(937) Rapire

Qualcosa che rapisce la tua attenzione è davvero qualcosa di speciale. Speciale in qualsiasi modo lo si voglia intendere, speciale e basta. Rapire l’attenzione ha a che fare con il vento, secondo me. La tua attenzione è trasportata altrove da te, ti dimentichi tutto perché in quell’istante qualcosa ha attratto ogni tuo pensiero convogliandolo su di sé. 

Solitamente lo fa la Bellezza.

È una bella sensazione, esci da te e vieni assorbito da qualcosa che – molto probabilmente – non conosci ancora, non così bene almeno da poterla dare per scontata. Esci e ti perdi. Può durare dieci secondi oppure due ore (se il film è fatto davvero bene), sei in un altro mondo. Fuori da tutto, fuori da te.

Rapire lo sguardo di qualcuno è un privilegio.

Siamo distratti da troppe cose e poco propensi ad appoggiare la nostra attenzione su qualsiasi cosa per troppo tempo. C’è sempre qualcosa di meglio, sembra che ci sia sempre qualcosa di meglio che ci aspetta. Aspetta proprio noi. Perché dentro di noi pensiamo che ne valiamo la pena. 

Non è un verbo felice, rapire, ma se lo si accompagna a “attenzione” riacquista luce. Si crea un cortocircuito di significato che ti predispone alla meraviglia.

Basta che glielo permettiamo. Di tanto in tanto. Ovvio.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(688) Tastiera

Osservando oggi la mia vecchissima e pesantissima Olivetti – per pulirla un po’ – ho ricordato quei due anni di dattilografia che mi vedevano perennemente con le dita scorticate. Un fastidio! Eppure tutte le inverosimilmente noiose ore trascorse a fare esercizi di memorizzazione a ritmi diversi, mi hanno permesso di andare alla cieca e spedita come una saetta, tanto da riuscire a seguire meglio i pensieri quando vanno troppo veloci anche per la penna sul foglio.

Mi sorprende sempre vedere come le mie dita sappiano dove andare, nonostante io non badi a loro, pigiando i tasti giusti e senza tentennamenti. Una sorta di possessione.

Impariamo così, memorizzando e attuando in automatico quello che ormai già sappiamo fare. Diventa parte di noi. Scrivere, guidare, farsi un piatto di pastasciutta… una parte di noi si occupa di compiere questi gesti, l’altra parte pensa al resto. E il resto può essere piuttosto vasto.

Dove sono le chiavi? Dove ho messo il portafoglio? Ho preso il cellulare? Ho chiuso la porta di casa? Ho buttato la spazzatura? Almeno una volta al giorno me lo domando, dandomi ogni volta della cretina: ma dove diavolo ti va la testa, Babs!!! Ecchenneso!

Quando, però, appoggio le mani sulla tastiera è come se fossero loro a tirare fuori da me le cose che devono essere scritte. Lascio a loro il compito e guardo come va. Prima di postare rileggo – se il sonno non mi vince – e sistemo quello che posso sistemare. Non riscrivo mai, qui non si tratta di perfezionare, qui si tratta solo di scrivere meglio che posso e con tutta l’onestà che posso, che è già un bel casino senza impormi virtuosismi inutili, faticosi e senza senso.

Comunque ribadisco: appoggio le mani sulla tastiera e non è più affar mio. Credo che per quanto quello che so fare non rischierà di cambiare il mondo, per quanto sia cosa imperfetta, che io lo sappia fare, che le mie mani lo sappiano fare è strabiliante. Lo è davvero: strabiliante.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF