(933) Ironia

L’ironia è come una caramella. Ogni guizzo ha un sapore diverso e alcuni ti possono piacere, altri meno e non li vai a cercare, ma chi rifiuterebbe una caramella quando vorresti soltanto scappare via?

Nessuno.

Le persone dotate di questo meraviglioso talento sanno spingerti dolcemente al sorriso proprio quando non te l’aspetti. Una piccola sorpresa che ti fa increspare le labbra e questa piccola onda ti entra dentro in fondo in fondo in fondo per sollevarti un po’. Quando ritorni coi piedi sulla tua solita spiaggia ti accorgi della sabbia, di ogni granello, come se fosse cosa nuova, perché sei più ricettivo, come se ti fossi appena risvegliato.

Adoro le persone ironiche.

Ironia è misura, rigorosa: né troppo né troppo poco. Ti devi spingere oltre, ma solo per quel tanto che basta a innescare l’onda leggera, dolce, quella che solleva e non quella che spazza via (il sarcasmo, tanto per intenderci). Nell’ironia c’è un miscuglio di amarezza e blando divertimento. C’è soprattutto un bisogno di sopravvivere a tutto quello che, preso in altro modo, potrebbe farci impazzire, potrebbe farci morire. Perché il veleno funziona anche a piccole dosi e l’ironia ne è l’antidoto infallibile. 

Un talento, per ognuno di noi diverso.

Perché non ci sono regole, ci sono punti di vista che si incrociano, che rendono i pensieri un po’ ruvidi e da lì si scivola naturalmente nell’arguzia di un concetto scollato – a volte osceno – espresso con grazia però. Chi non percepisce questa resistenza nel passarci sopra, questo leggero atrito su cui il tatto incespica, si perde un gran tesoro. 

Ma l’ironia non la puoi insegnare.

Questione di gusto, questione di grammi, questione di ritmo e calcolo dei tempi. Una musica che hai dentro e che non deve uscire spesso, soltanto quando il silenzio le permette di espandersi. Un po’. Soltanto un po’. E poi si lascia andare, scivola via per ritornare ad accompagnare il venire e l’andare delle emozioni che fanno poco rumore e non vogliono essere disturbate. Una cosa così, discreta.

Chi rifiuterebbe mai una caramella? Dai, siamo seri!

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(872) Calcoli

Non sono mai stata brava a farli, non mi ricordo mai di mettere in conto il guadagno. Così mi ritrovo a smazzarmi una perdita fastidiosa. Una ragioniera perfetta, me l’aveva detto pure la mia prof: “(…) piuttosto di farti diplomare ti butto dalla finestra!”. Mi considerava la rovina della categoria. Per fortuna tutto è relativo, ho cambiato scuola e ho iniziato a prendere 8. Mi sono pure diplomata. Pazzesco come ci si può sbagliare sulle persone. Eh.

In realtà, la vecchia megera aveva ragione: piuttosto di fare la ragioniera mi sarei buttata dalla finestra. Così ho fatto altro.

Nella vita, però, quattro calcoli uno se li deve pur fare, tanto per vedere se i conti tornano e io ho lasciato andare per troppo tempo. L’incubo del Perdite e Profitti mi ha devastato ben oltre il periodo scolastico. Ammetto con stupore, ma senza troppo orgoglio, che rimasugli di buonsenso ragioneristico mi devono essere rimasti impigliati qua e là perché alla fine almeno me ne sono accorta.

Fare i calcoli significa focalizzare l’attenzione su quello che ci metti per confrontarlo con quello che ti rientra in tasca. Spesso le monete non sono le stesse, quindi far tornare tutto diventa complicato. Se ci metti tanto amore e ti arrivano calci in culo è un po’ difficile capire quanto meno amore ci dovevi mettere per non ricevere calci in culo. Magari ci metti un po’ meno e te ne arrivano solo la metà, d’accordo un miglioramento c’è stato, ma comunque non va ancora bene.

[lo so, certi miei esempi fanno impressione, perdonatemi anche questo limite]

Ritornando ai calcoli, a parte quelli renali che quando ci sono ti piegano in quattro e vincono loro su tutto e tutti, si possono aggiustare se li si sa leggere e interpretare. Non è che son così e basta, alle volte non aspettano altro se non di essere sistemati per far funzionare meglio le cose. Capire come fare, con premesse come le mie, diventa complicato. Affidarsi all’ispirazione, all’istinto, al talento, alla visione o alla Madonna-di-Međugorje?

Ci sto pensando. Non ho ancora la soluzione, ma ci sto pensando.

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(822) Sigillo

Il sigillo di garanzia, lo cerchiamo tutti vero? Quasi un’ossessione, vogliamo essere sicuri che quello che stiamo toccando, respirando, vivendo sia di qualità. Se ce lo mettono il sigillo ci rassicurano, come se noi non fossimo in grado di capire cos’è di qualità e cosa non lo è. Mr. Pirsig non ne sarebbe contento, lui che ci ha scritto un libro e s’era fatto anche un bel pensiero al riguardo (vedi: “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” – Adelphi).

Quindi lo cerchiamo e lo pretendiamo il sigillo, vogliamo spendere bene i nostri soldi. Giusto.

Quando si tratta, però, delle persone e della loro qualità ci lasciamo abbindolare dai lustrini, dalla forma, dal gioco di specchi di cui si fanno portatori. Basta che si sappiano vendere bene e noi mettiamo loro il sigillo. Ci facciamo beffare, ma piuttosto di ammetterlo siamo pronti ad andare contro i nostri valori, contro tutto quello in cui crediamo, preferiamo non veder crollare quell’illusione di qualità che abbiamo costruito loro intorno.

Dimentichiamo che così facendo il nostro sigillo di qualità – il nostro personale, quello che ci portiamo addosso – perde valore. Non è il nostro parere la debolezza da sostenere, ma il nostro nome. Possiamo cambiare idea, è lecito, è giusto e sacrosanto in certe condizioni. Non possiamo negare noi stessi soltanto per non aver trovato il coraggio di ammettere: “Mi sono sbagliato”.

“Mi sembravi una persona portatrice di un pensiero illuminato, di una condotta esemplare, di un’integrità ammirevole, ma mi sono sbagliato”. Non è che io sono un idiota per questo, l’idiota sei tu che vendendoti bene hai pensato che io me la bevessi per sempre. Sei un idiota perché hai sottovalutato la mia capacità di riconoscere la qualità di una persona e come t’ho dato il sigillo di garanzia ora sono pronto a togliertelo. Perché sei un bluff, perché sei un poveraccio pieno di niente che pensa di essere migliore degli altri. Perché non mi piaci più”. Liberatorio, vero?

Ok, credo che se ci sbarazzassimo di questo pudore nel dichiarare che ci siamo sbagliati e che ora abbiamo aperto gli occhi, il nostro presente potrebbe darsi una bella ripulita e potremmo andar fieri di noi stessi. Perché il nostro sigillo di qualità lo dobbiamo rendere meta ambita, non lo possiamo consegnare al primo che passa. Anche avesse un fottuto talento nel farsi splendido a comando.

Rendiamoci meta e non lacchè. Diamine!

 

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(730) Occhiali

Ultimamente mi sono dimenticata di indossare gli occhiali rosa. Esistono solo nella mia testa, ma mi sono stati utili in diversi frangenti, soprattutto quando il sole era troppo o il freddo era troppo o lo schifo era troppo. Il troppo vestito di rosa viene smorzato e si trasforma in sopportabile. Gioco scemo eppure efficace.

Sopportare significa che non ti va bene, ma proprio non ti va bene, però ti rendi conto che lo devi attraversare e che devi trovare un modo decente per farlo. Son passata di troppo in troppo e non ho avuto il tempo di cercarli, quei dannati occhiali rosa, li avevo appoggiati chissà dove e me li ero dimenticati quasi del tutto. Fino a oggi.

Oggi mi sono resa conto che ne avevo bisogno. Il troppo di questi ultimi tempi non è stato nulla di tragico, nulla di devastante, ma il troppo rimane troppo. E c’è bisogno di fermarsi, c’è bisogno di riflettere, c’è bisogno di smorzare l’intensità perché gli occhi sono stanchi.

Ho un talento per la sopportazione, ma non è affatto una caratteristica positiva. Ammiro chi non sopporta e reagisce in modo da non subire  situazioni che sono oggettivamente intollerabili – per diversi motivi. Io penso sempre che, prima di reagire con decisione, devo arrivare al punto che il troppo sia colmo. E ci arrivo, altroché se ci arrivo, ma ci arrivo sfinita. Ecco, vorrei riuscire a fare diversamente. Mi spingo sempre oltre ogni limite e poi crollo e stacco.

Gli occhiali rosa oggi li ho indossati per guardare tutto quello che in un anno ho attraversato e quanto la mia sopportazione abbia creato e bruciato dentro e fuori di me. Sono rimasta allibita. Ho fatto diventare quel troppo enorme e ho sopportato innanzitutto quella me che attraversava il troppo esagerato come se fosse parte del pacchetto all-inclusive. Evviva. No, davvero, sono veramente troppo avanti. Un genio.

Dovrò sforzarmi d’ora in poi di essere meno genio o camperò ancora poco. Dovrò sforzarmi di avere una voce più decisa, anche quando la voce mi mancherà del tutto. Dovrò sforzarmi di crescere, molto probabilmente. Non mi piace pensare che dovrò forzarmi a fare diversamente, ma naturale non mi viene di certo pertanto sarà bene che io mi ci metta d’impegno. Sì, è arrivato il momento di ripensare al come di ogni mio silenzio per fissarlo con pesi differenti. Ho attraversato un onorevole numero di troppo, mi posso pure accontentare di un abbastanza e sopportare il giusto e darmi pace il giusto lasciando andare il giusto.

I toni accesi mi hanno sempre dato noia, dopotutto. Meno genio e più concretezza, perdio!!!

 

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