(947) Anestetico

A un certo punto si inizia a capire che c’è bisogno di anestetizzarci un po’ per le cose che ci portano scompensi. Soprattutto emotivi, che sono i più fastidiosi perché non colpiscono mai un punto soltanto, ma si propagano fin dove neppure li vedi e son cazzi a sistemare tutto. Quindi, in età pre-adolescenziale inizi ad alzare le spalle, poi impari a farlo con più discrezione distogliendo l’attenzione e pensando ai fatti tuoi e poi chiudi proprio la porta appena ti accorgi che lo scompenso si sta per presentare sulla soglia.

L’anestetico funziona, ci permette di sopravvivere. Ha, come ogni farmaco, anche effetti collaterali obbligatori. Anche brutti. Uno fra tutti è che senti di meno. Senti tutto di meno. 

Perché ti anestetizzi ma non è una puntura che fai nel punto che decidi tu, lo spargi dentro di te random e da qualche parte andrà. E lui va. Va dappertutto. Significa che il tuo corpo ogni volta dovrebbe disintossicarsi per ritornare quello di prima, ma una volta che sai come attivare la procedura di addormentamento dei sensi perdi il controllo, la usi a sproposito e non te ne liberi più. L’anestetico sparso ovunque fa il suo mestiere: anestetizza. Ogni parte di te che incontra. Senza pregiudizi, senza cattiveria. Prende quello che c’è e potrebbe prendersi tutto. 

Piano piano, ovviamente, e puoi anche non accorgertene. Piano piano, ma in modo sistematico e senza ritorno. A meno che non succeda qualcosa di veramente traumatico che ti risveglia. Una disintossicazione violenta, diciamo. 

La vecchia abitudine non muore però e, appena puoi, ritorni all’uso smodato. E non sentire è brutto, non sentire niente dev’essere davvero brutto. Quell’inferno consolatorio di chi ha abbracciato l’indifferenza come filosofia e ha giurato di farla pagare a tutti. Chi c’è c’è. 

Evviva.

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(624) Gongolare

Ho imparato a farlo con una certa eleganza, lo faccio nel mio intimo e nessuno se ne accorge, ma lo faccio. Questa la mia confessione. Ecco.

Lo faccio quando vengo mal tarata, mal valutata, mal considerata e poi – alla luce dei fatti – si viene a scoprire che oggettivamente avrei potuto essere io quella giusta. Ossì, è capitato, molto molto spesso, e ho gongolato. Non sempre felice, spesso con amarezza, come se avessi perso importanti treni che mi avrebbero portato chissà dove, e magari mi avrebbero davvero fatto fare il giro del mondo, chi lo sa? Ma le cose vanno come vanno e mi sono anche andate bene, non posso lamentarmi.  

Eppure, questi giudizi e pregiudizi prima mi mortificavano, mi mettevo in discussione fino a disintegrare ogni cellula di amor proprio e finivo con lo sposare io stessa quella visione svilente che mi era stata cucita addosso – anche senza motivazioni solide – dando per scontato la giustezza di quello sguardo. Mi facevo convincere, ecco. E siccome non sono una che sgomita, che alza la voce, che si appella al diritto di essere trattata equamente (vedi alla voce: sessismo, machismo), venivo messa da parte senza neppure un “sarà per la prossima volta” – così, come gentilezza effimera eppur utile. 

Anche ora vengo messa da parte, ma… non me ne frega niente. Anzi, in certe situazioni spero di non essere presa dentro perché sarebbe soltanto una grandissima perdita di tempo. Me ne sto in un angolo e penso: “Meno male che mi ritengono un’inetta, buon per me!”. 

La soddisfazione che mi fa gongolare deriva semplicemente dalla mia consapevolezza interiore: so che potrei fare un buon lavoro, so che potrei essere la persona giusta, ma non serve né dirlo, né dimostrarlo, né sottolinearlo, né farlo presente in altro modo. Non serve. Fatica inutile, spreco enorme di tempo e di energie. Però, gongolo. So che potrei, non sarà, ma potrei. E allora non c’è più mortificazione, non c’è più autoflagellazione, non c’è più svilimento. C’è solo la realtà delle cose che è complicata e che sfugge al controllo e che può cambiare di secondo in secondo e che va così come deve andare. Sempre al rovescio.

Gongolo perché ho imparato a valutarmi con obiettività. Una grande grandissima crescita per una bambina complessata che, comparandosi agli altri, pensava di essere sempre lei quella sbagliata.

Gongolo, in silenzio, abbracciandomi un po’. Eh.

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(582) Morso

C’è questa cosa strana e fastidiosa che succede quando stai tentando di far comprendere al tuo interlocutore che sì, hai capito dove vuole portarti col suo ragionamento, ma la conclusione che a lui preme tanto per te è ininfluente. E lui ovviamente ti spiega per filo e per segno la logica che a te sembra sfuggire. Non sei in disaccordo con lui, no, non capisci. Quindi per farti capire meglio la voce rallenta, il concetto viene ripetuto per diverse volte e l’intercalare diventa: capisci, ora? Ti è chiaro?

Ed è preso così bene dal suo spiegare ed estrinsecare concetti aulici che tu – per quanto ti impegni – non riuscirai mai a cogliere l’arguta teoria e lui non si ferma e non si ferma e non si fermerà finché per sfinimento – perché ammettilo che non hai altra possibilità – non gli darai ragione.

Se un cavallo si trovasse in una situazione come questa, ma un cavallo è troppo furbo per trovarcisi, con uno scatto fulmineo del maestoso collo gli mollerebbe uno di quei morsi che farebbero zittire chiunque e per sempre. E adorerei poter essere un cavallo per farlo, davvero. Anzi, no, una cavalla. Perché in questo modo lo stupore sarebbe ancora maggiore e anche l’umiliazione che il demente si troverebbe a dover gestire sarebbe più bruciante.

Il concetto di base è che non mi servono spiegazioni, penso che la tua logica sia stata strutturata su fondamenta traballanti, che quello non sia il punto cruciale su cui discutere, che potrebbe anche essere utile, ma di sicuro non servirà a nulla se avessi il buonsenso e la gentilezza di rivolgere altrove l’attenzione, esattamente dove ti sto indicando io che – da donna – potrei darti la chiave per fare un salto quantico e trovare giovamento alla tua povera visione e per il tuo povero essere uomo. Arrogante, supponente e strapieno di pregiudizi mortificanti.

No, non tutti gli uomini, soltanto gli ometti come te.

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