(987) Discontinuità

Il mantenere un certo tipo di comportamento con continuità è un bell’allenamento mentale. Bisognerebbe farci caso, in questo campo siamo un disastro.

Per esempio: entri in un luogo per la prima volta durante la giornata e saluti (se sei una persona educata). Ok, lo si fa una volta sì e dieci no. Sommando questa cosa piccola ad altre diecimila piccole discontinuità il nostro comportamento risulta folle agli occhi di chiunque abbia l’ardire di frequentarci. E siccome siamo tutti un branco di fuori di testa, questo circo ci pare NORMALE. 

No, non è normale. Non è per niente normale, è da fuori di testa. Da scorbutici, da disturbati, da disadattati, rendiamocene conto.

Ci lamentiamo che non ci si può fidare di nessuno, ottimo. Ma come ti puoi fidare di qualcuno che un giorno ti saluta sorridente e il giorno dopo perché ha le palle girate per i cavoli suoi fa finta di non vederti anche se ti viene a sbattere addosso? Ma siamo seri!

Ci sono piccole cose che applicate con costanza permettono di costruire un rapporto di fiducia con chi ci sta vicino. La coerenza, la costanza, la continuità, ci aiutano in questo. Non possiamo far finta che non contino nulla e pretendere di avere relazioni di sostanza nella nostra vita. Ma per favore!

Prendiamoci cinque minuti al giorno per fare mente locale e considerare come ci siamo comportati durante le ultime 12 ore di vita sociale, ne scopriremo delle belle, garantito.

Vabbé, con una certa continuità, ammettetelo, ora la pianto di blaterare e me ne vado a letto.

Cia’

 

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(939) Target

Ogni tanto sarebbe bene guardarsi come target del nostro agire. Nel senso che ci dovremmo considerare i destinatari del nostro fare/non fare e pensare/non pensare. Secondo me sarebbe un bell’allenamento. Ci preparerebbe ad affrontare ogni circostanza ci si presentasse davanti.

Quando capita di pensare cose che ci creano degli scompensi, nel senso che non ci fanno stare bene con noi stessi, ecco – forse – è perché non stiamo dando soddisfazione a quelle aspettative che ci siamo fatti crescendo come siamo cresciuti (lo so, un po’ contorto, ma portate pazienza).

Siamo scontenti di noi stessi, ci stiamo deludendo alla grande, ma ce la prendiamo con il resto del mondo. Noi (come target del nostro fare/non fare) siamo insoddisfatti non soltanto del risultato ma – forse e soprattutto – di quello che abbiamo fatto/non fatto per raggiungere quel risultato. Non è la risposta del resto del mondo che ci rende infelici, ma quello che abbiamo fatto/non fatto per arrivare fin lì. Complicato? Solo se lo si concettualizza, non se lo si pensa applicato nella pratica.

Nel mio caso, quando non reagisco con prontezza e mi perdo in elucubrazioni senza senso mi do sui nervi. Il risultato è che non solo perdo mordente nella situazione specifica, ma pure mi innervosisco per essere evidentemente un’incapace. Le aspettative che ho nei confronti di me stessa vanno a franare miseramente e mi incazzo. Con chi? Con il resto del mondo – ovviamente – e con me.

Se mi immaginassi target della mia comunicazione, mi tratterei con più cura. Mi immedesimerei con più partecipazione perché fallire l’obiettivo sarebbe per me insopportabile. Un’assurda iperbole, ma vera più del vero.

In poche parole mi tratto peggio di quel che farei con un cliente che mi chiedesse di occuparmi del suo personal brand. E ho detto tutto.

Sì, dovrei fare le valigie e andarmene da me. Non mi merito affatto.

 

 

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(862) Battito

Un tocco, ripetuto, con un suo ritmo e un suo respiro. In realtà, il tocco può mutare il suo respiro. Accelera e decelera, seguendo spesso quello che sente. Agitazione, tranquillità, piacere, fastidio… i battiti ci raccontano come stiamo. Ci raccontano chi siamo. 

Mi accorgo spesso che il mio battito mi sta dicendo cose che non capisco. O cose che non voglio capire. Soprattutto. Sono molte le cose che non voglio capire, molte le cose che temo di capire. Non so il perché. 

Le cose che capisco, solitamente, attraversano il mio corpo. Quelle che capisco meglio sono quelle che mi crollano addosso. Lì non posso far altro che registrare l’evidenza delle cose e arrendermi. Non mi viene facile arrendermi. Non lo so perché. Non è una scelta, suppongo, semplicemente non mollo finché non sono sfinita. A volte anche stupidamente, lo ammetto, ma essere stupida fa parte del pacchetto. Non è che una può essere intelligente tutto il tempo. L’intelligenza è stancante.

Fatto sta che i miei battiti, ultimamente, sono cambiati. Senza avvertirmi, per di più. Me ne sono accorta per lo scoramento che mi portavo addosso da un bel po’. A un certo punto, per sfinimento più che altro, mi sono fermata e mi sono chiesta che diavolo stesse succedendo. Rincoglionimento isterico? (suona come un ossimoro, lo so, e lo è, quindi immaginiamoci il mio stato)

Sì, uno stato nevrotico che non è da me. Non è da me. Non è da me, diavolo!

Va bene, appurato questo concetto basico ho cominciato a far caso ai miei battiti. Era una vita che non ci pensavo. Avevo archiviato la questione, come se la questione potesse essere archiviata. Quando sono stupida lo sono pienamente. Una sorta di apoteosi della stupidità condensata in un corpo solo. Meriterei un applauso. Comunque sia, ho ritirato fuori dall’archivio la questione e mi sono arresa all’evidenza. Faccio fatica ad arrendermi, ma quando sei arrivata al capolinea non è che hai altra scelta. Quindi l’ho fatto. Mi sono consegnata – rassegnata – ai miei battiti e, come se non aspettassero altro, hanno mollato il tamburellamento ossessivo. Mi sono rasserenata. Così.

Ora mi trovo in una situazione curiosa di rassegnata serenità. Che è strano. Che non può durare a lungo. Che sto studiando per capire come diavolo riesco sempre a non capirci un tubo di me. Nonostante gli sforzi, nonostante l’impegno, nonostante l’allenamento. Proprio niente.

Per fortuna ho questo battito. Che respira. E respira. E respira.

Per fortuna.

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(503) Incanto

Non lo so se l’incanto – quello puro – sia cosa possibile soltanto quando si è bambini (o comunque molto giovani). Non lo so se la purezza del cuore influisce sulla purezza dell’incanto, ma forse è proprio così. So che per riportarmi a quell’incanto devo dimenticarmi di chi sono e del tempo che ho trascorso vivendo, e solo in quei frammenti di perdita totale di me stessa posso rivivere l’incanto. Non capita spesso, ma capita. Non capita facilmente, ma capita. Non capita per caso, ma capita. Il fatto che capiti mi permette di credere che capiterà ancora. Finché capita posso sollevarmi dal peso degli anni e sentirmi meno lontana da quella me bambina che sapeva volare incontro all’incanto appena le era possibile e senza paura.

Se raccontassi di quella volta che rimasi catturata per la primissima volta dall’incanto e trasportata in alto fino a toccare la felicità assoluta, consumerei una trentina di pagine. Molto probabilmente perché quell’incanto mi fu spazzato via troppo in fretta e ancora ne provo una nostalgia struggente. 

Chissà quali altri incanti ho attraversato e poi dimenticato, mi piacerebbe ricordarli tutti e infilarli come perle uno dopo l’altro per tenerli in ordine e contarli come avemarie, quando la fiducia nel presente vacilla e ho bisogno di un appiglio.

Un’altra cosa mi dispiace riguardo agli incanti: non si ripetono mai. Non ce n’è uno uguale all’altro, sono tutti unici. Non puoi prevedere quando succederà un nuovo incanto, o da che cosa sarà motivato. Non puoi e basta. E quello proprio bello, quello che vorresti rivivere, una volta andato è andato. Puoi solo fartene una ragione ripercorrendolo caramente con la memoria.

Con gli incanti va così, devi solo allenarti all’affidamento. Devi dare per scontato che accadrà e che la sorpresa gli darà la spinta giusta per lasciarti lì sospesa. E fluttuerai come una bolla di sapone. E finirai con appoggiarti qua o là e scoppierai precipitando al suolo. E ti ricorderai che il sapone è scivoloso solo dopo che il tuo passo avrà decretato l’atterraggio doloroso del tuo deretano. 

Ma ne vale la pena. Per un incanto, questo e altro.

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(485) Intrecciare

Mi piacciono i capelli lunghi per tutti quegli intrecci che si possono inventare per creare acconciature spettacolari. Ho i capelli lunghi, non me li faccio mai intrecciare da nessuno perché odio che mi si tocchino i capelli – ma io non faccio testo e rimango dell’idea che intrecciare i capelli sia un’arte incantevole.

Intrecciare le vicende di una storia è pane per i miei denti – evviva i luoghi comuni! – e in questo caso è un’arte che pratico tanto e volentieri perché sono convinta che prima o poi diventerò brava, talmente brava da incantare tutti.

Intrecciare relazioni umane mi viene bene a fasi alterne, alle volte me lo potrei proprio evitare, ma con gli anni ho capito un paio di cosette utili e i miei intrecci sono meno rischiosi e meno definitivi di un tempo. In questo caso sto diventando proprio brava, sempre più eremita, ma proprio brava.

Intrecciare le cose della vita è qualcosa che faccio mio malgrado, solo perché le cose della vita mi capitano tra le mani e tra i piedi e in un modo o nell’altro qualcosa mi devo inventare altrimenti qui non si va avanti. Ho il sospetto che così fanno tutti, ma ho anche la certezza che c’è chi lo fa ben meglio di me, talmente bene che io nonostante l’impegno e l’allenamento non riuscirò mai a raggiungere certi livelli di sapienza. Me ne farò una ragione.

Tutto questo per far presente a me stessa che il fatto che non mi taglio i capelli da un paio d’anni è ridicolo. Faccio pratica d’intreccio ogni giorno, in diversi ambiti, e se mi accorcio un po’ la chioma non succede niente. Ecco.

 

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(19) Sapore

Far caso al sapore delle cose è impegnativo. Se fai il mio mestiere, è d’obbligo almeno farci caso, se non addirittura analizzare ogni sapore per capirne le origini e le destinazioni.

Devi stare fuori e dentro alle cose in contemporanea. Dentro per assaporarle e fuori per analizzare ciò che hai colto in quel sapore. Faticoso.

Dopo un po’ che lo fai, la fatica non la senti più, l’impegno non lo senti più, quello che senti è il sapore. Anche quando non vuoi farci caso, anche quando non ti serve farci caso, anche quando farci caso non è cosa saggia o intelligente.

Hai fatto tua la tecnica e quella parte in quarta senza che tu le dia l’ok per partire. Dannazione!

Allora ti trovi in un posto e cominci a sentirne il sapore, stai parlando con una persona e il sapore ti impregna il cervello, guardi una situazione e il suo sapore ti fa venire voglia di scappare a gambe levate. Sei passato dal costringerti nell’analisi del sapore al costringerti a non scappare ogni qualvolta il sapore ti fa venire la nausea. Devi rimandare a dopo il tuo malessere.

Ecco la fatica di nuovo, ecco l’impegno di nuovo, ecco il fastidio.

La fase successiva è: turati il naso e rimanda l’analisi del tuo fastidio a dopo, altrimenti manco ti ci metti in certe situazioni, con certe persone, in certi luoghi. Comprendere che sentire il sapore delle cose è un elemento fondamentale per scegliere liberamente che cosa fare e dove stare è la chiave per non mandare tutto al diavolo.

Qui si tratta di allenamento.

Adelante Sancho!

b__

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