(804) Strisce

Ho sempre pensato che il mondo fosse organizzato in strisce, più o meno irregolari e di varia portata. Credo di pensarla ancora così.

Una striscia è meno ingabbiata di una piramide a livelli. Al top stanno i fighi e alla base gli sfigati, così ci dicevano un tempo. Ecco, le strisce, secondo me, si fanno beffa di questa suddivisione e si estendono come cavolo vogliono loro. Dall’alto-in-basso/dal-basso-in-alto o da destra-a-sinistra/sinistra-a-destra o trasversalmente, ogni striscia contiene un bel pezzo di umanità con tutte le diversità possibili.

Credo, però, che tutto parta da due macro strisce: quella delle persone per bene e quella dei farabutti, e queste due strisce rarissimamente si vanno a confondere, e quando lo fanno sono anomalie che fan partire una tromba che ti deve mettere sul chi-va-là. Non penso che una persona per bene a un certo punto possa diventare un farabutto, potrà commettere degli errori (certo) ma la sua natura non muterà a causa di questi errori. Non penso neppure che un farabutto possa diventare una brava persona, può fare anche delle cose buone ma la sua indole rimarrà la stessa e appena se ne presenterà l’occasione rifarà vedere la sua vera faccia. Questo ragionamento molto basic potrebbe risultare irritante, eppure mi permette di non farmi illusioni. Se un farabutto mi fa un sorriso, non mi faccio distrarre, non mi faccio sedurre, so che la sua natura è ben lontana da quella di un agnellino e non mi permetto dubbi al riguardo. Tanto per dirne una: se mi insulti per vent’anni e poi mi sorridi chiedendomi il voto, se ti voto davvero, io sono l’idiota e tu sei il farabutto furbo.

La questione delle due strisce iniziali, mi semplifica forse troppo lo spettro infinito di sfumature dell’animo umano, ma è il mio modo di orientarmi nel mondo. Si parla di macro e non di micro. Le cose si complicano quando il rapporto umano si esplicita in un tu-per-tu. Ecco, qui mi sbaglio – lo ammetto – ma mi sbaglio sempre quando mi lascio abbindolare dalle sfumature. La questione delle due strisce mi ha, invece, sempre aiutato a ristabilire un po’ d’ordine nei pensieri.

Non dico che al mondo esista solo il bianco e il nero, dico però che il bianco e il nero sono agli opposti e sono i limiti del nostro animo. Una persona-per-bene non si confonderà mai con un farabutto, un farabutto potrà fingersi una persona-per-bene se ha davanti qualcuno che gli permette di farlo (per suo interesse o per dabbenaggine). Perché chi pensa il bene non vede il male. Chi pensa il male lo vede anche nel bene. Bisognerebbe rifletterci, secondo me.

 

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(678) Nonsense

Ognuno di noi ha i suoi nonsense, assurdità brandizzate e spesso originali – ma meno spesso di quel che ci si immagina. La mia lista è lunghetta, non lo nego, ma non è un vanto. Tutt’altro.

Mi piacerebbe essere coerente e tutta d’un pezzo, per certi versi lo sono (in modo impressionante), ma per alcuni dettagli no. ‘sti dannati mi scappano via e mi trascinano dove non vorrei: nell’assurdo.

Quello che trovo più fastidioso di tutti è che non riesco a essere incazzata per più di un tot. Cioè, me ne dimentico proprio. Soltanto per tre volte in tutta la mia vita ho mantenuto fede alla promessa: mai più. Nel senso mi-hai-fregata-una-volta-e-la-seconda-non-è-prevista-manco-se-muoio. Tutte e tre le volte si trattava di cose basilari spinte all’ennesima – come la fiducia, l’onestà, la lealtà. Ecco, tutte le volte nelle quali l’entità delle cose era molto meno pesante io… me le sono dimenticate.

Cavoli, c’è gente che riesce a tenermi il muso per settimane intere, e io? Non duro manco un giorno. Neppure se me lo impongo, se mi controllo, se mi faccio i ragionamenti giusti. Niente.

Sospetto sia il gap dell’essere-per-forza-amabile-per-poter-essere-amata che mi porto dietro da sempre, ma non voglio dargli molto peso altrimenti chissà dove finisco. Devo far finta di niente, ridere di me e tirare avanti.

Ok, dopo questa deplorevole confessione aggiungo anche che: non faccio fatica a incazzarmi, anzi, mi incazzo almeno dieci volte al giorno con modalità diverse – so essere creativa – faccio solo fatica a ricordare. Difetto di memoria non di indole combattiva. D’altro canto sono del segno del toro, inutile ricordarlo.

Siete avvisati.

Peace&Love

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(662) Tolleranza

tollerare v. tr. [dal lat. tolerare, affine a tollĕre “levare”] (io tòllero, ecc.). – 1. a. [mostrare pazienza e rassegnazione di fronte a fatti o situazioni spiacevoli: t. un’ingiustizia] ≈ accettare, (fam.) mandare giù, (fam.) sciropparsi, sopportare, (non com.) sorbettare. ↑ arrendersi (a), cedere (a), rassegnarsi (a), subire. ‖ consentire, permettere. ↔ insorgere (contro), opporsi (a), reagire (a), respingere, ribellarsi (a), rifiutare. b. [con riferimento a persona, accettare a malincuore la sua presenza] ≈ (fam.) mandare giù, reggere, (fam.) sciropparsi, sopportare. ↔ apprezzare, gradire. c. [considerare con indulgenza punti di vista, comportamenti e sim. diversi dai propri] ≈ accettare, accogliere, ammettere, comprendere. ↔ contrastare, opporsi (a), respingere, rifiutare. d. [non essere contrario all’uso di qualcosa e sim.: t. l’uso di droghe] ≈ ammettere, autorizzare, consentire, permettere. ↔ interdire, proibire, punire, vietare. 2. (estens.) [mostrare una buona resistenza a disagi fisici o materiali: t. il caldo] ≈ reggere, resistere (a), sopportare. ↔ patire, soffrire. 3. (estens.) [considerare la possibilità di uno scarto da quanto precedentemente fissato: t. un piccolo ritardo] ≈ ammettere, consentire. ↑ (fam.) chiudere un occhio (su), passare sopra (a). ‖ giustificare, scusare. [⍈ CAPIRE]

Tollerare è un verbo che non mi convince. In certe occasioni lo trovo appena inevitabile, ma quando si tratta di “mandare giù” o di “sopportare” credo sia pericoloso. Se ti imponi di accettare, non è accoglienza, è un countdown che finisce nello sbrocco – quello brutto per di più. Diventi una pentola a pressione e il risultato è già scritto.

In più di un’occasione ho abbracciato la tecnica della tolleranza e non è mai finita bene. Non so fingere, neppure per mio tornaconto. Se una cosa non mi va giù, non mi va giù e basta. Metti anche il caso che mi sia infognata nelle ragioni sbagliate, non migliora la situazione se ingoio il rospo e faccio buon viso a cattivo gioco. Rimando soltanto il momento della verità. Il che è peggio perché nel frattempo ho covato malessere.

Detto questo: ci sono delle cose o delle persone che sanno essere profondamente fastidiose e andarci a patti è un diavolo di casino. Appurato ciò bisogna trovare il modo di sistemare le proprie posizioni senza dover per forza rinunciare alle nostre sacrosante ragioni. Quando si tratta di cose viene più facile, con le persone ci sono complicazioni e conseguenze a non finire. Con le persone bisogna tirar fuori risorse che ci costano fatica: comprensione, empatia, accoglienza. Grande fatica.

Non è mai, credo, una lotta contro l’altro, ma una lotta contro il fastidio che un comportamento o un’abitudine o un’indole ci scatenano. Il fatto che siamo comunque diversi, anche quando siamo fin troppo simili, non facilita di certo le cose. Eppure, sono sempre più convinta che tollerare il fastidio sia una certezza di rissa futura. Ci dobbiamo appellare, dunque, al concetto di tolleranza zero? Eh, mi viene da ridere. E se togliessimo come concetto quello proprio di tolleranza e lo sostituissimo con quello relativo a compromesso?

compromesso² s. m. [dal lat. compromissum]. – 1. (giur.) [accordo con cui le parti si impegnano a stipulare un futuro contratto, spec. di compravendita] ≈ (accordo) preliminare. 2. (estens.) a. [accordo in cui ciascuna delle parti rinuncia a qualcosa: venire, arrivare a un c.] ≈ accomodamento, transazione. b. [rinuncia ai propri principi: una vita di compromessi] ≈ cedimento, ripiego. 3. (fig.) [fusione di elementi diversi: un c. tra il vecchio e il nuovo] ≈ ibrido, (fam.) via di mezzo.

Sì, mi rendo conto ci siano dei rischi pure in questo caso, ma le cose possono cambiare, le persone raramente lo fanno… si aggiustano o si guastano del tutto, ma diverse non potranno mai esserlo. Esattamente come non potremmo essere noi diversi da noi stessi. Sarebbe buttarsi in braccio all’insanità mentale, no?

Ogni volta che ho pensato di poter tollerare senza esplicitare il mio malessere in proposito l’ho fatto per non ferire qualcuno o per non far scoppiare una situazione che già stava in bilico. Ho pensato che prendendomene il peso avrei evitato lo scatafascio, mi sbagliavo. Mi sono procurata ferite brutte in nome di una tolleranza forzata, ho buttato giù muri a suon di testate e potevo evitarmelo se non mi fossi data all’accettazione scellerata.

Il compromesso, quello buono, quello efficace, quello giusto, tiene conto di ogni parte in causa. Si preoccupa di distribuire il fastidio affinché non risulti insopportabile per nessuno. Impone delle regole che avvicinano alla convivenza e non allontanano gli animi facendoli rodere nel silenzio. In fin dei conti, siamo fatti per vivere uno accanto all’altro, non ci sono abbastanza picchi sull’Himalaya per accoglierci come eremiti… facciamocene una ragione.

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(595) Luce

Troppa luce mi mette a disagio, va’ a capire il perché. O meglio: so anche il perché, ma ora che sono sulla via dell’anzianità potrei anche mettermela via ‘sta cosa e vivere più serena. Ma niente. Non ci riesco.

Ribadisco: troppa luce mi infastidisce, mi fa sentire spudoratamente evidente, mi fa venire voglia di scavarmi una buca e buttarmici dentro. D’altro canto, dall’ultimo test super idiota trovato su facebook sono risultata essere una civetta. Mi ci ritrovo proprio – questo mette un po’ di pace tra le mie diverse ansie, lo ammetto.

Non è che questa cosa della luce sia un pensiero particolarmente opprimente, vivo maluccio d’estate – lo so – ma ormai senza grandi sconvolgimenti. All’arrivo dell’autunno riprendo possesso dei miei poteri e mi vivo più serenamente – questo è un dato di fatto – e resisto bene fino alla fine della primavera. Arriva il 21 giugno, solstizio d’estate, e inizia l’agonia. Non voglio ancora pensarci, ho più di un mese per vivere con dignità, ma la “luce” come argomento da affrontare mi si è ripresentata in queste settimane per questioni di lavoro. Non per mia scelta – ovviamente, scema ok ma fino a un certo punto – e proprio per questo motivo l’ho vissuto con un fastidio di misura epica e  andamento trasversale, ovvero: odio tutti e tutto il giorno. Son già contenta che nessuno mi abbia ancora fatto fuori perché so essere decisamente indisponente quando sto così.

Oggi, comunque, sono ancora qui a rimurginarci sopra perché ancora la questione non l’ho risolta. Non sono ancora riuscita a concretizzare in una dannata frase (non troppo lunga, mi raccomando) il concetto di luce come mi è stato chiesto. No, non è una cosa da niente, perché non si tratta di dire la mia in proposito – figuriamoci chi mi potrebbe impedire di dire la mia – no no no, devo tradurre un pensiero abbozzato da qualcun altro da trasformare in qualcosa di memorabile, tipo aforisma alla Oscar Wilde. Fulminante, luce saettante sparata in testa a qualcuno da Zeus in persona: questo l’effetto che deve fare. Nient’altro da aggiungere.

Ritornando a me, visto che sono un mirabile esemplare di Essere Umano finemente egoriferito, son sempre e sempre di più dell’idea che la troppa luce sia irritante. Sono ancora e sempre dell’idea che non dev’essere esagerata, solo quel tanto che basta per non sciupare la magia dei luoghi, delle cose, delle persone, dei sentimenti. Se mi spari un faro navale da 50.000 kW addosso mi ammazzi, non posso affrontare tanta crudeltà, sono pur sempre un clone di Morticia Addams!

Ok, ora devo rimettermi al lavoro. Dov’ero rimasta? Ah, sì: luce…

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