Ogni tanto mi fisso con una parola [apparentemente random] e inizio a scavarla. Una sorta di buca nella quale infilarmi. Attorno la parola rimane intatta, ma io ormai ci sono dentro e da quella posizione mi illudo di poterla comprendere meglio. Non so perché lo faccio, immagino sia un tentativo di auto-rassicurazione, come se rendendomela familiare quella parola diventasse rifugio per i momenti difficili.

Ognuno si diverte a modo suo, quindi non lo sto scrivendo perché penso sia qualcosa da sbandierare (alla fine chissenefrega di quello che faccio, giusto?), lo sto esplicitando perché la questione della familiarità è diventata la fissa di queste settimane e finché non ne scrivo la scimmia non passa. Voglio capire per quale ragione questa cosa non mi stia lasciando in pace.

Partiamo dal presupposto che per mantenere una certa oggettività ci si affida a un testo ufficiale, il dizionario. Ecco la parte del lemma che mi interessa per quanto riguarda il concetto di familiare:

familiare (meno com. famigliare) [dal lat. familiaris, der. di familia “famiglia”]. – ■ agg. 1. [proprio della famiglia o ad essa riconducibile: abitudini f.; atmosfera f.] ≈ casalingo, domestico. ‖ intimo. ↔ estraneo, forestiero. ‖ formale, freddo. 2. (estens.) a. [che non risulta nuovo: paesaggio, luogo f.] ≈ conosciuto, noto. ‖ abituale, comune, consueto, ordinario, solito. ↔ ignoto, nuovo, sconosciuto. ‖ estraneo, inconsueto, insolito, raro.

Quello, invece, che voglio sottolineare in  familiarità è questo:

Per estens., e fig., consuetudine o pratica che s’acquista con i continui contatti, con l’esercizio assiduo: prendere, acquistare f. con una lingua, con un’arte, con una scienza, con un mestiere, o con l’uso di uno strumento, di un’arma, ecc.

In pratica, quello che ci risulta familiare – perché in un certo qual modo conosciuto e/o praticato – cessa di essere percepito come pericoloso o minaccioso. Diventa anche se spiacevole, o addirittura odioso, gestibile dalla nostra mente. Una parte di noi si rassegna al fatto che quella cosa/condizione/situazione esista e che ci si debba adeguare per sopravvivere. Spesso anziché opporsi e subirne le conseguenze si decide, più o meno consciamente, di sistemarsi/adattarsi in modo da non esserne troppo danneggiati e (ripeto) sopravvivere.

Un certo tipo di linguaggio, soltanto perché lo conosciamo e ci è familiare, può nascondere insidie velenose che alterano la percezione del reale significato che si porta addosso. Un certo modo di scherzare, soltanto perché lo abbiamo sempre praticato, può essere l’origine di ferite che non smetteranno mai di sanguinare. Un certo atteggiamento che siamo soliti subire da qualcuno che ci guarda in quel modo perché ci considera poca cosa, anche se ci è familiare tanto da poterlo descrivere in ogni dettaglio, non smette mai di essere letale (goccia dopo goccia).

La familiarità è una trappola.

Anche quando comporta vicinanza e intimità sana, quindi non minaccia e non pericolo. Faccio un esempio: un viso familiare che non guardi più con meraviglia. Dimentichi che è bello e che appartiene alla persona che ami, la tua mancata attenzione sottrae intensità all’amore che puoi donare. Non sarebbe imperdonabile?

La familiarità è un limite.

Ti fa adagiare su un cuscino comodo dove ti appisoli perdendoti il meglio, che è la sorpresa e la scoperta.

Cosa dire riguardo alla familiarità che avvolge il nostro “essere” corpo-mente-anima? Rischi di non vederti più, di non sentirti più, di non percepirti più vivo…

La familiarità è ambigua: è rifugio e oblìo, ti fa dimenticare la paura di tutto quello che non conosci. Eppure è quello che ancora non conosci che ti arricchisce spingendoti oltre i tuoi confini. Al di là può esserci la tua salvezza.

L’equilibrio, in questo caso, si mantiene se riesci a lasciarti cadere nel vuoto quando quello che conosci ti sta facendo male, credendo che in quello che ancora non ti è familiare (fosse anche solo uno stato d’animo diverso) potresti trovare una condizione migliore in cui vivere (e non semplicemente sopravvivere).

Credo. [pensiero in work in progress]

A questo punto mi si presenta una domanda: quanto sei disposto a rischiare per salvarti?

 

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