(877) Confini

Non sono segnati da una mappa, da una cartina geografica, dove diventa preciso il punto in cui poggi il piede in terra non tua. Perché è tua la terra in cui nasci, le altre le fai tue – se vuoi – e sono sempre scelte, anche quando obbligatorie. 

I confini tra me e te quando si oltrepassa il corpo, perché il corpo è un confine che puoi varcare solo se alla dogana te lo permettono, non sono visibili. Bisogna starci attenti.

Difendere i propri confini intimi è un casino, in certi casi è un disastro. Faccio un sacco di disastri in quei casi, riesco davvero sempre a fare un sacco di disastri. Patologico, direi. 

Quando entri in territorio non tuo ti devi imporre delle regole e devi importi una disciplina ferrea nel rispettarle, stai camminando dove non dovresti neppure esserci, non puoi dimenticarlo. Mai.

Eppure. Eppure. Eppure. Si sconfina e si fa un po’ come cazzo ci pare. Così. 

I confini che l’uomo ha imposto alla Terra dapprima erano un modo per prendere le misure – dove sono, fin dove posso spingermi, dove finisce il cammino, cosa c’è qui e cosa c’è là – e poi è stato un modo per difendere le terre addomesticate. E poi è diventato un modo per respingere chi stava fuori, in altre terre, e si spostava. Per ispirazione o per necessità. E oggi è un modo per schiavizzare chi ha meno, perché derubato da chi ha di più. 

Non portando più rispetto per i confini della nostra Terra, quelli segnati dai fiumi, dalle montagne, dal mare, dalle foreste e anche dal cielo, abbiamo pensato di poterci spingere ovunque. Di poter conquistare, conquistare qualsiasi cosa. Si dice anche “conquistare il cuore di una donna/uomo”, vero? Per noi, nel nostro cervello malato, conquista ha il significato di “appropriazione indebita”. Terribile, no?

Vabbé, dirò l’ovvio: dove troviamo un confine ci si ferma. Un attimo almeno. Ci si ferma per valutare quanto sia appropriato varcarlo. Opportuno. Giusto. Ci si pensa un po’ su. Si pesano le proprie intenzioni. Questa è la prima regola. E le altre fanno capo al rispetto, all’ascolto, alla cura. Ma che ve lo dico a fa’? 

Un minimo di disciplina, perdio!

 

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(800) Misurare

Sembra che tutto si possa misurare, vero? Sembra che non ci siano confini al pesare, al calcolare altezze e lunghezze e larghezze e vicinanze e distanze. Sembra che in questo modo riusciamo a tenere tutto sotto controllo. Se lo quantifico, se lo delimito in metri/grammi/minuti tutto diventa gestibile. 

Se ti misuro e tu misuri me non c’è modo di sbagliarsi. Tu esisti entro i confini della tua misura e io della mia. Ci teniamo d’occhio a vicenda, sappiamo dove sono i punti di inizio e i punti di fine l’uno dell’altro. Easy.

E le complicanze? Le variabili? I dissesti? Di tutto questo possiamo fregarcene, basta chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie, girare le spalle, e tutto scompare. Tutto quello che esce dalla misurazione presa è come se non esistesse. 

Passano gli anni e quei confini si scopre che sono mobili, diventano sempre più claustrofobici, si restringono perché noi con gli anni lievitiamo, ci espandiamo, diventiamo più di quello che eravamo. Di più – sia in meglio che in peggio – perché siamo sempre una somma e mai una sottrazione di eventi, esperienze, dolori, gioie e varie ed eventuali. Più, mai meno. 

Tenersi aggiornati con le misure diventa una fatica, essere monitorati dagli altri per le nostre misure diventa irritante. Insopportabile. E allora cominci con gli scazzi, gli scarti, le finte, per sfuggire alla misurazione che in qualche modo, per qualche idiota motivo, hai sopportato fino a quel momento. E allora pensi che va bene se gli altri si limitano a misurarti anziché conoscerti, è un problema loro, non tuo. Tu puoi anche smettere di preoccupartene, puoi smarcarti dai righelli e dalle bilance, puoi ritenerti libera di  sconfinare e di farlo senza neppure aspettarti di essere compreso, senza neppure pensare di essere accettato per il tuo nuovo stato mentale. 

Puoi farlo, ormai sei grande.

 

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