Quella ormai la conosci. Non cambierà per te, non ti accoglierà meglio di come ha già fatto e se te ne sei andato, se hai voluto proseguire è perché lì non ti sentivi comunque al posto giusto. Era un transito, non una destinazione. Semplice. 

Veniamo messi su dei binari e ci viene chiesto di farci guidare perché all’inizio siamo senza mappa, senza conoscenze tecniche (come diavolo si guida un treno?). Pensiamo che sia sempre qualcun altro a decidere, quando ci accorgiamo che siamo noi a pilotare in cabina ci prende un coccolone: oddio! A saperlo prima! Oddio! Perché me l’avete detto? Ora come faccio? Con chi me la prendo? Eh. Siamo animaletti complessi, contradditori, fastidiosi, disarmanti. Sui nostri binari facciamo di tutto fuorché ringraziare perché ci siamo.

La meta davanti, alcuni tragitti tra cui scegliere e un’ipotesi come direzione. 

E viaggiamo

viaggiamo

viaggiamo

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(734) Rugiada

Ho dovuto imparare a scrollarmi la rugiada di dosso al mattino presto perché il lavoro lo devi andare a incontrare e non ti viene a svegliare a letto come faceva la mamma quando andavi a scuola. Sono un animale notturno, una civetta direi, e questo fa di me lo strazio che sono: comincio a carburare leeeeeeeeeeeentamente e non andrei mai a dormire perché durante le ore tarde il mio cervello – quando non troppo devastato dalla giornata – inizia a funzionare alla grande.

Il mattino, un tempo, lo detestavo. Dovevo alzarmi per fare quello che odiavo fare. L’indolenza adolescenziale me la sono lasciata alle spalle, ma mi è comunque ostico il pensiero che la sveglia puntata alle 6.00 sta suonando e io non posso far finta di niente. Dentro di me l’imperitura lotta fra il chissenefrega e il fai-il-tuo-dovere è sempre cruenta come allora. Stoicamente mi alzo, stoicamente mi butto in doccia, stoicamente arrivo all’auto e affronto la solita coda in tangenziale. Tutto peeeeerfetto.

Mentre percorro gli oltre 30 chilometri per recarmi in ufficio butto lo sguardo sui prati e sul ciglio della strada e quella rugiada che luccica pare un po’ la mia, quella che mi sgocciola dentro. Alla fine sono uguale a un filo d’erba. Considerazione illuminante, vero?

Senza crogiolarmi troppo in quest’ultima immagine, faccio presente che comunque preferirei essere a Bali e godermi il paradiso terrestre, che comunque penso che il mio mattino non abbia l’oro in bocca ma a malapena un ettolitro di caffè da ingurgitare, che comunque ‘sta cosa del viviamo di giorno e dormiamo di notte dovrebbe essere un’opzione e non un’imposizione, che comunque avrei preferito fare la rockstar che qualsiasi altro lavoro al mondo… ma.

Ma il mio cervello in parallelo pensa già a come affrontare ogni punto della lunga lista di cose da fare, a come risolvere quel tal problema, a che idea aggiungere alla presentazione che sto lavorando e via di questo passo. Il mio cervello, la parte che funziona e che non si piange addosso, si formatta autonomamente per permettermi di funzionare – nonostante tutto, nonostante me – fino a notte inoltrata quando appoggio la testa sul cuscino e mi arrendo all’oblio.

Il mio cervello asciuga la rugiada senza neppure il bisogno di un fòn. E io dovrei essergliene grata. Molto anche.

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(368) Zig-Zag

Mi viene benissimo. La via diritta, quella che ci metti un secondo ad arrivare, non fa proprio per me. Lo zigzagare, sì. Posso vantare trillioni di sudati chilometri in questi miei anni, costati fatica a badilate, senza arrivare a nulla. Ancora. Ma si sa che lo zigzagare non garantisce nulla.

La cosa più assurda è che non è mai stata una scelta, sempre un accomodamento per offrire ai miei desideri qualche chance in più. Va da sé che quel nulla a cui dico di essere arrivata è in realtà un nulla parziale.

Si dà il caso che tra uno zig e uno zag io abbia incontrato tanti pieni che mi hanno permesso di nutrirmi mentre andavo, e tutto questo cibo d’anima non rientra in quel nulla da me citato prima. Il nulla riguarda tutte le ambizioni che si sono inabissate senza lasciare traccia in superficie, alzando il livello del mio oceano, posandosi sul fondo come lava fattasi masso una volta raffreddata.

Non so andare dritta, oppure non trovo strade dritte, ancora non l’ho capito cosa succede ogni volta, so solo che mi ritrovo nel mio eterno zig-zag a percorrere chilometri cercando di non piombare sul fondo assieme a tutto quello che mi porto appresso. Desideri? Quelli scappano via. Quelli sanno dove scappare – beati loro – sono io che non so trovare nel mio zigzagare nessuna scappatoia. Ancora.

 

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