(1061) Programmazione

Ho provato a vivermi gli ultimi quindici giorni – la mia vacanza – senza programmazione alcuna. Giornate libere. Faccio quello che voglio. Certo, avevo una lista di cose che avrei voluto fare, ma pensavo che quel voler-fare fosse talmente forte da non dover essere costretto a esplicitarsi. Illusa.

Talmente abituata al programmare le mie giornate affinché risultino onorevolmente produttive, ho scoperto con costernazione immensa che non so vivere in altro modo. Il mio lasciar andare ogni lista da flaggare si riduce a un realizzare in concreto nulla. Piccole cose, ovvio che non resto inerme come una Barbie in fondo allo scatolone dei giocattoli, ma tutto il resto sparisce.

Mi è stato consigliato di fare così perché ero a un passo dal burn out e, in un certo qual modo posso anche essere d’accordo con questa diagnosi un po’ spinta, ma me lo sentivo che alla fine me ne sarei pentita. E infatti è così.

Avrei potuto conquistare il mondo in questi fottuti quindici giorni e invece…

Va bene, forse esagero, sto drammatizzando troppo. Si tratta semplicemente di due settimana di riposo. Ho letto (7 libri), ho vissuto il quotidiano (cosa eccezionale per me), ho buttato su carta un paio di idee (eh, mi stavo annoiando), ho programmato i prossimi mesi. Eeeeeeeeeeeeeeeeesatto. Ho programmato i prossimi mesi. Mi sono proprio messa lì a segnare le scadenze e gli impegni, le possibilità e le impossibilità, il da-farsi e il da-finirsi… Ho cercato di fare mente locale e proiettarmi nel marasma di cose che mi aspettano e così facendo m’è salita una certa preoccupazioni, un’ansia da prestazione che metà basta, eppure. Eppure sento che posso farcela, posso maneggiare tutto questo, posso. Quello che non posso fare è lasciare le mie giornate in balìa del mio umore, non posso permettermelo, sarebbe la disfatta.

La programmazione. È lei che mi salva la vita, ormai ne sono certa.

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(950) Performance

Come prima di uno spettacolo: la pressione aumenta e la tensione si fa densa e appiccicosa. Come avere dentro quella plastica d’imballaggio con le bollicine e tu le scoppi una ad una e non ti fermi finché non le hai passate tutte, una ad una. Come un presagio di disfatta, come una speranza di rivalsa, come un aereo da prendere. Ecco, così.

Se non lo hai provato non sai. Non sai che vorresti allontanarti da te il più in fretta possibile, che vorresti teletrasportarti in un altro corpo e un’altra mente, che vorresti delegare a chiunque ti passi davanti ogni singolo atomo della tua esistenza. Lasciatemi in pace, finitela di tormentarmi.  Ecco, così.

E c’è, come sempre, un buon modo di affrontare questo stato d’animo e uno meno buono. C’è uno pessimo e uno ancora peggiore. Le variazioni sul tema possono essere diverse e di diversa consistenza, dipende da quanto vogliamo pensarci e da quanto siamo disposti a sbatterci per sistemare le cose dentro di noi. Ci vuole metodo anche nel fare le pulizie. 

Allora, so benissimo che è soltanto un passaggio, che in linea di massima non sto così tutto il tempo, e che tra qualche giorno si sistemeranno le cose e io potrò finalmente scrivere. Lo so. Eppure rimane il dubbio che l’Apocalisse si presenterà alla mia porta e che suonerà con tono allegro fingendo di essere lì per caso e che tutto finirà in un istante, le mie paure più bastarde si concretizzeranno in contemporanea e mi toglieranno il senno. 

So anche che tutto andrà bene appena sentirò in un angolo del mio orecchio Lucio Battisti che mi canticchia “lo scopriremo solo vivendo” e io avrò la voglia matta di dargli una testata. Solo allora avrò ripreso possesso di me stessa. 

Attendiamo pazientemente.

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(782) Idiota

Ci sono soglie che non si dovrebbero superare. Ce lo dice il buonsenso, ce lo dice l’esperienza, ce lo dice chissà-chi-ma-qualcuno-ce-lo-dice-di-sicuro perché quando lo stiamo per fare la voce ci rimbomba dentro con una certa potenza: i-d-i-o-t-a!  E noi già sappiamo tutto quello che ci capiterà da lì a poco.

Ricordo l’ultima volta, l’ultima volta che me ne sono fregata di quella voce ammonitrice andando ben oltre la soglia, e pensavo mi fosse bastata. No, a una vera idiota le lezioni non bastano mai. Fatto sta che ora è tutto un scivolare verso quella soglia e sembra che qualcuno ci abbia messo l’olio per quanto liscia mi pare la via. Eh. Non dico altro.

Vorrei invece analizzare ora la sensazione del non-me-ne-frega-niente che precede il disastro: ecco, penso che in questo semplice e diretto concetto si concentri l’essenza dell’Essere Umano.

Non significa che non lo so. Non significa che non possa cambiare rotta. Non significa che son presa dagli eventi e povera me. Non significa che m’illuda del fatto che stavolta potrebbe andare meglio. Non significa che io mi avvalga di qualche segreto acquisito lungo la via della vecchitudine che mi salverà il culo un attimo prima. No. Tutto questo sarebbe ridicolo, vero?

Significa proprio che so, sono capace di intendere e di volere, me ne prendo tutta la responsabilità, sono pronta per affrontare la disfatta e lo faccio come se non me ne fregasse niente. Anzi, in fin dei conti me ne frega niente perché altrimenti farei altre scelte. Quindi: sono pronta, lo ripeto. Sia quel che sia.

Senza nulla togliere all’idiozia che ne fa da base, questo pensiero è comunque tipico dei folli, dei grandi personaggi di cui sono pieni i libri e che ci intrigano con le loro avventure… bello, no?

Sì, bellissimo. Dentro a un libro. Fuori un po’ meno. Eppure. E-P-P-U-R-E non se ne parla di frenare, di cambiare direzione, di almeno rallentare sperando in un rinsavimento. NO.

Il dado è tratto. (Cesare)

Sì, mi rendo conto, ma guarda che saranno casini inenarrabili. Guarda che te ne pentirai ogni giorno della tua vita. Guarda che poi la menerai per decenni di quanto la Sorte si sia presa gioco di te, ben sapendo che sei stata tu a volerti beffare di Lei – che non è astigmatica e ti riconosce ormai lontano mille miglia. Guarda che poi te ne penti e lo sai benissimo.

No. So che mi lamenterò. So che piangerò. So che la menerò per decenni rifacendomi alla Sorte, alla sfiga e a tutto il resto. Lo so. Ma non mi pentirò. Non l’ho mai fatto. Mai pentita di nulla, purtroppo.

Non me ne pentirò, fidati Babs.

Eh.

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(777) Febbre

Ogni tanto mi capita. Siccome non mi fermo mai, capita che il mio corpo mi dica stop. Stavolta è arrivata la febbre, che è una vecchia amica che non vedevo da tempo. Ogni volta che lei arriva prende il mio pseudo equilibrio emotivo e lo butta nel cesso. In un istante più niente.

E allora mi commuovo ascoltando una canzone dei Bee Hive (no comment) o ricordo tutti gli episodi più idioti della mia vita per farmi pesare il tempo che passa o, ancora peggio, ricomincio con la solfa che non valgo a niente e sono un essere da buttare.

Questo fa la febbre con me. Mi ricorda l’umiltà.

Ora, non è che ‘sta cosa mi faccia proprio piacere, solo che una volta che mi ci trovo in mezzo non riesco a difendermi. La debolezza devasta ogni grammo guerriero che ho in corpo e si esplicita una sorta di Caporetto diffusa (corpo-mente-spirito). Insomma, una schifezza.

Sto comunque scrivendo, ciò significa non solo che sono ancora viva, ma che non mi si sono bollite tutte le sinapsi… è già qualcosa. Vuol dire anche che la prima cosa che mi viene voglia di fare, dopo la disfatta totale, è scrivere. Sarebbe ridicolo, se non si trattasse di me – sono solita prendere molto sul serio tutto ciò che mi riguarda (altrimenti non avrei aperto questo diario, eh!) – e io alla fine dei conti inizio da 0 e arrivo fino a 10, non fino a 100.

La vecchia amica si tratterrà ancora qualche ora, penso, sto cercando di convincerla che è stato bello rivederla, ma che le cose belle finiscono presto e che la prossima volta potrebbe soltanto mandarmi un’email che già sarebbe sufficiente. Oltre a questo discorso – interessante ma fino a un certo punto – la sto stordendo con la tachipirina e spero che sappia essere più seducente delle mie parole. Non è detto.

Facendo due calcoli, neppure 24h di febbre e già mi sembra di aver perso un anno di vita. Sono incurabile, lo so.

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(478) Dolcetto

Ce la metto tutta a scovare l’aspetto consolante negli eventi bastardi. Ce la metto talmente tanto tutta da risultare patetica a me stessa. E non è affatto consolante. Nella mia stravagante forma mentis non è prevista la sconfitta totale. Francamente, non riesco a valutare una qualsiasi sconfitta come intera, completa, la considero sempre sconfitta per massimo il 97%. Sospetto il perché, però mi sembra una conclusione semplicistica e sono portata a pensare che non stia tutto lì.

Entra in ballo il concetto di umiltà, virtù della quale probabilmente sono sprovvista ma che ho in grande considerazione. Forse, quel 3% che ripara le mie sconfitte dall’essere complete è proprio il mio dolcetto. Lì ci metto quello che mi può tirar su un po’ il morale: il fatto che comunque ci ho provato, che comunque ho imparato qualcosa in più, che comunque se dovessi affrontare di nuovo la stessa situazione me la caverei meglio. Cose così, cose che mentre le pensi ti fanno sentire meno fallita, cose che ti racconti perché non vuoi infierire, hai compassione di te stessa e facendo un paio di conti non fai torto a nessuno se ti crogioli due minuti in quel benedetto 3% che ti concedi come premio di consolazione.

E non voglio dilungarmi sul fatto che nessuno mai ti offre un dolcetto quando crolli sconfitto, ti viene data una pacca sulla spalla che sa di pietà più che di comprensione, pertanto il dolcetto che riservi per te può essere il serbatoio segreto di energia a cui attingere quando tutto sembra finito.

Certo, se apri il dolcetto non trovi mai il biglietto della fortuna che ti fa fare la svolta, ma anche se disfatta mica sei così idiota da pensare il contrario. So con sicurezza che nessuna sconfitta se assorbita come totale, completa, intera, può portarti a un pensiero positivo, è sempre devastazione. E visto che di devastazione si può anche morire, scelgo una punta di arroganza zuccherina per ogni sconfitta che mi piomba addosso. Di meglio non so fare, purtroppo.

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(203) Naturale

Quello che è da noi riconosciuto come naturale, molto probabilmente non lo è. Molto probabilmente lo abbiamo acquisito, consapevolmente o inconsapevolmente, da qualcuno e neppure lo sappiamo. Questione genetica o educativa, spesso entrambe le cose e molte altre variazioni sul tema. Spaventoso.

Come posso affermare che io sono così perché così sono fatta e non perché così sono diventata, perché così le cose, le persone, la vita mi hanno modellata?

Naturalmente questo ragionamento puramente speculativo diventa ridicolo di fronte all’urgenza delle cose reali, ma ogni tanto il pensiero trapassa come una freccia gli strati pesanti che ci separano dal cosmo e lì si libera strattonandoci i neuroni e tutto il resto.

Naturale che io sia qui a scrivere, forse perché l’ho sempre fatto? In quale realtà? In che tempo? Quale me ha già percorso lo stesso tratto?

Ecco perché lavoro sempre, perchè quando mi fermo rischio di perdermi e poi son cavoli amari per tutte le me in circolazione, in ogni strato astrale, di qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo. Una disfatta, insomma.

 

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