(983) Messinscena

Da una che lavora con le storie, lasciatemelo dire: bisogna riconoscere le messinscene per gestirle consapevolmente. Ma non solo se le costruisci, soprattutto se sei tra il pubblico e te le devi bere. Per difenderti dalle buffonate bisogna che impari a riconoscerle le buffonate. Svegliati!

Detto questo, quando mi viene il sospetto che la buffonata sia stata costruita per nascondere un film di m****, io indago. Prima di farmi prendere dall’intreccio studiato ad hoc (quindi difficile da destrutturare) ci vado piano. Uso la dannata cautela. Che non è una brutta cosa, e non è disfattismo perché quello parte da presupposti di vigliaccheria, la cautela parte da presupposti di tutelaggio della propria salute mentale. Tutta un’altra storia.

Ora: che sia facile cadere in trappola ci sta, ma che ci lasciamo trattare da coglioni anche no. Questo in linea di massima.

Bisogna applicare una serie di piccole precauzione e verificare se quello che ci stanno raccontando (con le parole e con i fatti) coincide con quello che è. Perché quello che è ti parla chiaro, devi soltanto avere le palle di ascoltarlo. Questo in linea di massima.

Eppure viviamo pensando che sappiamo già tutto. Già abbiamo il quadro chiaro prima ancora che il quadro sia stato completato. E guai a cambiare idea, mi raccomando!

In linea di massima sappiamo un bel niente. E ci basta. La cosa assurda è che ci teniamo tanto ad avere un’opinione per urlarla ai quattro venti. Ci basta così. Ci piace pensarci arguti, ci piace pensarci grandi pensatori. Bhé, i grandi pensatori son tutti morti, teniamolo presente.

E mi dispiace stare sempre lì a fare quella che s’intigna, ma il dannato e benedettissimo “SO DI NON SAPERE” ce lo dovremmo tatutare in fronte perché dovrebbe essere la prima cosa che leggiamo di noi al mattino quando ci guardiamo allo specchio.

Detto questo, in linea di massima, riuscire a partire dal “SO DI NON SAPERE” e percorre l’umile pratica del “IMPARIAMO QUEL CHE SI PUÒ IMPARARE” mi sembra un bel modo di occupare il nostro tempo.  A bocca chiusa e orecchie ben aperte sarebbe ancora meglio.

Pratichiamo, gente, pratichiamo.

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(755) Intermittenza

Andiamo a intermittenza. Andiamo a intermittenza e ci stupiamo che gli altri non stiano ai nostri luce/buio come vorremmo. E che devi fa’ della tua vita se non star dietro al mio umore? Cosa? Lo shampoo?

E finché è l’umore va ancora bene, pensiamo a cosa succede quando ad andare a intermittenza sono i nostri sentimenti. Ti amo/non ti amo, ti odio/non ti odio, ti voglio/non ti voglio, ti penso/non ti penso… delirio costante.

Se ce lo tenessimo per noi non sarebbe poi un gran difetto, ma onorandone il culto lo imponiamo a chi ci sta accanto. Lo facciamo andare su e giù come uno yo-yo, lo facciamo girare e pirlare come se fosse un burattino, lo facciamo parlare o lo zittiamo come se il suo esserci dipendesse da noi. Aguzzini spudorati, ecco cosa siamo.

Eppure pretendiamo sicurezza, solidità, coerenza, fedeltà, da chi abbiamo vicino. Se mi ami ora mi amerai per sempre. Anche se ti prendessi a calci in culo, ormai hai promesso e son cazzi tuoi. Belle cose, davvero. Facciamo della scostanza la nostra religione e calpestiamo il diritto a cambiare idea, cambiare il proprio sentire, cambiare opinione, cambiare pelle – se serve e certe volte serve proprio – di chi ci sta attorno. Tutti traditori, ma noi no.

Accendi e spegni la luce facendomi girare nella stanza e sbatto contro tutto e mi sto facendo male, ma tu accendi e spegni la luce finché mi scoppiano gli occhi e non riesco a vedere più niente. Chiamala crudeltà mentale, tesoro, non amore.

Se qualcuno avesse il coraggi di dirlo, se qualcuno avesse il coraggio di staccarsi dall’interruttore nel sentirsi rivolgere queste parole, forse – dico forse – le cose potrebbero migliorare. Voglio essere ottimista, stasera, voglio accendere la luce.

 

 

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