(1083) Provare

Do or do not, there is no try.  (Yoda)

Dare torto a Yoda? Follia. 

E comunque, al di là di tutto, se faccio mente locale, ogni volta che ci ho solo provato non ne ho ricavato niente. Neppure un grammo di soddisfazione. 

Non sto parlando di azioni più o meno convinte, ma di scappatoie. Tanto se non va bene non ci perdo nulla, non è una strategia. Non è neppure una filosofia efficace per andare al mercato del pesce. 

Provare tanto per provare non è crederci e farsi in quattro per far andare le cose bene. Provare per provare è un tentativo e basta. Come se mi aspettassi già il fallimento, come se sapessi già come finisce la storia. Si va al risparmio, si calcola il dare e l’avere, ci si tira un po’ indietro perché sì, magari andrà anche bene, ma è probabile che no. 

Non c’è verso: o fai (e sei dentro al 100%) o non fai. Perché se non fai davvero non perdi tempo e non rischi delusioni e sofferenze e fatica e smarronamenti. Se non fai puoi sempre dire che avevi un’idea e che ce l’hai ancora e appena trovi il tempo la farai diventare una figata. E puoi continuare a ripetertelo per sempre, tanto da crederci tu stesso. Puoi fingerti impegnato anziché codardo, puoi farlo, funziona.

O fai o non fai. Ma se fai, allora la sfida non è vincere o perdere, no, troppo semplice. La vera montagna da scalare è quella fatta da sassolini e massi di “che cazzo sto facendo? Dove cazzo penso di andare? Ma perché cazzo mi sono messo in questa maledetta impresa? E adesso cosa cazzo faccio?”, insomma: una montagna di gran cazzi pronti a saltarti addosso appena muovi un passo. 

E se alla fine vinci, vinci contro la montagna franante e sei già contento di essertela cavata e di essere ancora vivo nonostante te stesso.

Perché Yoda non è mica il primo coglione che passa di lì. Se ti sta segnando la via, conviene pensarsela bene e rispondere onestamente a una sola semplice domanda: fai o non fai? 

Ovvero: credi o non credi?

È sempre una questione di fede, dopotutto. Eh.

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(1022) Eletto

Quando vieni scelto dal Caso o dal Destino, insegna Matrix, non ti puoi tirare indietro. In qualche modo pagheresti la tua codardia. Vien chiaro anche, sempre seguendo le vicende di Neo, che la paghi comunque, anche se il coraggio non ti manca e ne usi fino all’ultimo grammo.

Eccoci arrivati al punto. Dentro alla mia Matrix la richiesta di tirare fuori le palle è più che altro un ordine. E, per non venire macellata anzitempo, mi sono ben presto adeguata. Presto, si fa per dire. Mi sono adeguata appena ne ho preso coscienza. Per la serie ognuno-fa-quel-che-può-con-quello-che-ha, quando un certo tipo di dinamica viene adottata con costanza diventa parte di te e vai avanti per inerzia. Non ti chiedi più se sia il caso di tirare fuori le palle, lo fai e basta perché hai imparato che ne sei capace, che ti dà una certa soddisfazione e che, andasse male, il tuo amor proprio se la riesce a metter via in modo decoroso. 

“Almeno ci ho provato” diventa un mantra onorevole.

Nonostante tutto questo, non è che vivere fronteggiando ogni sfida non ti consumi, tutt’altro. Alla fine della giornata sei proprio sfinita. Cioè, non ti rimane neppure la forza per piangere. 

E dopo un po’ ricominci a domandarti: “pillola rossa o pillola blu”? Perché non è poi così scontato e perché le cose possono cambiare e perché… boh, perché siamo sempre lì: domandare è lecito e rispondere è cortesia.

Cortesemente stamattina mi sono risposta: “Basta con le pillole e prendiamola per un altro verso, Babs. Posa tutto a terra e usa quello che hai. Concentrati su quello che c’è. Prendi i pezzi di te che ora ti sono utili e fanne qualcosa. Ormai sei sveglia, non riusciresti a riaddomentarti. Ormai sei oltre e la Matrix non la cambieresti neppure se ritornassi indietro, neppure se la barattassi con un’altra Matrix. E poi, diamine!, mica sei Neo, non sei l’Eletto. Puoi fermarti”.

Più che una risposta è un monologo interiore imbarazzante, me ne rendo conto ora che l’ho riportato qui, ma il succo non cambia: posso fermarmi. 

Ok, mi fermo.

E dormo.

Tanto.

Più che posso.

‘notte.

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(999) Imbarazzo

Stamattina parto da casa, check mentale per essere sicura di avere preso tutto, e arrivo in ufficio. Non ho le chiavi. Dove sono? A casa.

Non ci sono molti modi per dirlo: sono del tutto rincoglionita. 

Per quanto io riesca a fare mente locale, c’è sempre qualcosa che mi sfugge e non me la cavo sempre bene nel metterci le toppe. E ci sono volte, come oggi, dove mi guardo e provo imbarazzo per me stessa. Ma a cosa stavi pensando, Babs?! Non lo so, immagino a niente, o a tutto in contemporanea. Immagino che la mia testa prenda vie che non conosco e che non sempre mi rivela. Immagino che certi dettagli di solida realtà rimangano nascosti chissà dove perché troppo pesanti per portarmeli in giro e quindi li dimentico. Immagino.

Immaginare è la cosa che mi viene meglio. Imbarazzante.

Partire per andare a un concerto e lasciare i biglietti sulla scrivania, trovare le chiavi di casa in una borsa e perderle dopo neanche dieci minuti, uscire con l’ombrello e ritornare senza, rispondere gentilmente “sì, certo” e rendersi conto di non aver ascoltato la richiesta… cose così. Imbarazzante.

Ora, non credo che le cose miglioreranno nel tempo, al massimo andranno a peggiorare, ma forse mi posso consolare con tutte le cose che ricordo. Voglio dire ne ricordo molte di più di quelle che dimentico. Anche perché quelle che dimentico le ho oggettivamente dimenticate, quindi non fanno testo. Se dovessi fare una lista di tutte le cose che ricordo non mi basterebbero mille quaderni, che diavolo pretendo dalla mia mente?

Ecco, come riesco a sistemare le cose io – nell’indulgere con i miei vuoti – nessuno. 

Imbarazzante.

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(757) Balle

Una certa pace mentale la raggiungi quando te ne fai una ragione. Se fino a un istante prima avresti preso a testate il muro pur di cambiare quella situazione, quando ti rassegni tutto cambia. Certo che rassegnarsi non è la soluzione, ma se il sentimento lo fai durare poco, quel tanto da poter shiftare in modalità me-ne-faccio-una-ragione, allora il grosso è fatto.

In soldoni si tratta proprio di prendere atto della realtà e, anziché combatterla, darla per assodata. Ora: non è che soltanto perché una cosa c’è, esiste, e ti sta schiacciando tu devi star lì a subire. No. Quella cosa che ti sta schiacciando non è lì per schiacciarti per sempre, ma da sola non se ne andrà. Se la spingi via non la sposti, se la fai saltare in aria vai in pezzi pure tu, ma se ti sposti… 

Devi soltanto spostarti. Facile? No, ma almeno non è un gesto impensabile, indicibile, impossibile! Ammettiamolo: spostarsi è alla nostra portata.

Ritorniamo ora alla pace mentale: quando sai com’è la situazione, quando sai che ti devi soltanto spostare, allora te ne fai una ragione. Non sei contento, non sei sollevato (non ancora), non sei sicuro di potercela fare, non sei incurante della fatica e del rischio, no. Sei nella condizione mentale in cui non puoi tirarti indietro perché sarebbe da idioti. Te ne fai una ragione e inizi a spostarti.

Un trick maledetto che ti fa posare tutto il resto – giustificazioni, mortificazioni, frustrazioni – e ti stabilizza in una condizione di ragionevolezza. Stop. La mente ci crede, il cuore ci crede, i nervi ci credono. Tu raccogli tutta questa consapevolezza e ti sposti. Mica dall’altra parte del mondo, basta soltanto di un centimetro.

Io di centimetro in centimetro ho percorso milioni di chilometri. Sembra incredibile, ma li ho contati tutti, uno a uno. Quindi se mi venite a dire che spostarsi è impossibile, vi posso tranquillamente rispondere – facendo ricorso a tutta la pace mentale di cui sono capace: balle.

 

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(489) Estrosità

La mia estrosità è subdola, è poco evidente… perfino a me stessa. Non me ne accorgo finché non mi confronto con il resto del mondo, allora sì che diventa chiara e spiazzante.

Non c’è da stupirsi, un punto di vista soggettivo è sempre parziale, ma adottarne uno oggettivo a prescindere è faticoso fuor di misura e lo fai soltanto quando ce n’è davvero bisogno. Ecco perché tendo a essere stramaledettamente soggettiva e mi vivo la mia estrosità senza troppe menate. Non ci do peso e spero sempre che anche gli altri facciano altrettanto – non sono pericolosa, sono solo stramba!

Ovviamente, non avviene spesso, prima o poi me lo si fa notare. Cosa fastidiosa, perché io con le eccentricità degli altri mica lo faccio, è perlomeno ineducato, è segno di mancata delicatezza!

Eppure sto lì e mi becco quel che mi devo beccare, a volte sorrido – perché l’autoironia è sempre LA salvezza, altre volte arrossisco, altre impallidisco, altre rispondo per le rime. Mi sento meglio quando rispondo con sarcasmo, ho più soddisfazione, ma raramente me lo permetto ed è un peccato.

Tutto questo per dire che l’essere estrosa è una caratteristica che giace in me senza bisogno di estrinsecarsi in fuochi d’artificio, eppure non viene perdonata da chi mi percepisce come un pericolo, un destabilizzatore minaccioso per il loro equilibrio mentale. Mi fa piuttosto ridere, ma per quanto assurdo possa essere – e lo è eccome, se lo considerassi un mio ennesimo superpotere sarei pronta a conquistare il mondo!

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