Pagina duecentocinquantuno, il mio segnalibro si è fermato lì. Mancano ancora tot pagine alla fine di “The Game” di Alessandro Baricco e non mi decido a proseguire. Blocco del lettore. Sto cercando di capire il perché. Quindi cosa faccio? Essendo coinvolta nel gioco di cui il libro tratta faccio una cosa del tutto insana: cerco su Google chi ne sta parlando in rete.

Appena m’infilo in quei tunnel filosofici dove gente, con tanta cultura così, ha capito la sua mi gira la testa. Volano troppo alti, io sono una concreta, una che ha dei tempi obbligati di digestione-informazioni che la inchiodano a terra. Se non capisco mi fermo. Se non sono sicura di aver capito mi lascio il tempo di sedimentare per capire meglio. Quindi chiudo Google e chiudo il mondo fuori per riprendere in mano il gioco e rileggere quello che ho sottolineato, quello che ho annotato.

Pagina quarantaquattro

Il mio commento è una faccina a matita: :O (stupore). Non ho aggiunto motivazioni, ma il paragrafo è chiaro, quindi lo riporto pari pari.

(…) invece che generare molti mondi belli e diversi, investi il tuo tempo a inventare un unico ambiente in cui si possano versare tutti i mondi che ci sono. (…) non perdere tempo a mettere a punto cose che non possono avere un grande sviluppo; piuttosto cerca di inventare cose il cui sviluppo è infinito perché sono state pensate per contenere TUTTO.”

Che altro c’è da aggiungere? Si deve partire da qualcosa, spesso si parte da concetti deboli per costruirci sopra grattacieli, qui c’è una base di cemento armato e focalizzarla nel marasma è uno delle solite affascinanti epifanie di Baricco.

Pagina cinquantadue/cinquantatre/cinquantaquattro…

Qui c’è la parte dove capisci meglio il percorso evolutivo, e quando sai raccontare storie è ovvio che il piacere della lettura si prende tutto. Ho fatto dei piccoli segni all’inizio della pagina e alla fine perché sottolineare ogni riga equivaleva a uno scempio di fatto, non si scarabocchiano i libri!

Comunque, la tecnologia che apre la mente per apportare nuove migliorie è la sostanza di tutto. Siamo parte di una sola macchina respirante: io faccio un pezzetto, tu ne fai un altro, altri ne fanno altri mille di pezzetti e insieme facciamo un bel salto quantico. Funziona così insieme si va oltre, si salta, si cresce, si raggiunge l’obiettivo. Sottolinearlo serve un po’ a tutti, credo.

Pagina sessantanove, ho sottolineato in giallo (significa che devo ricordarlo, ma che do per scontato lo ricorderò, altrimenti l’avrei sottolineato in rosso). Questo il passaggio:

(…) C’era un’altra cosa che i mercanti navigatori del ‘500 portavano in giro per il mondo: dio. Missionari. Una certa way of life. Un certo modo di stare al mondo. Lo stesso fa la rivoluzione digitale: inizia a sedimentare un certo modo di stare al mondo. Delle figure mentali. Dei movimenti logici che non si conoscevano. Una differente idea di ordine, e di presa sul reale. Non proprio una religione, ma qualcosa che gli va vicino: UNA CIVILTÀ.”

Eh. Quando il pensiero si sposta in massa, le abitudini si spostano in massa, le persone vengono proiettate in un movimento che non si può arginare. Nel bene e nel male.

Pagina ottantadue/ottantatre, qui ho sottolineato un sacco e in verde. È un passaggio che mi ha obbligata a uno stop. Mi stava parlando all’orecchio di qualcosa che ho attraversato in prima persona e che non ho mai avuto l’accortezza di notare.

(…) Qualsiasi cosa accada realmente dentro al ventre tecnologico del Web, l’impressione, viaggiandoci, è che TU ti stai muovendo, non le cose; sei tu che puoi finire in un istante dall’altra parte del mondo, guardarti intorno, rubare quello che ti pare, schizzare in ogni direzione, prenderti quello che vuoi e tornare a casa per l’ora di cena. Infatti si dice spedire una mail con Internet (io resto qua, lei viaggia) ma si dice navigare il Web (sono io che mi muovo, non il mondo che si sposta). È una differenza che significa moltissimo in termini di modelli mentali e di percezione di sé stessi. Tutta la rivoluzione digitale, come abbiamo imparato, aveva questo pallino di sciogliere il mondo in frammenti leggeri, veloci, nomadi, ma è facile comprendere come il Web abbia alzato enormemente la posta in gioco: non si limitava a smaterializzare le cose, smaterializzava gli umani!

(…) È che ti sentivi un iperuomo: UN UOMO CHE NON ERA COSTRETTO A ESSERE LINEARE. A essere inchiodato in un luogo mentale. A farsi dettare dal mondo la struttura dei suoi pensieri e i movimenti della sua mente. (…) Per la prima volta vediamo affiorare chiaramente l’ipotesi che un UOMO FATTO DIVERSAMENTE sia all’origine della scelta digitale: e che un UOMO FATTO DIVERSAMENTE ne sarà probabilmente il risultato. (…) Era la prospettiva di una sorta di UMANITÀ AUMENTATA. (…) Da che morte scappavano quando decisero di viverla in quel modo mai visto prima?”

Eccoci al punto. Credo che questo sia il passaggio più emozionante. Questa domanda viene lasciata in sospeso per ben cinque pagine. La soddisfazione arriva dopo altri ragionamenti, però tu mica te la sei scordata quella domanda. Perché un motivo c’è sempre. Perché trovare il motivo ti spalanca i portoni e non devi più usare l’ariete per riuscire a guardare oltre. Mi dispiace, ma a me i motivi mettono proprio l’anima in pace.

Pagina novantatre.

Il paragrafo si intitola “MOVIMENTO” e io ci ho scritto accanto [impeccabile: chapeau], senza sottolinearlo perché mi sembrava inopportuno, troppo invadente. Lo riporto, più per me che per voi che mi state leggendo (mi state ancora leggendo?), perché se lo riscrivo son sicura che non me lo dimenticherò più:

(…) Alla fine, se uno mette sotto il microscopio tutte le mosse che compongono l’epoca classica della rivoluzione digitale, una certa sostanza chimica la trova ovunque, ma proprio ovunque, e sempre dominante su tutte le altre e in un certo modo precedente a tutte le altre: L’OSSESSIONE PER IL MOVIMENTO. Era gente che smaterializzava tutto quello che poteva, lavorava a far diventare leggero e nomade qualsiasi pezzo del creato, passava il tempo a costruire immensi sistemi di collegamento, e non si placò fino a quando non inventò un sistema sanguigno che facesse circolare tutto in tutte le direzioni. Era gente che viveva la linearità come una costrizione, che distruggeva tutte le mediazioni che potevano rallentare il movimento e che preferiva sistematicamente la velocità alla qualità. Era gente che arrivò a edificare un oltremondo per azzerare la possibilità che il mondo in cui vivevano potesse giacere immobile su sé stesso e quindi indiscutibile. Che problema avevano, santo cielo?

Era gente in fuga – è la risposta. Stavano evadendo da un secolo che era stato tra i più orribili della storia degli umani e che non aveva risparmiato nessuno. Si lasciavano dietro una serie impressionante di disastri, e se uno avesse messo sotto il microscopio quella sequenza di disastri, una certa sostanza chimica l’avrebbe trovata ovunque, ma proprio ovunque, e sempre dominante sulle altre: L’OSSESSIONE PER IL CONFINE, L’IDOLATRIA PER QUALSIASI LINEA DI DEMARCAZIONE, L’ISTINTO A ORDINARE IL MONDO PER ZONE PROTETTE E NON COMUNICANTI. (…)”

Silenzio.

Devo posare tutto per un minuto.

Sfoglio le pagine con ordine, rileggo le righe sottolineate, ripercorro quei passaggi. Va bene, ma mentre procedo mi accorgo che è troppo, tutto troppo per costruirmi ora una visione critica all’altezza della situazione. Sono soltanto una lettrice perdio!

Quindi recupero il fil rouge che mi lega per attraversare la mia esperienza personale, non posso che ricominciare da me per capire dove sto.

Quindicenne nel paesino natio: mi rivedo giocare a Pengo (il pinguino che spostava i cubi di ghiaccio) dentro il bar pieno di vecchietti che sparavano assi e bestemmioni durante i tornei di briscola intercomunale (prosciutti, salami e televisori in palio). Io campionessa di Pengo (imbattuta per due settimane) con scoramento della mamma che mi vedeva raccogliere monete da 200 Lire come se non ci fosse un domani dalle tasche dei grandi. Temeva facessi indigestione di gelati.

Il Calciobalilla era per ragazzi, mi occupavo di calcio soltanto per star dietro ai commenti domenicali di mio padre durante la Domenica Sportiva, in realtà amavo la pallavolo. Ma il Pengo faceva per me. Indiscutibilmente.

Ventenne con fidanzato tecnologico: m’arriva in casa il primo pc. Connessione internet costosa, irritante perché a singhiozzo, nonostante tutto mi sale l’entusiasmo. Posso scrivere, posso condividere, posso entrare nel mondo che è ben più vasto del fazzoletto di terra in cui sono costretta a muovermi nel quotidiano.

Trentenne incontro i Social: apro un blog, la mia scrittura esplode. Incontri virtuali che si intrecciano con quelli reali. Condivisione, crescita, la mente che mi vola da tutte le parti e io che capisco di botto che cosa posso fare e che cosa voglio fare: comunicare. Sempre meglio e con tutti.

Ultra-quarantenne professionista nel settore comunicazione: la tecnologia mi fa arrabbiare, vorrei capirne di più e padroneggiarla meglio, ma è diventato il mio lavoro, la mia vita e ogni giorno apprezzo l’enorme quantitativo di possibilità che la rete ci offre. È faticoso, è snervante, è un work-in-progress che non permette sosta: qualcosa che prima non c’era e che da ragazzina m’avrebbe davvero fatto raggiungere Marte senza bisogno di Elon Musk utilizzando l’energia della mia gioventù.

Quindi?

Semplicemente questo: saper cavalcare l’onda senza essere surfers è un casino. Piombi giù in un oceano di cemento armato che ti frantuma quotidianamente. Ammirare i surfers dalla spiaggia sarebbe meglio. Non possiamo farlo, non c’è spiaggia. Che noi, nati prima della rivoluzione digitale, facciamo fatica va anche bene, che facciamo resistenza pensando che si possa ripristinare il vecchio sistema è ridicolo. L’uomo rimane comunque una macchina emotiva che si incasina ogni volta che deve guardarsi dentro e decidere da che parte stare. Non c’è tecnologia che tenga. La parte delicata è sempre l’etica, che più che codice ora dev’essere ancoraggio per mantenere il contatto tra gli Esseri Viventi il più pulito e accogliente possibile (e non sto parlando di cortesia, “Ti posso offrire un caffè?” non basta).

Rifugiarsi nel non-provare è davvero utopistico, fallimentare e frustrante.

E qui estendo l’area del mio ragionamento basic a quella politica che ha potere e arroganza, a quei giochi economici che al potere e all’arroganza aggiungono gli smisurati capitali che sappiamo bene dove vanno a finire e così via. Questi temi ci tirano dentro con troppa forza per permetterci obiettività.

In poche parole, cerchi di analizzare la tua condizione mentre turbini nell’occhio del ciclone. Auguri.

Leggi, osserva, ascolta, rifletti, confronta, distruggi e ricomponi teorie e scelte, senza la pretesa di arrivare al punto perché è tutto un incrociarsi di interessi e miserie che si fa fatica a stare in piedi.

Eppure, il disegno si rende evidente da uno sguardo dall’alto-ma-non-troppo.

Il drone-Baricco ha messo in ordine, in un forziere impressionante, intuizioni, conoscenze, riflessioni e teorie, con grande generosità (come ha sempre fatto, tra l’altro).

“The Game” è un’opportunità per parlarne, per chi sa tenere botta senza cadere nel criticismo-a-tutti-i-costi, ed è disposto a farsi attraversare da una certa lucidità consapevole. Magari non tutto è immediato, ci sono percorsi che han bisogno di aria limpida per rendersi palesi, ma una traccia ti rimane dentro e non potrai più far finta di niente.

Io qui ne ho scritto da lettrice, senza pretese, divertendomi un sacco però.

Grazie.

PS: leggerò l’ultima parte (da pagina 252 a pagina 324) facendo posare ogni riga come se non avessi nient’altro da fare nei prossimi mesi. Credo che lì dentro troverò un altro tesoro.

 

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