(1011) Raccolto

Si semina e a un certo punto si raccoglie. Si dovrebbe raccogliere quanto seminato, sarebbe giusto, ma in realtà non è così. Il maltempo può rovinare il raccolto, così come i parassiti, così come gli uccelli che rubano i semi. Non si raccoglie quanto seminato, ma quel che rimane del seminato. Quindi sempre di meno. Prima lo capisci e meglio è.

Perché se lo capisci, e ti fai due conti, ti metti l’anima in pace e semini il doppio o il triplo di quanto faresti di norma, per aumentare il raccolto fattivo.

Dai di più, insomma. Fai di più.

Anche così facendo non puoi avere alcuna certezza, ma giocando con le probabilità ti puoi dare una speranza in più. Meglio che niente. Eh.

Questa è la filosofia che ho applicato con disarmante continuità durante tutta la mia vita, e spesso mi è stato fatto notare che dare troppo e fare troppo è… troppo. Non ti sbattere tanto, mi sono sentita ripetere negli anni, e questa frase mi ha sempre innervosito perché sottende un altro concetto tacito: dove pensi di arrivare, comunque?

Non è che le cose che uno fa o dà vengano valutate al chilo, le fai così e dai nella quantità che senti sia giusta. Giusta per te, mica per chi. Giusta per te, perché vuoi fare le cose per bene, perché vuoi dare il massimo di te a prescindere da quanto riceverai in cambio. Anche se il raccolto sarà deludente. E non nascondo che spesso lo sia, ma non è una buona ragione per darmi al risparmio.

Il concetto di risparmio è proprio bannato dal mio DNA. Nel bene e nel male.

Chi semina si aspetta un raccolto, io non faccio eccezione, ma non si mette in dubbio il seminare, si mette in dubbio il raccogliere semmai. Col tempo e con l’esperienza capisci che ti porti a casa quel che c’è e che non serve a nulla recriminare. Hai seminato e ora raccogli. Punto.

Ti devi far bastare quel raccolto per un po’ e devi continuare a seminare, queste sono le regole del gioco. Non esiste altro. E vale per tutti.

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(813) Educare

Ci si può educare alla generosità come all’avidità, alla comprensione come al rifiuto. Ci si educa giorno dopo giorno, perseverando in un certo punto di vista, in un certo modo di considerare sé stessi e gli altri. Lo facciamo spontaneamente quando l’ambiente ci preme e la vita ci dà un feedback deludente, se non peggio. 

Ci si può educare al cambiamento, perché non possiamo fare altrimenti o perché valutiamo che quel cambiamento vorrà dire per noi miglioramento.

Puoi educare qualcuno a una giusta condotta, ci vuole pazienza e dedizione, ma può portare buoni frutti. Certo bisogna mettere in conto il fallimento, ma se non molli si possono verificare miracoli importanti. Credo valga sempre la pena provarci, vada come vada.

Puoi educare il tuo sguardo a riconoscere il bello o il brutto, puoi educare il tuo corpo a seguire la musica o educarlo all’immobilità. Puoi educare il tuo orecchio all’ascolto o puoi educarlo a non far conto dei rumori fastidiosi. A tuo piacere. La questione dell’educare ha risvolti interessanti perché prende in considerazione un potere personale che viene affermato senza violenza, con la fermezza e costanza, e prende in considerazione un periodo medio-lungo per poter garantire un risultato visibile.

Educare, venire educati. Quando qualcuno cerca di educarti, se il oggetto della questione stride con il tuo sentire, lo puoi anche vivere come costrizione e umiliazione. Sarebbe utile affidarsi a chi quell’educare lo sa tradurre in accompagnamento e non cede all’impulso dell’imposizione.

Credo che il verbo educare abbia molto a che fare con la dolcezza e l’equilibrio, con la calma e il sorriso. Con queste premesse essere educati prende il senso pieno del vivere bene e del crescere felice.

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