(1019) Disposizione

Disporre le cose con cura è un’attività che mi dà parecchia soddisfazione. Le cose messe lì così, a casaccio, mi mettono a disagio. Non è tanto una ricerca di perfezione (come erroneamente si potrebbe pensare) è una soddisfazione dell’occhio (mio) che guarda. Mi sento bene quando quello che guardo ha una certa logica nel suo apparire, una certa forma, una certa pulizia, una certa luce, una certa eleganza.

Non posso uscire di casa indossando colori a caso. Non posso mangiare con il cibo buttato sul piatto come viene. Non posso lavorare su una scrivania dove le cose siano state disposte malamente.

Potrebbe essere una malattia sotto mentite spoglie, me ne rendo conto, ma non mi faccio venire un attacco di panico se qualcosa di inguardabile mi colpisce l’occhio (e ne vedo di cose ammassate senza criterio), anzi non faccio una piega. Tutto quello a cui bado per non contravvenire alla mia benedetta regola della buona-disposizione è metterci del pensiero ogni volta che scelgo il da farsi.

Questo è il motivo per cui nel mio guardaroba ci sono pochi colori (il nero vince su tutti), ho una logica a cui mi attengo. Con un certo rigore e con assoluta continuità. Curare quotidianamente un equilibrio che posa su questa logica è il meglio che posso fare. Il resto mi sfugge, il resto è Caos, il resto è quel che deve essere. Ma per stare sul filo e non cadere giù, la buona-disposizione è la soluzione che adotto quotidianamente. E funziona.

Stop.

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(864) Musical

Nel bel mezzo della scena parte la musica e – zaaaaak – occhio di bue su di te mentre spieghi al mondo, cantando ovviamente, cosa ti passa per la testa e come stanno andando le cose. Il mondo a quel punto non può fare finta di nulla, ti deve per forza dare retta e tu gliela dici tutta, come dovrebbe essere sempre, finché l’ultima nota non si spegne e con un ultimo acuto dell’ostrega si spegne anche l’occhio di bue e si ritorna alla normalità. Così dovrebbe essere anche nella vita reale. Una sospensione dove puoi cantare quel diavolo-che-ti-pare e poi, quando hai finito, si riprende la normalità.

Immaginiamo che fosse veramente così, che funzionasse in questo modo, io starei sempre lì a cantare e ballare. In pratica non farei altro. Non ci arriverei neppure al secondo atto, schiatterei prima.

Ecco, in certi momenti della mia giornata però vorrei davvero poter fare ‘sto benedetto fermo immagine per mettermi a cantare a tutti quello che si meritano. Nel bene e nel male, neh. Che ne so: sono in coda alla cassa del supermercato, finisce il rotolo della carta-scontrini e la fila si blocca. No problem, parte la musica (un bel Rockabilly stile Stray Cats) e con un balletto saltato di cassa in cassa si passa il tempo finché la fila si sblocca. Sarebbe divertente no? Potrebbe succedere nel bel mezzo di una discussione, o di una riunione importante, o di un incontro imbarazzante… millemilamodi si possono trovare per infilarci dentro un inframmezzo musicale. Basta averne voglia. Perché no?

Ok, anche se sembra un po’ estrema ‘sta cosa volevo confessarla perché è sempre stato un mio sogno. Mi piacerebbe che qualche volta la vita fosse come un film. Un musical, anzi. E che ballare e cantare quello che ci sta attraversando dentro fosse normale, fosse il modo per comunicare agli altri quello che dovrebbe uscire allo scoperto prima di farci implodere malamente. Ci sarebbe un po’ di caos in più, vero, ma il morale ne gioverebbe parecchio.

Comunque è giusto dirlo: nonostante non sia così con tutto il casino che facciamo è sempre difficile capire cosa ci capita dentro, figuriamoci capire al volo cosa capita dentro agli altri. E qui ce ne sarebbero di cose da dire.

Stacco musicale.

(…)

 

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(778) Risposte

Più invecchi e più capisci il significato del detto “è più difficile fare la domanda giusta che trovare la risposta giusta”. Saper fare le domande giuste non è cosa da poco, non da tutti, soprattutto non funziona sempre. Essere sintonizzati con il mondo sottile è soltanto una delle premesse imprescindibili, il resto è anche questione di culo e si sa che le botte di culo c’han un bel carattere tutto loro, colpiscono a seconda dell’umore.

Però qualcosa possiamo fare, senza contare troppo sul Fato, per esempio: se hai una sensazione stramaledetta che ti si infila in tutti i pori e fai finta di nulla posizionando la tua domanda su un punto di vista esterno a te, la risposta che riceverai sarà quella che il Caos vorrà. Non hai scampo, l’Universo farà di te uno scempio perché sei stato scemo e te lo meriti.

Quindi essere presenti a se stessi mentre si valuta una situazione ti può già aiutare ad avere le prime risposte utili per procedere. Ma non basta. Stare attenti, ma proprio all’inverosimile, a quello che succede dentro la testa e il cuore degli altri è ciò che ti permette di arrivare alle domande davvero importanti, quelle giuste, quelle che una volta che le hai individuate ti offrono risposte che ti rendi conto erano già tue e manco ti servono più. Questa è Arte. Questa è la condizione a cui anelare per vivere da Illuminati.

Già capire noi stessi per metà è un’impresa, capire gli altri è utopia. Capire un po’ gli altri, però, è probabile che se ci si basa su noi stessi (quella metà con cui ci possiamo raccapezzare) e si aggiungono alcune varianti, il contatto si compia. Gli occhi sono lo specchio del cuore? Può darsi, o dei pensieri. In fin dei conti tutto il nostro corpo parla di noi anche se non ne siamo consapevoli e non ce ne curiamo. Siamo libri aperti? Mah, forse sì, fermi a pagina due però.

Ritorniamo al topic della giornata, le risposte. Ci fissiamo sull’avere risposte dando poca importanza alle domande, ma non solo: se le risposte non ci piacciono cosa facciamo? Le ignoriamo. Semplicemente. Le risposte vere non sono mai confuse, non sono mai piene di sfumature. Bianche, nere, al massimo grigie, ma non ti danno adito a dubbi. Le risposte vere son risposte mica bluff.

Quindi mi domando: perché ci incaponiamo sul concetto di risposta, se fin dall’inizio non c’è in noi la minima intenzione, il minimo coraggio, di arrivare al punto per prendere una decisione? Semplice: noi siamo dei bluff.

Al diavolo le bussole, quindi, consegnamoci al Caos dell’Universo che la sa ben più lunga di noi!

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(653) Jazz

Un ricamo, un volo con ritorno e nuovo volo, un dare per raccogliere altrove, un passo e poi un altro in direzione arzigogolata, ma efficace. Tenere il ritmo a suon di Jazz è un’impresa. Ma si può fare.

Devi solo essere disposto a rischiare un po’. Ti affidi al Cielo e a quel che verrà.

In questi giorni sto vivendo un’avventura Jazz che non mi sarei manco mai immaginata, a raccontarla ora mi vien difficile perché ne sono immersa fino oltre il collo e le parole vanno dove vogliono senza chiedermi il permesso. Non ho voglia di fermare i pensieri, non ancora. Allora perché sono qui a scrivere? Perché il mio impegno l’ho preso sul serio, mi ero promessa che nonostante tutto lo avrei fatto, anche quando completamente incapace di tenere le briglie in mano – nonostante non abbia bevuto un solo goccio d’alcool. Eccomi qui, allora.

Avere la festa nel sangue, le orecchie alla Dumbo che sventolano seguendo note e voci. Così mi sento.

E mi rendo conto che si tratta di uno stato d’animo benedetto che dovrei metterlo al sicuro per tirarlo fuori quando l’energia scarseggia, quando il grigio sale al trono usurpando il potere, quando le risorse mancano così come manca l’aria. Dovrei pensarci ora, ma come si fa?

Rincorrere il cuore che saltella? Domare i neuroni che sfrigolano? Ma perché? Lascia che il caos faccia il suo lavoro, ci sarà altro tempo per rimettere in ordine.

And all that jazz!

Come on babe, why don’t we paint the town, and all that Jazz
I’m gonna rouge my knees and roll my stockin’s down
And all that Jazz
Start the car, I know a whoopee spot
Where the gin is cold but the piano’s hot
It’s just a noisy hall, where there’s a nightly brawl
And all – a-that – Ja-yazz
Slick your hair and wear your buckle shoes, and all that jazz
I hear that Father Dip is gonna blow the blues, and all that jazz
Hold on hon, we’re gonna bunny-hug
I bought some aspirin down at United Drug
In case we shake apart and want a brand new start
To do – a-that – Ja-yazz
No I’m no-one’s wife, but oh I love my life
And all… that… Ja-yazz… that Jazz!

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(469) Apoteosi

Ci sono momenti di una precisione sbalorditiva, dove tutto quello che prima era caos si palesa in disegno perfetto. Perfetto nel bene e nel male, intendo. Non so come descrivere in modo appropriato la condizione che si va a creare, sono sicura che ci sono Leggi fisiche che ne determinano la nascita, la durata e l’eco, ma ogni volta che mi ci sono trovata in mezzo l’ho saputa riconoscere a naso.

Ne senti l’odore, alzi il viso, sniffi l’aria e arriva. La certezza che quello è il momento della catarsi, dove tutto trova posto e ha un senso che fino a pochi secondi prima non aveva. Ogni Essere Vivente sa di cosa sto parlando. Gli animali e le piante lo sanno meglio di tutti, sono i più veloci del Creato a rendersene conto perché non lo devono tradurre in pensiero e parole, basta il sentire e tutto diventa chiaro: sanno cosa fare e come farlo e lo fanno.

Noi ci mettiamo un po’ di più, l’apoteosi emotiva  si fa fatica a maneggiarla, rischi che ti scivoli di qua o di là, che si gonfi e che ti avvolga come zucchero filato su uno stecchino per farti morire soffocato. Insomma, mica son cose da prendere alla leggera!

Spesso decidiamo che il rischio di rimanerci secchi è troppo alto e facciamo come se non ce ne accorgessimo, ma il naso non lo puoi controllare, sniffare l’aria è un attimo e da lì non c’è ritorno. In un nanosecondo dal caos si fa ordine, dall’insensato prende forma la logica, dal pressapoco si passa al nitido.

L’apoteosi. E non è tanto per dire.

 

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(314) Riparo

Un riparo per la pioggia, per il freddo, per il buio, per il vento che ti può spazzare via anche se ti soffia dentro nelle viscere. Dev’essere un diritto di tutti. Non possiamo vivere alla mercé degli eventi confidando sul fatto che se ne resteranno lontani da noi. Succederà pure agli altri, non a me.

Un riparo dagli occhi che scrutano, mani che frugano, avidità che ti depredano. Perché non siamo tutti uguali e confidare nella bontà del Genere Umano è consegnarsi al volere e al potere degli altri e no, non ce lo possiamo permettere.

Responsabilmente, essere presenti nel nostro presente è diritto e dovere al contempo. Perché delegare a qualcun altro ciò che è nostro potere, nostro diritto e dovere, nostro e basta?

Lo vedi subito quando hai di fronte una persona che lo sa, che ci pensa, che agisce in questo senso. E impari.

Un riparo è quel luogo – spesso dentro di te – dove puoi andare quando tutto è caos e devastazione. Grandi Maestri ce lo hanno insegnato e seguirne l’esempio potrebbe diventare la nostra salvezza.

Il punto è: vogliamo salvarci?

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(245) Ordinare

Mettere in ordine. Arrivo fino all’esasperazione, poi metto in ordine. Dal preciso istante in cui inizio arriva piano piano e inesorabile il sollevamento. Respiro meglio.

Mi arrabbio con me stessa per aver atteso tanto, ma forse è così che funziono e non ci posso fare niente. Conclusione troppo comoda? Forse. Assicuro che non è affatto comodo il tormento che ci sta in mezzo, però. Leggera forma di masochismo? Eh, vabbé, mi arrendo.

Mettere in ordine, per me, significa fondamentalmente buttare il superfluo e la scelta di ciò che è superfluo mi è fastidiosa, a tratti dolorosa. Il caos, a modo suo, può essere confortante. L’ordine no. Non è per nulla confortante, l’ordine è crudele, ti fa vedere esattamente tutto ciò che c’è e ciò che non c’è più.

Non fa piacere a nessuno questo tipo di crudeltà… soltanto ai masochisti. Quindi? No, forse sono pigra e codarda, ma non masochista. Ecco.

Mi sento meglio? Ni. Ora che ho visto e scelto, mi prendo il mio carico odierno di crudeltà sulle spalle e cerco di smaltirlo con un buon sonno. Di più non so fare.

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(125) Caos

Il mio Caos è lo Spazio Sacro in cui nasce tutto. Tutto cosa? Tutto il progetto di me-persona. Me lo devo ricordare ogni volta che ho giornate come questa dove il Caos mi sembra la fine e non l’inizio.

Non ho un modo chiaro (e forse neppure intelligente) per spiegarlo a me stessa, figuriamoci agli altri. Anche a scriverlo non risulta migliore, né più nitido né più malleabile: il mio Caos è una carogna.

Mi annichilisce, mi sovrasta, mi polverizza. Poi mi faccio una doccia e il mio Caos si placa per far risalire a galla una boa.

Al momento la boa mi sembra bellissima, è la mia salvezza. Se faccio l’errore di ritornare, però, nella realtà prima del dovuto la boa diventa bolla di sapone e puf. Sparisce.

Processo irreversibile e dinamica immutabile. Errore che commetto spesso, anche oggi, ma il mio Caos è lo Spazio Sacro in cui nasce il progetto di me-persona.

L’ho scritto per ricordarlo meglio, senza la speranza che mi risulti migliore o nitido o malleabile.

Il mio Caos rimane una carogna.

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