(831) Incasellare

Io mi rendo conto che così diventa più facile. Mi rendo conto che una volta che hai tutto al posto che più ti sembra adatto stai tranquillo. Mi rendo conto. Mi domando, però: sei sicuro di non sbagliarti?

Sei sicuro che quella cosa vada proprio lì e non là? Che quella persona in quella casella ci stia da dio anziché in quell’altra dove hai lasciato sospeso un dubbio? Come fai a pensare che non puoi sbagliarti e che un tuo eventuale errore non ti precluda grandi cose? Grandi sorprese? Grandi successi? Sei così sicuro di te da bandire ogni remora e andare fino in fondo, obiettivo: ordine. Bravo.

Perché l’ordine non dà sorprese, non dà scompiglio, non dà ansia. Giusto. Mettere in ordine è pure la pratica meditativa moderna che va per la maggiore (le mamme non ti prendono più a sberloni se non risistemi camera almeno una volta a settimana, e qualcosa ci si doveva pur inventare per ristabilire l’ordine sacrosanto, eh!). Siamo d’accordo. Occuparci con discernimento degli oggetti si fa e si deve fare, ma delle persone? Come puoi pensare che siamo tutti soprammobili pronti a rendere grazie al tuo volerci disporre su un ripiano o dentro un cassetto o su una scansia o dove-diavolo-ci-vuoi-mettere? Come puoi pensare che rimarremo lì soltanto per farti stare tranquillo? Non scherziamo, dai!

E così un bel giorno le caselle franeranno le une sulle altre, le persone si mescoleranno, i ruoli reciproci diventeranno terra di conquista e tu sarai nel pallone. Penserai che tutto il mondo ce l’ha su con te, che tutto il mondo sta godendo della tua confusione, della tua frustrazione, della tua stupidità. Oh, no, scusa tu non te ne accorgi neppure di quanto sei stato stupido, ti piace più l’immagine di te che è vittima piuttosto che carnefice idiota. Ecco: game over.

Non ce l’ho con nessuno, non oggi almeno (strano vero?), è soltanto una riflessione. Un valutare quello che facciamo di solito per tenere tutto sotto controllo, per non avere ansie sparse che ci sfarfallano il cervello e per non sapere più da che parte girarci. Non sappiamo come proteggerci, non sappiamo di chi fidarci, non sappiamo cosa ne sarà di noi.

Il fatto che sia proprio così, siamo vulnerabili e confusi e persi, non è che una delle questioni che ci rendono umani. Ha a che fare con l’insondabile, con il movimento perpetuo delle cose, con l’apparizione e la sparizione del nostro corpo e della nostra mente (non necessariamente in contemporanea). Il non avere il controllo di niente non significa perdere il controllo di sé stessi. Significa che non possiamo controllare gli eventi e neppure gli altri Esseri Viventi. Possiamo controllare noi stessi nell’interazione con l’ambiente, però. Non è abbastanza forse? Non è incredibilmente gratificante pensare che un certo tipo di consapevolezza di noi stessi – della nostra mente e del nostro corpo – ci può mettere in una condizione di sicurezza tale da farci scordare l’ansia che ci prende allo stomaco ogni volta che qualcosa o qualcuno si muove attorno a noi?

Incasellare tutto non va bene neppure se sei un contabile, con la vita non funziona, gli Esseri Umani non sono precisi e perfetti come i numeri. La nostra natura è caotica e misteriosa, ma è un bel viaggio scoprirsi e maneggiarsi per godersi l’avventura senza timore di venire azzannati dalla vita appena ci distraiamo un po’.

Appaiamo per bene i calzini, sistemiamo i quadri che pendono, tappiamo le buche in giardino, lucidiamo per bene il cruscotto dell’auto, aggiustiamoci la cravatta o i capelli. Va tutto bene. Evitiamo di riservare lo stesso trattamento a chi ci sta vicino, però, perché se poi riceviamo un calcio in culo non possiamo fingere di non saperne il motivo. Non serve neppure chiedere. Davvero. E la cosa peggiore? Il danno oltre la beffa? Vi ritornerà di colpo l’ansia, con gli interessi. Davvero.

 

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(739) Scappare

Scappare dai pensieri che non servono a niente, quelli che anche se sono giusti, anche se sono sacrosanti, sono ormai il passato e sono ormai solo zavorra. Non si mettono pezze a quel che è stato, non si riempiono le buche e non si cuciono gli strappi, ormai tutto è dato e tutto è fatto. Amen.

Scappare non significa che puoi dimenticartene, che sei un’altra te e che non sei ancora sofferente o incazzata. Significa soltanto concentrarsi su quello che stai facendo e su chi sei adesso. Perché quei pensieri boicottano il tuo ora e lo faranno per sempre se tu glielo permetti.

Scappare è uno scarto di lato, è un calcio che tiri per allontanare la palla avvelenata da te. Scappare non significa che chiudi gli occhi e tutto si cancella, non è un atto codardo per far finta di nulla, è proprio l’azione che ti salva la vita perché non c’è più niente per cui combattere.

Non si può rimurginare per sempre, ci si stanca anche. Quindi lasciamo stare chi insiste che dobbiamo andare fino in fondo e analizzare ogni dettaglio per accettarlo e per digerirlo. Fatelo voi. Non ho niente da digerire, è già andato tutto giù, voglio solo allontanarlo da me perché è dannoso per la mia salute. Non ho più conti in sospeso, ho solo il mio adesso e lo voglio leggero, lo voglio pulito, lo voglio addirittura splendente. Vi disturba? Spero abbiate cose ben più importanti da fare, magari scappare dalla vostra zavorra – che non sarebbe male, senza dovervi preoccupare di come mi gestisco i pensieri.

No, non ce l’ho con voi, sto solo dicendo quello che anche voi state pensando: basta con le menate, andiamo avanti. Vero? Allora rimettiamoci in movimento, qualsiasi sia stato il nostro ieri ormai non ci appartiene più. Il presente è ancora nostro, però, vediamo di ricordarcelo.

 

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(683) Impulso

Ognittanto mi viene l’impulso di prendere la bicicletta e pedalare. Non lo faccio da anni, ma ognittanto ci penso e se avessi una bicicletta a portata di mano lo farei. La inforcherei e inizierei a pedalare a più non posso.

Quand’ero bambina era una delle cose che mi piaceva fare di più, dal triciclo in poi, ogni giorno. Potevo prendere la bicicletta e pedalare nella corte (all’inizio), dopodiché ebbi il permesso di pedalare fino a scuola (che era in paese), poi fino a poter fare il giro dei paesi limitrofi (ero ragazzina) e infine alle superiori: via… alla conquista della città (che era distante all’incirca 17 km).

Il mio primo mezzo. Pedalare  incontro alla libertà era la mia gioia.

Sostituito a diciasette anni dal motorino e a diciannove anni dall’auto, che non sono da meno, anzi, l’ho piano piano abbandonata e mi dispiace. Mi succede anche ora, con l’auto, di avere spesso l’impulso di salirci e partire – e appena posso lo faccio anche – quindi immagino sia proprio una questione legata al come mi sento quando sono in movimento, quando la strada si fa mangiare dal mio passaggio e tutto quello che mi sta attorno cambia scivolando via, lasciandomi leggera.

Mentre crescevo ho dovuto imparare a dominare gli impeti, quelli che mi facevano partire in quarta senza curarmi delle conseguenze. Le conseguenze mi hanno insegnato che, magari, usare prima la testa non sarebbe stata una cattiva idea. Ok, ho imparato, forse fin troppo bene. Mi sono accorta che riesco a sedarli ancor prima che si affaccino in superficie. Significa avere il controllo, certo, ma questo controllo s’è digerito da tempo ogni entusiasmo. Possibile che si debba sempre rinunciare al bello per non finire nei guai?

Non so quanto mi convenga ripristinare la vecchia via, quella senza filtri. E quando si parla di convenienza è segno che la vecchiaia è già qui, ed è qui per restare. Aiuto.

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(448) Fraseggio

fraéggio s. m. [der. di fraseggiare]. – 1. Il fatto, e soprattutto il modo, di fraseggiare, di congegnare le frasi. 2. In musica, l’arte e la pratica del porre in rilievo, nell’esecuzione, gli elementi espressivi del discorso musicale (legature, coloriti, abbellimenti, ecc.) che costituiscono un periodo avente in sé un senso, cioè una frase.

La musica non è sempre quella. Non lo è mai. La musica cambia, come cambia il respiro a seconda del nostro stato emotivo. La musica modifica la propria sostanza anche quando lo spartito non ne tiene traccia. 

Ingiusto pensare che manchi di movimento, manchi di interesse alla vita. Siamo noi, spesso, che non abbiamo orecchie abbastanza sensibili da rendercene conto, che non abbiamo voglia di catturare quello che nell’aria rimane sospeso ogni volta che la musica si sposta un po’ per dare spazio al silenzio.

Se stessimo più attenti al nostro battere di cuore e al nostro pulsare di sangue, avremmo ben chiaro di quanti ricami siamo capaci. E i ricami servono, altroché se servono, per rendere migliore quel che così nudo e crudo potrebbe spaventarci e toglierci il vigore.

La musica, la nostra, è esattamente ciò che noi vogliamo che sia, solo che spesso non la vogliamo abbastanza, la diamo per scontata e pensiamo non ci costi nulla. La musica ha un costo alto, può rendere solitario il nostro viaggio, può renderci odiosa la vicinanza degli altri, può rendere ostico tornare alle abitudini che ormai non ci appartengono più – perché se sei nel flusso della tua musica, quella ti trasporta oltre, sempre uno scoglio più in là.

La musica è movimento, in battere e in levare, e non è mai la stessa, anche se la partitura sembra dirti il contrario. Leggi meglio, ascolta meglio. E vai. Vai!

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(433) Elucubrare

E passano i giorni e io lì sempre presa in rimurgini e smacchinamenti babsiani che mi perdono per strada mille volte tanto da rendere il mio Iperuranio un posto ostile e minaccioso. Ancora giorni che passano e il ponderare e riflettere (che sono sinonimi, ma non nelle sfumature) e sistemarmi in ipotetici nuovi Iperurani soltanto per ammettere che non ci starei neppure troppo comoda e quindi è meglio stare dove sto. E ancora giorni (perché i giorni – se sei fortunato – non finiscono troppo in fretta) dove il pensiero diventa nenia e ti rende disgustoso anche il solo fatto che stai ancora impelagata nel fondale melmoso di quella palude che non sai neppure come ci sei finita lì dentro, ma ne cominci ad avere abbastanza perché manca l’aria. Eppure ci sono ancora giorni, e giorni, e giorni…

giorni…

giorni…

e poi ti stanchi. Decidi che ti dai una ripulita, spazzoli di qua e di là quell’Iperuranio che tutto sommato non è poi così malvagio e le cose cambiano. Vedi proprio che le cose cambiano. Non te lo stai immaginando, le cose cambiano sotto i tuoi occhi e non sei più abituata a quel movimento, ti gira la testa, hai la nausea, hai quasi voglia della palude – maledetta – ma sei troppo stanca per riprendere gli smacchinamenti tormentosi e ti guardi mentre implori una tregua.

Ti fermi a fare le coccole alla tua gattina che se ne frega dei dettagli perché sono comunque dettagli che non la riguardano e la osservi ammirata. Perché non ti assomiglio un po’ di più, Mei? Insegnami a non entrare nella palude se non per acchiappare una preda e scappare agile e soddisfatta. Dai.

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(331) Glifo

Nascondere significati all’interno di un’immagine: geniale. Se poi l’immagine è semplice, quasi brutta, quasi ridicola, quasi assurda, ancora meglio.

Si tratta di catturare l’attenzione – in qualsiasi modo ti venga in mente – e arpionarla lì e farla prigioniera. A tempo indeterminato. Diventa un’ossessione, diventa una sorta di viaggio a spirale dove cadi cadi cadi e non ti chiedi neppure il perché o dove sei diretto perché non te ne frega niente.

Mentre cadi non c’è sofferenza, c’è movimento e nel movimento la mente suggerisce e scandaglia ogni spazio che le si apre davanti. Quello spazio dura un istante e viene sostituito con un altro spazio, forse più piccolo o più grande – che importa? – e la velocità può rallentare o schizzare oltre ogni limite senza scalfire la superficie del tuo enigma. Resti comunque lì, qualsiasi cosa succeda.

Ecco, se dovessi proprio scegliere cosa essere, sceglierei di essere un glifo.

 

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(208) Immobile

Puoi darti un gran daffare, puoi avere una vita sociale vivace e essere un master del multitasking, ma se ti imponi l’immobilità dell’anima sei finito.

In un certo qual modo, l’anima che si muove ti provoca controindicazioni fastidiose, ma imbalsamarla non puoi – per quanto tu faccia – e lei appena appena riesce a ripigliarsi si vendica.

Immobile non ci so stare. Non a lungo, almeno.

Certo che non è facile starmi accanto, comporta un certo impegno, ma immobile non ci sto soltanto per non restare sola. Che gioco idiota sarebbe?

Non fa parte di me l’immobilità d’anima. E non mi dispiace.

Quella, però, del corpo è curiosa: se mi viene imposta, trovo il modo di bypassarla, se me la vado a cercare mi riesce benissimo. A meno che non mi trovi in situazioni di meditazione di gruppo, ma di quello mi sembra di aver già parlato.

Ad ogni modo, cosa succede quando tu non ti muovi fisicamente? Scopri che è tutto il resto che si muove. Osservare questo movimento può risultare illuminante. Ogni tanto lo faccio, resto lì immobile di corpo e in piena forsennata mobilità d’anima e il contrasto è curioso. Il corpo perde il suo peso e potresti essere un’aquila in quel momento. Potresti, davvero.

Immobile lo si può essere in molti modi, il migliore è quello che ti tieni per te, probabilmente, quindi ora dovrò cercarmi un nuovo modo per applicare l’immobilità, questo me lo sono bruciato.

Eh.

 

 

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(191) Eclissi

Mi è successo spesso di assistere a un’eclissi. Lasciando da parte quella del sole e della luna e di eventuali altri astri e affini, non mi è sempre dispiaciuto. In certi casi è stato un vero sollievo, veder sparire chi mi stava decisamente rovinando le giornate senza che io dovessi far nulla di particolare (il mio potere del desiderare-fortemente-qualcosa-finché-accade spaaaaaaacca) è stata una liberazione.

Eppure, se potessi far riapparire altre persone sarebbe bello. Quelle, quando si sono eclissate, mi hanno lasciato un gran vuoto.

Ora: il mio sacrosanto diritto a eclissarmi lo difendo con le unghie e con i denti, lo utilizzo a mio piacere e in ogni momento in cui ne sento il bisogno, senza far torto a nessuno e senza far danno a nessuno, ma senza far differenze di sorta perché quando lo faccio è davvero necessario che io lo faccia.

Se riappaio è perché sono guarita, perché sto bene, perché ho ancora voglia di essere parte della vita degli altri. Se non capisci non importa, basta che lo accetti senza fare domande. Se non lo accetti non importa, significa che nella tua vita io non è il caso che rientri. Patti chiari e lunga vita a tutti.

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(112) Ispirazione

Quando manca te la devi far venire. Non è che uno si muove soltanto se è ispirato, bisogna farlo e basta. In linea generale vedo troppa gente che aspetta l’ispirazione prima di muoversi e nel frattempo si lamenta.

Ecco, non è che io sia baciata da ispirazioni luminose e costanti, tutt’altro, e quando attraverso periodi non proprio motivanti mi lascio andare un po’, ma ho provato sulla mia pelle che più non ti muovi e più fatica fai a muoverti. Anche se l’ispirazione t’arriva e ti colpisce dritto in fronte sul terzo occhio, se sei anchilosato perché sono anni che non ti schiodi da dove stai… bé, l’ispirazione avrà la peggio.

Vincerà la tua pigrizia.

Non facciamoci ingannare, ci sono diversi tipi di pigrizia e generalizzare non fa bene a nessuno. Per esempio io sono affetta da quella fisica: appena smetto di impegnarmi in un’attività fisica (per l’amor del cielo, mai stata un’atleta, ma certi sport li ho praticati pure io) che sia la palestra, la piscina, la pista di pattinaggio o quella di ballo, poi a ricominciare… campa cavallo! (rima involontaria, scusatemi)

Ok, dovrò guarire da questa indolenza, me ne rendo conto sempre di più mano a mano che il tempo passa e invecchio, ma… ma in tutta sincerità se la tua mente è attiva e capace di movimento, a un certo punto il tuo corpo obbedisce.

Viceversa è un casino.

Se sei affetto da pigrizia mentale, auguri. Davvero, credo che sia la malattia peggiore, quella più diffusa e quella più sottovalutata. Inizia a prenderti quando sei piccolo e non ti molla per tutta la vita. E se la tua vita è destinata a durare a lungo, aver a che fare con una mente pigra è una condanna che non augurerei a nessuno.

Detto questo, ribadisco il concetto: attendere l’ispirazione per fare qualcosa (qualsiasi cosa) è da rassegnati, da pigri, da lamentosi, da perditempo.

L’ispirazione bacia i vivi e non i morti.

Daje.

 

 

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(48) Movimento

Succede che mi allontano e mi avvicino, mi allontano e mi avvicino, per lunghissimi periodi e per spazi imbarazzanti. A tutto, a tutti, soprattutto a me. Non è voluto, non è studiato. Succede, perpetuamente, e io a malapena ne registro la portata. Finché qualcosa non inizia a farmi male.

Ecco, il dolore mi risveglia.

Odio ammetterlo, ma è il solo modo di riportarmi dentro al movimento che sono io. Sì, perché è chiaro che io sono movimento anche quando mi sembra di essere immobile, anche quando sono talmente lontana da me da non percepirmi come essere respirante. Sono un movimento scomodo. Mi dò fastidio da sola, spesso.

Il tormento è doloroso.

E’ quello stare sempre in un posto diverso eppure inchiodata a una dimensione che non mi fa abbracciare nulla per troppo tempo. Scappo quando il dolore diventa insopportabile.

Non è che mi piace, non è una scelta, è solo così che succede. Succede per motivi ovvi e meno ovvi, per origini scoperte e origini occulte. Succede e basta.

Mi manca la forza per arrivare a un perché definitivo. Non credo sia la cosa importante. E’ importante il fatto che succeda.

Sta a me arginare i danni. Quando possibile, ovvio.

b__

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