(532) Clandestino

Nascosto, perché sai che esce dalle regole. Segreto, perché sai che sarà giudicato. Un viaggiare senza biglietto che verrà punito, prima o poi. Devi solo valutare se vale la pena rischiare. E se le conseguenze ricadono solo su di te o anche su chi non c’entra nulla, e in quel caso rinunciare sarebbe la cosa migliore.

Il pensiero è clandestino, lo deve essere per forza, è libero e così deve rimanere. L’azione ha limiti, ne deve avere per forza, deve concretizzarsi nel rispetto della vita – quella propria e quella altrui.

Ma se amo smisuratamente la clandestinità del mio pensiero, sono anche terrorizzata da quella del pensiero altrui. Dal pensiero clandestino tradotto in azione malvagia e senza scrupolo. Essere danneggiata senza aver alcun tipo di responsabilità mi fa rabbia. Gran brutta bestia la rabbia.

Ci sono fughe sacrosante, però, e non c’è biglietto che tenga. 

Non tutto ciò che è nascosto ha natura malvagia. Anzi. Le cose più tenere e vulnerabili sono nascoste ai nostri occhi per non venir sciupate.

Non tutto ciò che è segreto è per forza da condannare. Anzi. Il giudizio umano spesso è privo di compassione e falcia tutto ciò che non sa capire.

Non tutto ciò che è clandestino lo è con l’intento di ledere. Anzi. Viaggiare senza biglietto è portarsi addosso il peso della mancata accoglienza.

Il mio pensiero clandestino bypassa gli ostacoli cercando vie alternative che non compromettano il mio essere integra. Mi permette di sondare certe profondità, ma non di calpestare la mia indole dignitosa, né quella altrui. Il mio pensiero clandestino segue regole ben più rigide di quanto si possa immaginare, perché la sua condizione non è volta alla fuberia e non fa dell’anarchia una scusa per rendere lecito ciò che lecito non è.

E poi, la libertà quella vera veste gli abiti della clandestinità. E guai se non fosse così.

 

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(478) Dolcetto

Ce la metto tutta a scovare l’aspetto consolante negli eventi bastardi. Ce la metto talmente tanto tutta da risultare patetica a me stessa. E non è affatto consolante. Nella mia stravagante forma mentis non è prevista la sconfitta totale. Francamente, non riesco a valutare una qualsiasi sconfitta come intera, completa, la considero sempre sconfitta per massimo il 97%. Sospetto il perché, però mi sembra una conclusione semplicistica e sono portata a pensare che non stia tutto lì.

Entra in ballo il concetto di umiltà, virtù della quale probabilmente sono sprovvista ma che ho in grande considerazione. Forse, quel 3% che ripara le mie sconfitte dall’essere complete è proprio il mio dolcetto. Lì ci metto quello che mi può tirar su un po’ il morale: il fatto che comunque ci ho provato, che comunque ho imparato qualcosa in più, che comunque se dovessi affrontare di nuovo la stessa situazione me la caverei meglio. Cose così, cose che mentre le pensi ti fanno sentire meno fallita, cose che ti racconti perché non vuoi infierire, hai compassione di te stessa e facendo un paio di conti non fai torto a nessuno se ti crogioli due minuti in quel benedetto 3% che ti concedi come premio di consolazione.

E non voglio dilungarmi sul fatto che nessuno mai ti offre un dolcetto quando crolli sconfitto, ti viene data una pacca sulla spalla che sa di pietà più che di comprensione, pertanto il dolcetto che riservi per te può essere il serbatoio segreto di energia a cui attingere quando tutto sembra finito.

Certo, se apri il dolcetto non trovi mai il biglietto della fortuna che ti fa fare la svolta, ma anche se disfatta mica sei così idiota da pensare il contrario. So con sicurezza che nessuna sconfitta se assorbita come totale, completa, intera, può portarti a un pensiero positivo, è sempre devastazione. E visto che di devastazione si può anche morire, scelgo una punta di arroganza zuccherina per ogni sconfitta che mi piomba addosso. Di meglio non so fare, purtroppo.

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